Cina, Corea, etc. – puah: vi abbiamo riacciuffato. L’Italia nei G5. Sì, come nello splendore della Prima Repubblica, il Bel Paese si piazza nella cinquina in cima al mondo. Non nella classifica di PIL ed influenza, però: per la lista proposta da Netflix rispetto ai cinque individui più ricercati del mondo, la miniserie documentaria World’s Most Wanted.
Ci abbiamo piazzato Matteo Messina Denaro, il superboss amante dei giochi Nintendo ancora latitante, il sopravvissuto (chissà come mai) alla distruzione della mafia post-Falcone&Borsellino, quello in grado di sparire più ancora in profondità di Binnu Provenzano, che si era isolato per anni in una casale di campagna con il solo conforto della ricotta ivi prodotta, di una Bibbia, di un mangiacassette dove era registrata la sigla di Beautiful e la biancheria lavata e stirata dalla moglie (il dettaglio che lo fregò: l’antimafia seguì il giro di questa fatale cesta della lavanderia, e lo scoprì).
Voi capite: Messina Denaro, per essere ancora più invisibile di così, chissà di quale potere deve disporre. Noi ce lo siamo sempre chiesti. Tuttavia la serie di Netflix non dà una risposta vera.
World’s Most Wanted: 5 episodi per 5 bad guy
È sempre singolare vedere l’Italia con l’ottica di una produzione straniera: il nome ad americani e foresti vari non dice nulla, per noi invece è una sorta di fantasma che torna ripetutamente a visitarci nei decenni, talmente inconsistente che non sarebbe da stupirsi se le nuove generazioni magari pensassero che si tratti solo di una leggenda.
La verità è che tutti i nomi della serie in 5 episodi, uscita nell’agosto 2020, al pubblico dei Paesi di cui non sono cittadini non dicono un granché. Vi sono quattro nomi oltre a quello di Messina Denaro, sul cui episodio non scriveremo molto altro, perché siamo certi sarà quello che molti lettori andranno a visionare subito-subito.
Per intendersi: World’s Most Wanted è un prodotto che si lascia guardare, girato con la solita capacità di spaziare tra i continenti, alternando riprese apollinee e spezzoni di filmati d’archivio, che hanno oramai praticamente tutte le produzioni documentarie di Netflix, HBO etc. Lo streaming ha aperto un’età dell’oro per la cinematografia documentaria?
Forse sì. Ma non sempre i nuovi documentari che vediamo sanno andare a fondo. In questo nostro approfondimento proveremo anche a tracciare legami e influenze che alcune di queste figure reali hanno avuto sulla creazione di storie e racconti di “finzione”.
¡Que viva México!: l’ispirazione di molte serie
C’è il messicano Ismael «El Mayo» Zambada García, considerato il dominus del cartello di Sinaloa, ovvero il capo di una delle più letali e chiacchierate organizzazioni di trafficanti del mondo. L’episodio che apre la serie è dedicato a lui.
El Mayo supervisionava il traffico di cocaina ed eroina a Chicago e in altre città degli Stati Uniti da aerei, narcosub, navi portacontainer, barche veloci, pescherecci, autobus, vagoni ferroviari, rimorchi per trattori ed automobili.
Vi dirà più il nome dell’altro boss con cui El Mayo controllava il cartello: Joaquín «El Chapo» Guzmán». El Chapo è oggetto di infiniti altri documentari e serie in streaming, tuttavia non essendo più latitante non era possibile metterlo in lista, anche se la sua vita offre decisamente grandi spunti di intrattenimento a quanti amano Scarface, Breaking Bad etc.
Nonostante tutto, l’episodio dedicato al Mayo, non si rivela memorabile, anche se il personaggio dà buoni spunti alla ditta: El Mayo compare anche nella terza stagione di Narcos.
Non siamo i vatussi
Più interessante il caso di Félicien Kabuga, l’uomo accusato di essere il finanziatore di quello che rimane uno dei misteri più tetri dei nostri anni: il fulmineo genocidio dei tutsi (cioè, i watussi della famosa canzone) in Ruanda.
Il miliardario africano, strettamente collegato al partito nazionalista hutu MRND del dittatore Juvénal Habyarimana e all’Akaz (un gruppo informale di estremisti hutu distintisi nel genocidio ruandese contro i tutsi), era un imprenditore dell’informazione.
Nello specifico, la gente ancora con voce tremante parla della stazione radio RTLM, dalla quale partirono i proclami che accesero la pulizia etnica. Attorno all’emittente resta uno strano alone mistico un po’ africano, quasi che le sue onde radio fossero in grado di attivare i belluini istinti di morte di chi li ascoltasse. Quest’idea è finita in vari racconti di fantascienza e fantapolitica, ad esempio nell’episodio Follia genetica (S02E03) della serie di fine anni Novanta Millennium. L’episodio di World’s Most Wanted ha il merito di far sentire un brano di questa radio del male, e di intervistare una delle speaker, ora in teoria redenta, forse pure troppo.
Kabuga contribuì a finanziare l’importazione di massa di 500.000 machete in preparazione al genocidio tra il gennaio 1993 e il marzo 1994. Il ruandese, dopo una lunga latitanza belga, viene arrestato. Colpisce certo la faccia tosta che ha nel mettersi nei canali di espatrio dei rifugiati, le stesse persone di cui egli aveva finanziato lo sterminio. Ma colpisce altresì il fatto che da qualche parte una copertura, in Europa (e forse, nella UE?) deve averla avuta. Anche qui, gli autori non indagano.
Nel frattempo, è notizia di poche settimane fa che la Francia, per bocca del presidente Macron in un suo discorso pubblico, ritiene di non essere stata complice del genocidio, anche se un rapporto recente sosteneva che invece avesse chiuso gli occhi permettendo che l’Inferno si scatenasse sulla terra in un batter d’occhi.
Non troverete menzione nemmeno delle beghe attuali del Ruanda, anche quelle spettacolari quanto incresciose: l’attuale presidente ha fatto rapire il protagonista della storia dietro Hotel Rwanda, divenuto un oppositore di governo in esilio in USA. Gabbato da un gruppo che diceva di volerlo portarlo a predicare nella vicina Uganda, si è ritrovato nelle carcere ruandesi accusato di essere un terrorista che stava tramando golpe.
Con l’eccezione di un ricco reportage del New York Times, anche di questa storiaccia non sentirete parlare molto sui giornali, e nemmeno nel documentario Netflix.
Il capo dei capi dei russi
Nel contesto della russofobia globale propalata a piene mani dagli americani, non potevano mancare in World’s Most Wanted i russi, ma qui serve capirsi: la mafia russa che in genere interessa è quella che si è stabilita, magari a partire dall’immigrazione di tanti ebrei nei primi anni Novanta, nelle grandi città americane, con «famiglie» criminali in grado di rivaleggiare con la vecchia mala italiana, oramai o passata di livello o fiaccata dalla persecuzione giudiziaria iniziata con Rudolph Giuliani.
Della mafia locale della Russia, quella che si diceva essere rampante durante gli anni Eltsin, c’è un pensiero preciso: è scomparsa, o si è inabissata totalmente nell’era Putin, che si racconta abbia perfino fatto capire chi comanda ad un boss che, senza sapere cosa stava facendo, maltrattò il fidanzato della figlia a seguito di un incidente stradale.
Più invitante, decisamente, parlare di oligarchi e siloviki, le figure che hanno conquistato il capitalismo e il potere profondo della Russia post-’91. Abramovič, Berezovskij, e tutta la congerie di storie, a volte violentissime, dei russi a Londra (quelli che vedete nella serie britannica McMafia)… e poi la ridda di personaggi attorno a Putin, su cui si vocifera molto: gestiscono miliardi e contractor, operano in Siria e in Africa. Ma non è questo il caso.
Forse perché non può dire che nessuno di questi personaggi è latitante, Netflix invece decide di concentrarsi su altro: il vecchio «mafioso» del caos degli anni Eltsin Semën Mogylevyč, considerato il «capo dei capi» di tutte le mafie russe, descritto dall’FBI come «il mafioso più pericoloso del mondo», accusato sempre dall’FBI, che lo aveva messo nella Top 10 Most Wanted List di «traffico di armi, omicidi a contratto, estorsione, traffico di droga e prostituzione su scala internazionale».
Si rimane basiti nel vedere come il boss potesse entrare ed uscire da Paesi stranieri, come la Cechia, dove gli era possibile rovinare la carriera di poliziotti con lo schiocco delle dita.
Il Mogylevyč veniva dalla comunità ebraica di Kiev, e pare che recentemente fosse coinvolto nella disputa energetica tra Russia e Ucraina tramite l’azienda RosUkrEnergo, che di fatto controllava. Oleksandr Turčynov, designato presidente ad interim dell’Ucraina nel febbraio 2014, è comparso in tribunale nel 2010 per presunta distruzione di fascicoli relativi a Mogylevyč.
Curiosità non rivelata qui: il suo avvocato per gli affari americani fu proprio (gustosissimo) l’ex direttore dell’FBI William Sessions, che capeggiò il Bureau durante le presidenze Reagan e Bush senior.
La serie non riesce a spiegar bene il colpo di scena: proprio quando Mogylevyč sembrava indistruttibile, viene arrestato in Russia. Viene da pensare che, nonostante Litvinenko (ricorderete: l’ex agente russo avvelenato con del sushi al polonio radioattivo a Londra mentre cenava con una spia italiana) avesse detto che tra Putin e Mogylevyč i rapporti fossero buoni, proprio il primo abbia mandato un segnale potentissimo al secondo.
Dipanare questa eventualità per lo spettatore medio significa mettergli il cervello in dissonanza cognitiva, forse pensano gli autori. Non sappiamo se sia peggio questa mancanza di rispetto o la possibilità che sia semplicemente malafede: la russofobia deve comunque dominare il panorama dei media statunitensi.
La vedova che abbisogna di una serie sua
Decisamente, l’episodio e il personaggio più interessanti di World’s Most Wanted convergono nella figura di Samantha Lewthwaite, detta la vedova bianca, un personaggio che sarebbe eccessivo perfino per un film di 007, perché di Bond girl con il velo ancora non ne abbiamo viste.
La Lewthwaite è de facto la donna più ricercata al mondo, secondo l’Interpol. È accusata di aver pianificato il massacro di almeno 400 persone: le stragi più cruente in Africa, quelle degli Shebaab, i terroristi somali che rapirono la nostra cooperante l’anno scorso, con cristiani trucidati a centinaia.
Samantha fu segnata dal divorzio dei suoi genitori. Vedendo lo sconquasso della famiglia moderna, vide nei vicini musulmani un esempio di stabilità esistenziale. Si convertì alla religione maomettana radicale. Il suo primo marito fu Germaine Lindsay, uno degli attentatori suicidi che si fecero esplodere sulla Piccadilly line della metropolitana di Londra tra King’s Cross e Russell Square. All’epoca, a 23 anni, aveva già due figli, e pareva particolarmente brava a cercare i giornali dove piangere la sorte del marito, dicendo che non ne sapeva nulla, che il coniuge terrorista era stato «radicalizzato» da qualcuno.
Le inchieste sulle bombe di Londra tuttavia ricostruirono come la Lewthwaite avesse contatti con Mohammad Sidique Khan, l’uomo considerato architetto delle stragi londinesi. Lei sparì nel nulla.
Si risposò con un altro terrorista di matrice britannica, Abu Usama al-Pakistani, ma venne rese vedova un’altra volta: fu trucidato dagli Shebaab in quanto seguace di uno scissionista. L’illazione che fanno alcuni giornali britannici è che adesso la vedova avrebbe sposato un altro capo degli Shebaab.
Lewthwaite riesce misteriosamente a salvarsi dalle incursioni della polizia in Kenya, che la mancano di pochi minuti.
Nel frattempo, ci sono la strage del Jericho Bar di Mombasa dove gli avventori guardavano Italia-Inghilterra agli Europei; anche nella strage, rivendicata, del centro commerciale Westgate a Nairobi, che causò 71 morti e circa 200 feriti, ci sarebbe secondo i media britannici, lo zampino della vedova bianca.
La sua immagine incute paura nel Regno Unito della gioventù edonista del turismo globale: la vedova è accusata dai giornali di star preparando attacchi nelle spiagge mediterranee – Spagna, Grecia, Cipro, Canarie, etc. – sullo stile del massacro in spiaggia in Tunisia nel 2015.
Nel 2018 il giornale britannico Daily Star stampa delle affermazioni davvero inquietanti.
La Lethwaite «ha fatto da mentore a dozzine di donne terroriste e favorisce le convertite bianche all’Islam perché ritiene che attirino meno sospetti da parte dei servizi di sicurezza»
«Ha convinto molte donne estremiste che hanno bisogno di sacrificare la propria vita se vogliono essere vere servitrici dell’Islam. La Lewthwaite va a caccia di donne molto vulnerabili che possono essere facilmente manipolate»
Insomma, una storia bella completa, con un arco di sviluppo del personaggio che ha impegnativo eco con le cronache recenti: si è convertita liberamente all’Islam radicale, ha sposato un terrorista, si è fatta fotografare ed intervistare dai media, è andata in Kenya e in Somalia ad organizzare stragi terroriste per Shebaab – è incredibile come con il caso della cooperante a tener banco sui media nazionali nessuno abbia tirato fuori il caso di Samantha Lewthwaite, detta anche «la Vedova Bianca».
La vedova bianca meriterebbe una serie tutta sua. Fatta bene, però: senza tante carte coperte lasciate lì sul tavolo – il vero problema di questa World’s Most Wanted.
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