We Own This City (We Own This City – Potere e corruzione) è una miniserie crime in 6 episodi (HBO 2022, in Italia su Sky e NOW). Scritta nientemeno che da David Simon (l’autore di The Wire, tuttora considerata una delle migliori serie statunitensi mai prodotte) con George Pelecanos, suo storico collaboratore.
La storia si basa su fatti realmente accaduti. E fedelmente riportati nel libro We Own This City: A True Story of Crime, Cops and Corruption di Justin Fenton, giornalista investigativo del Baltimore Sun.
Un ritorno a Baltimora, una delle città degli USA con il più alto tasso di criminalità.
Vent’anni fa The Wire, opera di finzione, ne aveva già epicamente narrato trame e sottotrame, attraverso 5 indimenticabili stagioni (2002-08). Ma poi accade il Black Lives Matter, movimento partito proprio contro i soprusi della polizia sulla comunità nera. E nello specifico, in quel di Baltimora, accade la morte di Freddie Gray (2015), l’ennesimo ragazzo di colore fermato dalla polizia. Segue una sentenza che proclama la non colpevolezza degli agenti che lo avevano in custodia. E ne segue una caotica rivolta cittadina, con tafferugli e scontri di piazza.
In questo clima avviene l’indagine federale che conduce al clamoroso arresto di otto agenti di polizia, tutti componenti di un’unità speciale: la Gun Trace Task Force (GTTF).
Definito dal New York Times come “uno dei più scioccanti scandali di corruzione della polizia in una generazione”, il caso della Gun Trace Task Force e dei suoi componenti – su tutti il sergente Wayne Jenkins (un sorprendente Jon Bernthal: The Walking Dead, The Punisher), a capo della squadra – è semplicemente sconvolgente.
Una scandalosa impunità grazie alle statistiche e alla politica
È una storia di gangster stile anni ‘30, come avrà a definirla il capo della polizia dell’epoca. Una storia durata per molto, troppo tempo. E il cui epilogo è invero avvenuto pochi anni fa, tra il 2017 e il 2018. Ed è la cupa e torbida storia al centro di We Own This City.
La GTTF era un’unità in borghese, creata a Baltimora per monitorare e possibilmente arginare la diffusione di armi illegali – per lo più legata allo spaccio di sostanze. All’interno quindi di quell’insensata guerra alla droga che negli ultimi decenni ha caratterizzato e orientato la maggior parte delle azioni di polizia nelle città americane. Nonostante il gran numero di denunce e reclami da parte dei cittadini per abuso di forza (e tanto altro), fino a quando il team della GTTF ha continuato ad effettuare confische ed arresti in gran quantità, falsando in tal modo favorevolmente le statistiche che i politici avrebbero presentato all’opinione pubblica, i piani alti sono sempre stati ben disposti a coprire loro le spalle.
I risultati erano naturalmente per lo più fittizi: la quasi totalità delle accuse – assolutamente pretestuose – legate a questi arresti veniva fatta cadere a distanza di poche ore. Ma, data l’impossibilità di ottenere budget extra in virtù delle contestazioni del Black Lives Matter e della pesante atmosfera che si era creata, questo era il massimo che il Dipartimento di Polizia poteva presentare agli amministratori.
E gli amministratori, a loro volta, ai mass media: giornalisti e compagnia bella. Nient’altro che numeri su pezzi di carta, inutili statistiche senza effettivo valore. Ma fino a che il gioco funzionava…
Il labirinto di flashback di We Own This City
Dopo la morte di Freddie Gray troppi agenti di polizia avevano smesso di agire per le strade (se non si erano addirittura fatti togliere dalle strade). Per timore di venire ripresi con un cellulare da qualche passante e, in un secondo momento, viralmente contestati – o peggio.
Ma non la GTTF, che mantiene alti gli standard di operatività del distretto. Ricevendo per questo anche le pubbliche lodi da parte del capo della polizia. E sentendosi in tal modo con le spalle sempre coperte, sì da poter continuare impunemente a fare ciò che sapevano fare meglio: i criminali.
Raccontata su più piani temporali, con l’abbondante ricorso a flashback – sulla storia della task force federale che indaga sulla GTTF, sulla carriera di Jenkins a partire dal lontano 2003, sugli interrogatori ai suoi corrotti sottoposti – alternati a scene che ne ricostruiscono visivamente le memorie, We Own This City scandaglia letteralmente il fondale di questa criminale impunità. Creando uno dedalo di scene scioccanti in cui non sempre è facile orientarsi.
A complicare, almeno apparentemente, la trama di questa sordida ed avvincente ragnatela vi sono anche i percorsi di Nicole Steele (Wunmi Mosaku), avvocatessa della divisione per i diritti civili del Dipartimento alla Giustizia, che approfondisce il legame tra politica e corpo di polizia. E quello di Sean Sulter (Jaime Hector), ex partner di Jenkins diventato nel frattempo detective della Omicidi, che viene tragicamente toccato dalle indagini federali.
Tuttora la sua fine è al centro di diverse teorie cospirative, con almeno due indagini indipendenti che contraddicono la versione ufficiale. Ed anche su questo controverso e delicato punto David Simon ha voluto – con coraggio ed eleganza – dare la sua versione.
Una gang sempre più fuori controllo
In questa visione oscura e frammentata, che continuamente ci rimbalza da un anno all’altro, e per cui di We Own This City è consigliato il binge watching (ovvero la fruizione senza soluzione di continuità di tutti gli episodi, come fossero un unico lunghissimo film), assistiamo alla progressiva metamorfosi di Wayne Jenkins, recluta costretta fin dal primo giorno in polizia a dimenticare quanto imparato all’accademia. Ad assistere alla condotta ai margini della legalità del suo sergente istruttore. Ad invidiare alcuni tra i suoi colleghi, perché inspiegabilmente benestanti – pur facendo lo stesso mestiere…
In poco tempo Wayne comprende le regole del gioco: da una parte frodare il Dipartimento, dichiarando straordinari non effettuati. Dall’altra, profittare della propria posizione per alleggerire chiunque capiti a tiro, soprattutto nei quartieri degradati. Con il pretesto morale che si tratterà sicuramente di soldi sporchi, frutto della droga…
E quindi, nel corso degli anni, questa unità speciale si trasforma in una vera e propria banda criminale. Con l’unico obiettivo di fare soldi, sempre più soldi – e di trovare sempre più armi e droga, per continuare ad avere le spalle coperte.
Una gang che utilizza qualsiasi stratagemma per arricchirsi. Con una libertà d’azione pressoché illimitata. Una gang sempre più preda dell’avidità, i cui membri cominciano a derubarsi tra loro. Una gang consapevole di avere i federali addosso, ma talmente sicura di sé e della propria intoccabilità, da non porre minimamente freno alla propria condotta criminale. Infine: una gang – un’unità – sempre più fuori controllo… Proprio come in The Shield, di cui abbiamo scritto qui.
L’aberrante filosofia poliziesca di We Own This City
L’insensatezza di questo sistema – statistiche da sfoggiare al consiglio comunale, tot armi sequestrate, tot arresti ecc – ha non solo creato un ambiente di lassismo deontologico tale da poter far sorgere un’intera squadra criminalmente deviata in seno al Dipartimento di Polizia. Ha altresì creato presso gli agenti un’aberrante filosofia generalizzata di azione nelle strade dei quartieri più problematici. Quella che ha permesso per lungo tempo di fermare, perquisire ed arrestare chiunque. Non avendo quasi mai la fondata causa per poterlo fare (aspetto in teoria necessario per procedere).
E in tal senso assolutamente emblematico è in We Own This City l’agente Daniel Hersl (Josh Charles), violento e razzista. Nonostante l’innumerevole lista di reclami a suo carico, continua tranquillamente a pattugliare le strade, prevaricando ed abusando della propria posizione. Perché? Perché, come si sente dire ad un certo punto in questo crudo show, un poliziotto che a Baltimora non ha reclami, non fa il poliziotto. E al distretto servono agenti che non abbiano paura di usare le manette.
Gli arresti fanno numero, quindi statistica. Anche se la quasi totalità di questi – per via delle accuse ridicolmente insostenibili – viene fatta cadere nell’arco di 24 ore. Previa una firma che sollevi il soggetto in questione dalla possibilità futura di sporgere denuncia contro il dipartimento. E così una sera tu potevi venire fermato, magari mentre tornavi dal lavoro per portare la cena alla tua famiglia, derubato, magari dello stipendio il cui assegno per sfortuna proprio quel giorno ti eri fatto cambiare, e costretto a passare la notte dietro le sbarre. Senza aver fatto niente, e senza possibilità di replica.
Una città che è sul punto di esplodere
E paradossalmente sono proprio i numeri, tanto amati dai piani alti, a parlare chiaro: in pochi anni viene fermata dalla polizia una percentuale assurda della popolazione di Baltimora… Nascere e crescere in un quartiere nero di questa città non può che implicare non solo diffidenza e sospetto, ma anche odio e rancore nei confronti delle forze dell’ordine.
Una situazione sociale insostenibile, sempre sul punto di esplodere. Non stupirà quindi che il rapporto tra la polizia di Baltimora e gli abitanti della città, soprattutto quelli appartenenti alla comunità nera, sia arrivato ad un punto di non ritorno. Tanto che si fatica a trovare dodici giurati disposti a credere alla parola di un poliziotto. E che – nel caso istituito contro lo stesso Dipartimento e raccontato da We Own This City – si fatica addirittura a trovare una giuria senza pregiudizi nei confronti della polizia.
Incredibile. Una tentacolare tela di corruzione che ha davvero dell’incredibile. E che ha corrotto un’intera città, fin nelle sue radici. Incredibile è la sequela politica di cambi al vertice, nel tentativo di offrire ai cittadini una nuova immagine della città e delle sue istituzioni.
Incredibile è come in pochissimo tempo anche questi nuovi papaveri – sindaco e capo della polizia – saranno destinati a cadere per accuse di frode e corruzione. Come incredibile è fino all’ultimo l’atteggiamento di Jenkins, una volta imprigionato dai federali, incapace di sentirsi colpevole… Incapace di considerarsi colpevole. Sicuro che i suoi capi alla fine lo salveranno. Che i membri della sua squadra non parleranno.
“Facciamo solo il nostro lavoro”
[INIZIO SPOILER] Quando finalmente realizzerà l’irreversibile gravità della situazione, sarà troppo tardi. A lui tocca la pena più severa: 25 anni. Decide all’ultimo di dichiararsi colpevole per una sola ragione: evitare un dibattimento processuale che sarebbe inevitabilmente finito con il portare alla luce gli aspetti più sordidi della sua doppia vita, intaccando la sua figura di esemplare padre di famiglia. [FINE SPOILER]
Fino all’ultimo, quindi, prevale l’attaccamento disperato alle apparenze. Lo stesso attaccamento che risuona in Jenkins quando un suo agente, scherzando, gli dà del corrotto. Il sergente lo guarda malissimo, dicendogli (citazione a memoria): “Che cazzo dici? Io non sono corrotto. Noi non siamo corrotti. Noi facciamo solo il nostro lavoro. E lo facciamo dannatamente bene.” Incredibile.
Premesso che l’avidità è la vera bestia che divorerà dal di dentro la Gun Trace Task Force, questa squadra di agenti famelici e corrotti. In una giungla criminale come quella di Baltimora, per riuscire a tenere alte prestazioni e motivazioni di operativi in borghese – che rischiano ogni giorno una pallottola in testa per un risibile stipendio – si deve, secondo la filosofia di questi cowboys, innanzitutto essere più cattivi dei criminali, non avere paura di giocare fuori dalle regole, in un certo senso – diventare i gangster più duri della città.
In We Own This City il fine giustifica i mezzi: falsificare prove? mentire in tribunale? coprire pestaggi, addirittura omicidi? Tutto è lecito, se riesci a dare quei numeri – quelle dannate statistiche – ai tuoi superiori. Perché nessuno può realmente toccarli. La città è loro.
Debussy tra i cowboys di We Own This City
“Andremo a caccia, a caccia sul serio. Troveremo pistole, perché finché succederà e saremo efficienti, finché sequestreremo non gliene fregherà un cazzo di quello che faremo, potremo fare letteralmente i nostri porci comodi, capite? Ehi, questa città è nostra… è nostra!”. We Own This City, appunto.
Un viaggio intenso e bruciante in questa realtà, la corruzione nel Dipartimento di Polizia di Baltimora, risalente a soli 5 anni fa. Con una regia, a cura di Reinaldo Marcus Green, di cui elogiare indubbiamente l’estrema sobrietà – dalla camera a mano alle musiche sempre interne agli ambienti in cui si svolge l’azione – senza inutili iperboli o drammatizzazioni eccessive.
E mentre Debussy viene suonato al flauto da un agente FBI, verso la fine della serie vi è il cupo insediamento della nuova amministrazione Trump. Pronta a cancellare in un solo colpo il prezioso e certosino lavoro svolto dalla divisione diritti civili di Baltimora – e di molte altre problematiche città americane…
No Justice, No Peace! è lo slogan di protesta che risuona anche nella sigla iniziale. Chissà a chi appartiene ora quella città…
Il caposaldo del racconto moderno sui poliziotti corrotti: The Shield
The Shield: adrenalina iperrealista tra gli abissi della corruzione
Ascolta la puntata del podcast: Poliziotti al di sopra della legge