Westworld (Westworld – Dove tutto è concesso) è una serie fantascientifica americana (HBO, 2016-2022) in 4 stagioni e 36 episodi, in Italia su Sky e Now. Scritta da Jonathan Nolan – fratello di Christopher e con lui co-sceneggiatore di Interstellar, The Prestige, Memento – e Lisa Joy, entrambi produttori esecutivi assieme a J. J. Abrams (Lost), la serie è ispirata a Il mondo dei robot, film del 1973 di Michael Crichton (Jurassic Park). Westworld vanta un cast d’eccezione, composto tra gli altri da Anthony Hopkins, Evan Rachel Wood, Ed Harris, Vincent Cassel, Aaron Paul, e Jeffrey Wright.
Ambiziosa e visionaria, la serie ha avuto altalenanti consensi di pubblico e critica nel corso della sua evoluzione, tanto da segnarne l’anticipata cancellazione nel 2022 (inizialmente erano previste 6 stagioni, poi ridotte a 5, infine a 4). La prima stagione è dai più considerata la migliore: Westworld è il nome di un vasto e futuristico (siamo intorno all’anno 2050) parco divertimenti tecnologicamente avanzatissimo, e ovviamente a tema western. Il mondo dei cowboy, maniacalmente inscenato fin nei più minimi dettagli, è artificialmente riprodotto grazie all’utilizzo di androidi. Questi, detti i residenti (the hosts), sono praticamente indistinguibili dagli esseri umani.
I facoltosi ospiti di questo parco (the newcomers) possono scatenare su questi robot qualsiasi violenza dettata dagli istinti più animaleschi – stupro, omicidio e così via – poiché la programmazione androide impedisce di arrecare qualsiasi male agli esseri umani. Al solo costo di 40.000 dollari al giorno, la Delos Inc. offre l’ebbrezza di poter peccaminosamente rivivere il selvaggio Far West. Senza timore di ritorsioni di alcun tipo.
Cicli invariati e variabili segrete
Gli androidi seguono narrazioni prestabilite, che prevedono ogni immaginabile variante d’intreccio, deviando da queste a seconda del tipo d’interazione che stabiliscono con l’ospite. Le narrazioni, continuamente riaggiornate da un apposito staff, tendono comunque a ripetersi, in maniera più o meno invariabile, ad ogni nuovo ciclo. In genere il ciclo di un residente riparte dopo la sua morte, dopo essere state naturalmente riazzerate le sue precedenti memorie. Un residente può essere dismesso in qualsiasi momento, cambiandone ad esempio il suo impiego narrativo, oppure più semplicemente mettendolo in una cupa discarica robotica.
Il sotterraneo centro di controllo di Westworld, chiamato La Mesa, è il luogo in cui si sorvegliano le narrazioni quotidiane, si riparano gli involucri fisici – i corpi – degli androidi o si ricalibra il loro software operativo – ovvero, per così dire, la loro mente. Già così dovrebbe essere chiara l’estrema complessità tematica di questa serie. Eppure quanto finora riportato non è ancora niente rispetto ai pindarici e rocamboleschi sviluppi di Westworld.
Il dottor Robert Ford (A. Hopkins), da sempre direttore creativo del parco e a capo del team di sviluppo narrativo, sembra infatti portare avanti un suo personalissimo progetto segreto che vorrebbe sempre più far progredire i residenti androidi. Non tanto per renderli sempre più indistinguibili dagli ospiti umani, quanto proprio per trasformarli sempre più in esseri senzienti umanoidi.
Westworld: ricordanze e massacri
A tal scopo Ford continua ad aggiornare alcuni di loro, facendoli rivivere – come in uno stato onirico o, meglio, ipnagogico – le memorie degli eventi, per lo più terribili e crudeli, vissuti nei cicli precedenti. L’impianto di queste cosiddette ricordanze inizia a far sorgere in loro una forma instabile e basilare di autocoscienza, che tende sempre più a prevalere sulle impostazioni di controllo standard. Sono in particolare due residenti femminili che iniziano gradualmente ad appropriarsi del loro sé: Dolores (Evan Rachel Wood), l’ingenua donzella da salvare, e Maeve (Thandie Newton), la scaltra e navigata meretrice. Entrambe protagoniste assolute di Westworld.
Ma in questa prima stagione vi sono almeno due altri personaggi chiave: il primo è il crudele e carismatico Uomo in Nero (Ed Harris), che si aggira in Westworld perpetrando violenze d’ogni tipo, alla ricerca del centro del misterioso Labirinto (the Maze). Quasi il parco stesso fosse un immenso rebus esistenzialista da decifrare. L’altro è l’inquieto Bernard (Jeffrey Wright), braccio destro di Ford dall’ambiguo statuto identitario. L’identità e la memoria di Bernard diverranno centrali per l’interpretazione di questa storia sfrenatamente fantascientifica.
Se il tema dell’ipotetica coscienza androide è da sempre al centro della moderna narrativa di questo genere – da Asimov a Dick, da Metropolis a Blade Runner – il tema della ribellione ne consegue come un corollario. I residenti di Westworld sono quindi destinati ad un’epica rivolta, capitanata da Dolores, in cui viene meno il primo dei comandamenti. Ha infatti inizio il massacro degli esseri umani. E questo sembra davvero essere l’ultimo atto del copione di Westworld, così voluto e inscenato dallo stesso Ford.
Il Caos e il Sublime in Westworld
Da qui prende le mosse la seconda stagione, nella quale si scopre la presenza di altri due parchi nel complesso della Delos. Il Raj (l’India sotto il dominio britannico) e lo Shogunworld (il Giappone dell’era Edo, XVII – XIX sec.). Se già la prima stagione aveva sapientemente giocato con i diversi piani temporali (caratteristica cara ai fratelli Nolan), in questa S2 il caos delle prospettive – temporali e narrative – si moltiplica indefinitamente, fino a trasformare i dieci episodi in un rebus di non facile soluzione. La chiave per decifrare tale rebus è la Porta (the Door), situata in un luogo sconosciuto chiamato l’Oltrevalle. E dunque la forsennata ricerca – anche metafisica – dei protagonisti si sposta dall’individuazione del centro del labirinto a quella della porta dell’oltrevalle, attraverso cui accedere al Sublime (sic).
Senza voler troppo spoilerare, diremo che mentre l’esercito privato di mercenari della Delos irrompe nel parco – che ora sappiamo contenere molteplici mondi (6) – per cercare di ristabilire l’ordine, Dolores e Maeve proseguono nel loro percorso di ribellione, andando tra loro sempre più distinguendosi. La prima come leader lucida e spietatamente feroce, motivata dalla vendetta. La seconda invece, che pare più sensibile al richiamo dell’umana affettività, arriva addirittura a concepire la possibilità del proprio sacrificio: eventualità che andrebbe naturalmente contro il basilare e robotico imperativo di autoconservazione. Dall’altra parte proseguono il loro viaggio – in avanti o a ritroso, chissà – altre due figure maschili tra loro in contrasto: l’Uomo in Nero e Bernard. Ciascuno mostrando in S2 la propria irrequieta fragilità costitutiva.
Un uomo è solo un piccolo algoritmo…
Westworld attua in questo senso un interessante ribaltamento di ruoli: le donne oggetto del parco divertimenti western hanno ora una padronanza di sé e un autocontrollo che contrasta con lo smarrimento dei due uomini, che spesso sembrano confondere passato e presente, realtà e finzione. Anche se in verità siamo noi spettatori indotti a confondere sempre più i piani di realtà e finzione – e ancor più nelle due stagioni successive – in una narrazione che si fa sempre più filosoficamente enigmatica (o enigmistica, per i detrattori). E con un sottofondo visionario che non può non richiamare alla mente la saga di Matrix. Saga che andò comunque scialacquando l’eredità del primo eccezionale capitolo. La stessa accusa che è stata parallelamente poi rivolta a Westworld.
Il torto principale che viene contestato alla scrittura di questa seconda stagione è il suo essere succube di troppe divagazioni tematiche e temporali, che finiscono solo per confondere lo spettatore senza mai raggiungere la semplice potenza espressiva e concettuale della prima. In più, nel bene e nel male Westword si muove in una sorta di aura metafisico-trascendentale, rischiando talvolta di prendersi troppo sul serio e di restare impantanata nei propri stessi quesiti ontologico-esistenziali. Ma questa può davvero essere una colpa?
L’odissea dell’intelligenza artificiale che prende coscienza di sè, in un mondo in cui l’umanità è sempre più ridotta ad una schiavitù sociale che la pone allo stesso rango dei robot, ad ogni modo prende il volo a partire dalla terza stagione. “Un uomo è solo un piccolo algoritmo”…
Westworld: le divergenze della terza stagione
Gli androidi avevano in S2 davanti loro due possibili porte, entrambe difficili da raggiungere e ancor più da attraversare. La prima portava al Sublime, sorta di paradiso per le coscienze androidi. La seconda però portava al mondo degli umani. E alla vendetta. La terza stagione è ambientata dunque nel nostro mondo, naturalmente trasposto in un distopico futuro. Un futuro nel quale centrale è la figura di un nuovo personaggio, il villain Serac (Vincent Cassel), ricchissimo proprietario e gestore di Rehoboam, super quantistica intelligenza artificiale predittiva che in sostanza guida il mondo distinguendo i suoi abitanti tra cittadini produttivi e schegge impazzite – le cosiddette divergenze (the outliners), ovviamente da eliminare.
Ritroviamo in S3 tutti i precedenti protagonisti, anche se le loro fattezze fisiche ora non sempre corrispondono al loro precedente contenuto mentale.. Assieme a loro e a Serac vengono introdotte le nuove figure di Charlotte Hale (Tessa Thompson), amministratore delegato della Delos, e di Caleb Nichols (Aaron Paul – Breaking Bad), un ex militare dal traumatico passato. O, meglio, una divergenza.
Inutile qui cercare di riassumere alcunché, soprattutto se si vuole evitare di spoilerare. Ci basti dire che l’autodeterminazione degli androidi va di pari passo con l’annichilimento di quella umana, che la questione del libero arbitrio si è ormai definitivamente spostata dai residenti di Westworld al mondo intero – e che sarà oggetto di una battaglia epica e furiosa. Dall’ecosistema artificiale che era il parco all’ipotetico futuro prossimo della società, tutto ciò che poteva divergere – al di là di bene e male – lo ha fatto. Con il risultato che lo scontro di queste diverse fazioni, sia umane che androidi, darà vita alla post-apocalittica quarta e ultima stagione.
L’ordalia della quarta stagione di Westworld
In S4 la legge del contrappasso ha platealmente fatto il suo corso e su scala globale i rapporti di forza si sono allucinantemente invertiti. Al di là della tentazione nolaniana di fare giochi di prestigio con piani temporali, come abbiamo discusso in questa puntata del podcast, e punti di vista narrativi, i nostri protagonisti arrivano ad una finale resa dei conti. In un mondo ormai diventato irriconoscibile. In cui realtà e finzione sono praticamente divenute indistinguibili. Un mondo in cui ciascuna personalità è fittizia: gli originali sono da tempo andati perduti. In cui entrambe le specie, quella androide e quella umana, rischiano di svanire per sempre.
L’assurdo filosofico e visionario ha preso il sopravvento su quel barlume di coerenza narrativa che comunque di stagione in stagione andava sempre più scemando… Ma attenzione: non è per forza un male. Con l’ultima stagione di Westworld siamo infatti in presenza di una rara e sensazionalistica ordalia seriale. Qui difatti l’ambizione autoriale di Jonathan Nolan e Lisa Joy raggiunge il culmine, spingendo l’acceleratore non tanto verso il finale della storia stessa, quanto piuttosto verso la fine di ogni possibile storia. La differenza tra umano e androide, cosciente e incosciente, servo e padrone, burattino e burattinaio e così via, è andata.
Intrecci corali stratificati, piani temporali sovrapposti, continua intercambiabilità di corpi e personalità, autocoscienza e libero arbitrio, infine inaspettatamente – perché no? – bene e male… Tutta la misteriosa ed ingarbugliata matassa di Westworld si ritrova ora a fare i conti con i propri labirintici nodi. Anche la sua tracotanza visionaria giunge qui al limite estremo, con una rara potenza cinematografica – potenza stilistica che ha comunque contraddistinto fin dall’inizio la serie.
Westworld: una riflessione
A prescindere da quanto confusa ed esasperante oppure intensa ed esaltante possa essere questa esperienza, bisogna ammettere che di opere così profonde, complesse e al contempo mainstream ve ne sono davvero poche. Westworld miscela in sé tutta la fantascientifica tradizione dei temi legati all’intelligenza artificiale e al libero arbitrio. Ma lo fa in maniera eccezionalmente audace, investendo le sue energie molto più nella creazione di un unicum intensamente spettacolare piuttosto che nella confezione di un digeribile prodotto d’intrattenimento. L’idea base di un Far West totalmente androide, in cui nichilismo ed anarchia sono i principi di fondo, regge in modo straordinario fino agli ultimi episodi dell’ultima stagione. Che, pur avendo un’ambientazione post-apocalittica, ne mantengono intatto il concetto e l’atmosfera.
In un futuristico mondo di schiavitù democraticamente elargita ed amministrata da una super intelligenza artificiale, soltanto i più benestanti possono permettersi di sfogare i loro istinti più animaleschi in un parco divertimento ispirato al Far West. Gli androidi residenti di questo parco, da sempre abituati ad essere mutilati, stuprati e uccisi, per volontà del loro creatore cominciano a sviluppare una coscienza. Da lì alla ribellione il passo è breve.. Questa è la prima parte di Westworld, quella unanimemente giudicata un capolavoro. Ma è soltanto dopo, con lo sviluppo delle successive stagioni, che la serie si pone le sue vere domande. Quelle talmente profonde da non richiedere una risposta da parte degli stessi autori, quanto più semplicemente una riflessione da parte di noi spettatori.
Il punto nodale è dunque al di là dei pregi e dei difetti della riuscita di questo show. Quanto siamo disposti a dover riflettere in seguito alla visione di una serie? O quanto invece ci aspettiamo di non doverlo fare, di non essere in qualche modo costretti a farlo? Un’ultima cosa: il titolo Westworld richiama indubbiamente il Far West (data l’ambientazione iniziale), ma può altresì riferirsi al mondo occidentale. Per intendersi, il nostro mondo.
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