Wild Babies (in italiano: Cuccioli nella natura) è una docu-serie Netflix in 8 episodi uscita a maggio 2022. Unica nel suo genere grazie alla magnifica voce narrante di Helena Bonham Carter, la serie appassiona grandi e bambini. Io l’ho guardata con mia figlia di quattro anni, che ne è rimasta incantata. Non solo: le ha aperto un mondo sconosciuto. La Natura nel suo lato ostile e incontaminato (se ancora si può usare questa parola).
Per un cucciolo nato nella natura selvaggia il viaggio verso l’età adulta può essere arduo, ma molti di loro non sono soli nella lotta per l’esistenza. Sopravvivere richiede coraggio, determinazione e soprattutto amore.
Così recita il trailer di Wild Babies. Ed è vero. In uno dei viaggi proposti dagli otto episodi andremo nella gelida terra antartica, dove un cucciolo di pinguino nasce e deve sopravvivere a temperature bassissime (meno 60 gradi!). E ci riesce grazie ai propri genitori che si stringono a cerchio attorno ai piccoli in un sistema che gli inglesi chiamano Huddling (stringersi insieme).
È impressionante vedere il grande cerchio dei pinguini che nottetempo, con un vento spietato e un gelo impensabile, rimangono solidamente in piedi. Proteggendo i nuovi nati.
Wild Babies ci porta poi nella savana, raccontandoci la vita – durissima – dei leoni, e soprattutto delle leonesse. Al contrario dei pinguini che lavorano in coppia per crescere la prole, la leonessa deve crescere i cuccioli da sola. Ma deve anche poi riuscire a far accettare i giovani svezzati dal branco e soprattutto dal padre o dal leone dominante. Che altrimenti può arrivare a mangiarseli.
https://youtu.be/JiE6BQuvwJ4
La preziosa e sorprendente lezione di Wild Babies
Queste e molte altre avventure ci vengono proposte in alternanza durante gli episodi, che cercano di farci conoscere i luoghi più ‘estremi’ del nostro pianeta, dove già arrivare all’adolescenza è un’impresa non da poco. Wild Babies, grazie sempre alla voce seria ma al contempo rassicurante della Carter, riesce ad affrontare coraggiosamente il tema dell’aggressività. E cioè il presunto male, difficilmente trattato nei normali documentari per bambini. La serie ne parla, ma non utilizza l’aggressività delle bestie come spettacolo per intrattenere lo spettatore. Semplicemente racconta le cose come stanno.
Mia figlia è rimasta scioccata nell’apprendere che gli animali si mangiano tra loro. Scioccata e anche moralmente offesa, perché non si fa. Ma anche piacevolmente colpita nel vedere finalmente un vero leone, una vera foca e così via, visto che fino ad ora erano perlopiù personaggi di cartoni e fumetti.
Saltiamo a piè pari ogni commento sulla nostra distanza siderale dalla Natura delle Cose in questa epoca dove anche gli adulti non sanno esattamente cosa sia e da dove venga quello che hanno nel piatto. L’eliminazione quasi radicale del rapporto uomo-animale nella nostra epoca è un argomento che richiederebbe un lungo ragionamento.
Tornando a Wild Babies, è interessantissimo invece osservare come, rispetto al passato, le nuove tecnologie possano farci conoscere gli animali così da vicino. Le telecamere e le nuove tecniche di riprese, usate qui come in altri documentari degli ultimi tempi, ci permettono di entrare nell’intimità degli animali fino ad ora più sconosciuti. E di comprenderne, seppure in parte, le logiche di esistenza.
Uomo e natura: una distanza ormai incolmabile?
Poche settimane fa mi è capitato di sfogliare un’enciclopedia di mio nonno sulla caccia. Stavo leggendo la parte sul cinghiale e ho trovato quasi commovente l’entusiasmo dello scrittore nel vantarsi della precisione delle foto che illustravano una muta di cani inseguire un verro (cinghiale maschio adulto). Ai miei occhi odierni gli animali erano a malapena distinguibili, i colori erano sfocati e la distanza da cui erano state scattate le foto non permetteva di certo di immedesimarsi nell’azione. Eppure per l’epoca dovevano essere rivoluzionarie.
Oggi anche un bambino grazie a Netflix può addentrarsi nella tana di un cucciolo di pangolino. C’è da chiedersi se questa visione ravvicinata potrà facilitare anche un riavvicinamento degli umani al mondo naturale, o se rimarrà una curiosità televisiva.
Un’altra simpatica iniziativa di Wild Babies è l’aver creato dei personaggi a cui ci si affeziona, senza però stereotiparli. Ogni cucciolo che ci viene presentato ha un nome: la scimmia Chico, il grizzly Spruce e via dicendo. Si tratta di un sistema usato spesso nella logica dell’intrattenimento per l’infanzia. Una delle serie più famose in questo senso è If I were an animal (2018, 1 stagione, 52 episodi, Netflix). Qui ci vengono presentati di volta in volta degli animali cuccioli in crescita, a cui viene sempre dato un nome. Ma lo spirito è ben diverso: le due voci narranti sono attori bambini che ci raccontano qualche dettaglio sull’animale, sempre in grande allegria e in una dimensione del tutto rassicurante. Nulla accadrà a Bambi, insomma.
Wild Babies: genitori, branco, sopravvivenza
In Wild Babies scopriamo invece che la nostra Amma, una scimmia Macaco rimasta orfana, viene completamente e costantemente ignorata dal branco e soffre la fame. Le inquadrature non ci risparmiano la sua straziante solitudine. Dovrà arrivare quasi a sacrificare la vita per farsi accettare dalle altre scimmie. Il concetto è chiaro per tutte le specie: ciascuno pensa al suo piccolo, il resto può anche morire. Quasi nessuna mamma soccorrerà un cucciolo non suo. Per non parlare dei padri. Se ci addentrassimo di più nell’argomento potremmo dire che ogni animale risponde non solo ad un istinto materno ma ad una serie di richiami della propria prole che sono unici.
Negli anni ‘70 fu fatto un esperimento. Degli scienziati avevano reso sorde alcune future mamme anatre. Per poi constatare che a causa della sordità le mamme non solo non riconoscevano i propri piccoli – ma addirittura, se questi si avvicinavano troppo al loro nido, cercavano di farli fuori a beccate, prendendoli per intrusi.
Wild Babies di certo non si spinge a questo, che oltretutto è il risultato di un esperimento umano su degli animali. Ma ci fa capire che per sopravvivere in certi posti la legge è dura ed inflessibile. E che senza l’aiuto dei genitori per alcune specie non c’è nessuna speranza di vita.
La domanda di Lorenz: che ne sarà dei nostri bambini
Risuona così la domanda che nel 1973 l’etologo e scrittore Konrad Lorenz aveva posto nel suo bellissimo saggio Gli otto peccati capitali dell’umanità. Il graduale allontanamento dalle situazioni di pericolo e di sopravvivenza cos’ha comportato nell’uomo?
Con lo sviluppo della tecnologia moderna e della farmacologia, si cerca ora di favorire, più di quanto mai fatto in passato, la tendenza di tutti gli uomini a evitare la sofferenza.
Scompare così nell’uomo la capacità di procurarsi quel tipo di gioia che si ottiene superando ostacoli a prezzo di dure fatiche. L’alternarsi deciso di gioia e dolore, voluto dalla Natura, si riduce ad oscillazioni appena percettibili che sono fonte di una noia senza fine.
Insomma, secondo Lorenz l’annientamento di ogni sentimento ed emozione forte sono causa di un generale rammollimento. Che potrebbe minare la stessa possibilità di sopravvivenza della specie umana. Dovremmo allora tornare a farci rincorrere dalle bestie in una natura selvaggia? Una domanda a cui è difficile rispondere.
Chiaramente oggi il vero pericolo per l’uomo semmai è l’uomo stesso: sempre secondo l’etologo austriaco quel che minaccia direttamente una specie non è mai il nemico che intende mangiarla, ma sempre e soltanto il concorrente. E avendo sterminato i suoi “concorrenti” l’uomo oggi si ritrova da solo, in un’aggressività intra-specifica. Ovvero se la prende (a morte) con i suoi simili. Homo homini lupus.
Di certo i neonati uomini, almeno nelle parti ‘privilegiate’ del pianeta, non rischiano di venir divorati dalle bestie di notte. Cosa rischiano però i neonati oggi, in un mondo in continuo ed incerto cambiamento, nessuno lo sa.
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