Se quando oggi diciamo “documentario” borbotta meno gente di qualche anno fa, è anche grazie a Wild Wild Country. Intendiamoci: la straordinaria docuserie in 6 parti prodotta da Netflix non ha inventato il genere. La pratica documentaristica è, in un certo senso, vecchia quanto il cinema. Ma con la sua uscita, nel 2018, ha decisamente contribuito alla sua evoluzione. Aiutando da un lato il pubblico a comprendere la forza potenziale di questo linguaggio. E dall’altro favorendo la stessa ridefinizione e trasformazione del discorso documentaristico nell’epoca della serialità. Cioè del racconto a puntate, lungo, complesso, articolato, coerente, corale.
Di base, questo show è uno di quelli che fanno piazza pulita del vecchio preconcetto “documentario = noia”. Una storia così fareste fatica a crederla, se non fosse vera. E Wild Wild Country è una delle cose più vere e potenti viste in tv negli ultimi 10 anni: insieme bella ed emozionante, irresistibilmente divertente e radicalmente drammatica.
Merito, certo, della vicenda in sé: enorme, strepitosa. Nel 1981, l’acclamato e popolare maestro spirituale Bhagwan Shree Rajneesh (meglio noto come Osho) lascia l’India e si trasferisce negli USA. Qui, nel deserto dell’Oregon, un gigantesco ranch viene trasformato nella comunità di Rajneeshpuram, forte di 5000 adepti. Ma come fa il sogno utopico di creare una città perfetta a portare al peggior attacco bioterroristico della storia degli Stati Uniti? E cosa c’entra la più grande collezione di Rolls-Royce al mondo?
Se ancora non basta a incuriosirvi, considerate questo. Vincitrice del premio Emmy come Miglior Serie Documentario, lo show ha pure alimentato un dibattito globale sulla libertà religiosa, sui limiti della tolleranza e sul potere carismatico dei leader spirituali.
Tra documentario e cinema
Realizzata nel 2018 dai fratelli Maclain e Chapman Way, Wild Wild Country rappresenta una delle produzioni documentarie più curate e ambiziose di Netflix. I sei episodi, tutti sopra i 60 minuti, producono una narrazione avvincente che combina la potenza delle immagini d’archivio con l’intensità delle testimonianze dirette. I fratelli Way hanno poi, in anni successivi, dato vita a un interessante format documentaristico sportivo chiamato Untold (qui abbiamo raccontato l’incredibile La fidanzata inesistente).
Il titolo della serie è tratto dalla canzone di Bill Callahan Drover, che compare in modo significativo nell’episodio finale. E richiama anche i commenti di Jane Stork (Ma Shanti Bhadra) quando vede per la prima volta il ranch, all’inizio del secondo episodio: “Era semplicemente così selvaggio, così aspro, ma vasto – davvero una terra selvaggia”.
I fratelli Way scelgono di raccontare la vicenda con un approccio coraggioso e potenzialmente contraddittorio: rigore ed equilibrio nella ricostruzione fattuale, ma una forma accentuatamente narrativa, a volte persino epica. Un documentario, certo, ma raccontato come una storia: con la suspense di un thriller, l’inquietudine di un mistery, la potenza di un dramma. Coerentemente, la docuserie utilizza una fotografia che valorizza gli spazi aperti dell’Oregon, contrapponendoli agli ambienti chiusi della comunità Rajneeshee, simbolo delle tensioni tra utopia e realtà. La colonna sonora, evocativa e inquietante senza essere invasiva o mistificante, amplifica il senso di sospensione e mistero.
Ma tutto questo senza compromettere la giusta scelta di raccontare la vicenda nel modo più onesto e plurale possibile. Facendo parlare solo ed esclusivamente figure che ne hanno fatto parte. Nessun narratore, nessuna ricostruzione drammatizzata a posteriori. Solo registrazioni, fatte ai giorni nostri, di molti tra quelli che all’epoca furono protagonisti della sconcertante serie di eventi. Alternate a spezzoni d’archivio, riprese interne, servizi tv, atti ufficiali delle indagini, documentari di allora.
Dal sogno all’incubo: la storia di Wild Wild Country
E andiamo dunque a vedere meglio la storia. Il primo episodio introduce la figura di Osho e il trasferimento dei suoi seguaci dall’India all’Oregon, dove acquistano un ranch isolato per fondare Rajneeshpuram, una città utopica basata sui principi del guru. L’espansione della comunità entra rapidamente in conflitto con i residenti locali, una cittadina conservatrice che percepisce i Rajneeshee come una minaccia.
Nei successivi episodi, la tensione si intensifica: Sheela, portavoce carismatica e controversa del movimento, guida una campagna per acquisire potere politico, registrando nuovi elettori per influenzare le elezioni locali. Letteralmente straordinario il piano attuato dal gruppo: trasferire nel ranch centinaia di senzatetto e disperati. Non (solo?) per offrire loro un percorso di redenzione, ma più prosaicamente per sfruttare il loro diritto di voto: e conquistare così il controllo politico della contea.
Ma non basta, perché quando gli scontri verbali e legali si trasformano in azioni più aggressive, la comunità si militarizza. Acquistando armi, iniziando ad addestrare una propria milizia, adottando misure di sicurezza straordinarie. Il punto di svolta arriva con il quarto episodio, che rivela l’incredibile verità sull’attacco bioterroristico del 1984: i Rajneeshee contaminano con salmonella i buffet di ristoranti locali, nel tentativo di manipolare le elezioni. Questo evento, che colpisce oltre 700 persone ed è ad oggi il più grave attentato bio-terroristico nella storia americana, segna l’inizio della fine per Rajneeshpuram.
Il cerchio si chiude sui leader, mentre la comunità implode. L’ormai apertamente rinnegata Sheela fugge in Germania, dove verrà arrestata: nel frattempo si è scoperto che per mesi aveva drogato il maestro per tenerlo buono, mentre costruiva un impero religioso, militare e commerciale. Bhagwan, dopo un drammatico e grottesco tentativo di fuga in aereo, viene arrestato (e poi espulso dal Paese). Il ranch si spopola.
Osho: guru del desiderio
Bhagwan Shree Rajneesh, conosciuto successivamente come Osho, è una figura complessa e carismatica, che incarna molte delle contraddizioni esplorate in Wild Wild Country. Nato in India nel 1931, Rajneesh si è fatto conoscere come un pensatore radicale e provocatorio. Le sue idee sfidavano le convenzioni della religione tradizionale, promuovendo una visione della spiritualità tutt’altro che disgiunta, o contrapposta, dalla dimensione materiale. Anzi, si può dire che nell’insegnamento di Osho l’orizzonte spirituale abbraccia i piaceri del corpo, in cui si completa.
La sua filosofia combinava elementi di mistica orientale con il materialismo di matrice occidentale. Proponendo una via di illuminazione attraverso la meditazione dinamica e il superamento delle inibizioni sessuali e sociali. Questo mix attirò decine di migliaia di seguaci da tutto il mondo. Trasformandolo in un’icona globale ma anche, va da sé, in un personaggio controverso.
Di contro all’immagine tradizionale dell’uomo santo, Osho non evitava il lusso. Le sue Rolls-Royce – che amava e collezionava, come gli orologi – e gli abiti sontuosi diventarono simboli di un leader che sfidava i precetti e i modi dei guru tradizionali. Tuttavia, questa stessa immagine sollevò critiche, alimentando accuse di sfruttamento economico, appunto di materialismo, di manipolazione. Dopo il collasso di Rajneeshpuram, Osho tornò in India, dove continuò a guidare i suoi seguaci fino alla morte nel 1990.
La sua influenza persiste, con centri dedicati alla sua filosofia sparsi in tutto il mondo. Nel mausoleo dove sono conservate le sue ceneri, una targa riporta la scritta: “OSHO. Mai nato, mai morto, ha solo visitato questo pianeta Terra tra l’11 dicembre 1931 e il 19 gennaio 1990”.
La vera protagonista di Wild Wild Country: Sheela
Osho, con il suo magnetismo, rappresenta il cuore spirituale di Wild Wild Country. Ma il vero motore narrativo della docuserie è Ma Anand Sheela, la portavoce della comunità, il volto pubblico e, per molti versi, l’anima pragmatica e spietata del movimento. La relazione tra Osho e Sheela incarna la complessità e le contraddizioni della comunità stessa. Conoscendo una profonda evoluzione nel tempo – e attraverso gli episodi dello show.
Sheela, nata in India nel 1949, entra nel cerchio di Osho da giovanissima, conquistandosi rapidamente la sua fiducia. Quando la vediamo apparire è chiara la natura del suo rapporto col maestro: una devozione totale, che valica nell’amore assoluto. E però la nostra non si ferma lì, e sarà proprio lei a gestire il complesso sbarco in America. Abile, carismatica e senza scrupoli, diventa la leader operativa della comunità. Gestendone le attività quotidiane e le relazioni pubbliche. La sua figura domina gran parte del documentario. Sheela è il volto combattivo del movimento. La donna che non ha paura di affrontare le autorità locali, i giornalisti e persino i residenti dell’Oregon con dichiarazioni provocatorie e azioni decisive.
Come la serie mostra, sotto la sua guida la comunità – nata per attuare una visione utopica – degenera in una vera e propria fortezza armata, in guerra con il mondo esterno. Inevitabilmente, anche la relazione con Osho si incrina. In un certo senso, è lei tanto il motore che ha reso possibile il sogno di Rajneeshpuram quanto la prima responsabile della sua caduta.
Del tutto evitabile, invece, il documentario Searching for Sheela (2021, sempre Netflix). Prodotto sull’onda del successo di Wild Wild Country racconta, decenni dopo quei fatti, il ritorno di Sheela in India. Ma non ha nulla della profondità e della bellezza della serie madre.
Culti, sette, religioni in tv
Lo spazio che abbiamo appena dedicato alle due figure centrali di Wild Wild Country non è casuale. Il rapporto, conflittuale ma di interdipendenza, tra Osho e Sheela sta al centro della riflessione dell’intensa miniserie. Se Osho simboleggia la ricerca spirituale (seppur con le sue peculiarità), Sheela incarna la materialità necessaria per rendere quel sogno realtà. Con tutte le sue contraddizioni e le sue ombre. In altre parole: Sheela non è lo sfortunato imprevisto che manda il progetto di Osho fuori rotta. È l’altra faccia della medaglia, la conseguenza ineludibile dell’idea utopica che si voglia incarnare. Se vuoi portare la tua visione spirituale (o filosofica) nel mondo, beh, col mondo devi avere a che fare – e sporcarti le mani.
In questo, Wild Wild Country si inserisce nel filone di tanti show televisivi che stanno esplorando, in una forma o nell’altra, il tema “religioso”. Tra sette e guru, tra invenzione narrativa e documentario. Dove più che la dimensione spirituale, o mistica, a farla da padrone sono piuttosto l’appartenenza, il gruppo, il carisma di un leader, la disponibilità a credere a qualsiasi cosa. Forse, il bisogno di credere in una cosa qualsiasi. Il bisogno di sentirsi parte di qualcosa. Collegati. Connessi. Di trovare un senso, per quanto pasticciato e confuso, in un mondo che il senso sembra averlo smarrito. Il mondo dei Fratelli Karamazov, in cui Dostoevskij scolpisce la celebre sentenza: “se Dio non esiste, tutto è permesso”.
Mondoserie ha dedicato una puntata del podcast a questa riflessione. Sul sito poi abbiamo scritto tra le altre, in campo documentaristico, di Bikram, Keep Sweet, Tiger King: The Doc Antle Story. Ma anche di un bellissimo prodotto di fiction come Midnight Mass, riflessione sulla follia religiosa che invade una comunità isolata investita da una stagione miracolistica.
Wild Wild Country: perché merita davvero
Arrivati fin qui lo avete capito. Wild Wild Country non è solo la classica storia dei mercanti e tempio. O la semplice testimonianza di come carisma e determinazione possano manipolare migliaia di persone – o, in un senso speculare, portarle all’illuminazione. Rajneeshpuram non è il paradiso, e non è l’inferno. E quello di Osho non è solo un sogno, o solo un incubo. Non cercando scorciatoie, abbracciando la complessità di questa vicenda, i fratelli Maclain e Chapman Way sfruttano al meglio tutta la strepitosa materia narrativa a loro disposizione. E confezionano un capolavoro assoluto, dimostrazione della forza pazzesca che un documentario può avere.
Una meditazione straordinariamente netta, accurata, calibrata, profonda, a tratti esilarante e a tratti profondamente commovente su cosa spinse così tante persone a partecipare all’impresa. Un’agrodolce riflessione sul bisogno di credere e di far parte di una comunità. E tutto senza giudizi, senza sentenze, ma come emerge – per pezzi contraddittori e complementari – dal mosaico diversissimo di voci, parole e sguardi di chi, più di 30 anni dopo, è chiamato a tornare indietro nel tempo. E confrontarsi a posteriori, tra dolore o imbarazzo o conferme, con le scelte fatte, le ragioni e i torti, i propri fantasmi.
C’è l’avvocato della comune che si commuove, e che è rimasto fedele al sogno fino alla fine. Ancora oggi cercando di riabilitare la memoria dell’antico maestro. C’è il sindaco della cittadina vicina, sempre in prima linea nella battaglia per non farsi travolgere dalla comunità “invasora”. C’è la convertita della prima ora che racconta cosa ha significato provare a ricostruire la propria vita lontana dall’ombra di Osho, fuori dalla setta, e quanto tempo sia servito per smetterla di sentirsi in difetto. E c’è naturalmente Sheela, e non poteva che essere lei a chiudere, a prendersi una volta di più la battuta finale, rivendicando ancora il fallito esperimento, contestando quanti hanno cercato di espungerlo dalla biografia di Bhagwan. Come se fosse un incidente di percorso e non, dice, il sogno che lo stesso maestro aveva inseguito per tutta la vita.
“Abbiamo finito?”, chiede agli intervistatori. E poi, ridendo: “Penso che abbiamo tutti bisogno di un drink”.
Abbiamo discusso la storia di Wild Wild Country anche in questo podcast
Ascolta la puntata su guru e sette in tv