È venuto il momento di parlare, in questo nostro Speciale Twin Peaks, de Il Ritorno. La terza stagione. A 30 anni dal finale della serie storica, abbiamo raccontato come lo show di David Lynch e Mark Frost del 1990-1991 ha cambiato la tv. Lo abbiamo fatto rievocando 4 episodi chiave, ciascuno capace di illustrare una delle potenti innovazioni introdotte da uno show rivoluzionario (qua trovate l’articolo, qua la versione podcast). E lo abbiamo fatto iscrivendo l’intero complesso di Twin Peaks, naturalmente, sotto il segno del mistero.
E sotto il segno del mistero parleremo anche dell’ormai inatteso, incredibile, quasi miracoloso ritorno a Twin Peaks che Lynch ha realizzato nel 2017, oltre un quarto di secolo dopo la conclusione della serie storica. Con una terza stagione che, nuovamente, ha saputo emozionare, meravigliare, sorprendere, innovare. Sarà, vi avverto, una lettura personale. Come forse è inevitabile, e persino giusto, per un’opera così radicale e ancora così vicina nel tempo da bruciare.
L’eredità della Twin Peaks storica, in poche righe
La Twin Peaks storica aveva, tra 1990 e 1991, prodotto innovazione espressiva e narrativa, formale e strutturale. Aveva smontato le regole del medium televisivo e del genere a cui in teoria doveva appartenere. Aveva svelato l’esistenza di un’audience matura e dato vita allo spettatore moderno, non più passivo ma pienamente coinvolto nella costruzione di significato. Aveva sdoganato in TV categorie come quelle dell’inquietudine e del perturbante.
Infine, con il suo magnifico e impossibile finale, Twin Peaks aveva mostrato senza ambiguità ciò che aveva fatto intuire fin dal principio: in TV si poteva produrre arte, non solo intrattenimento.
Ma la ricerca di Lynch di una piena, radicale libertà autoriale si era presto dovuta scontrare con le pressioni produttive e il clima restrittivo della televisione d’epoca (abbiamo affrontato il tema in questa puntata del podcast: Twin Peaks, il trionfo della libertà). Quella libertà all’epoca rimasta un sogno la potrà rivendicare e mettere a frutto 25 anni dopo, nel 2017, con il terzo insperato capitolo della serie.
Di Twin Peaks: The Return Lynch firma tutte le 18 puntate, come creatore, regista, co-sceneggiatore. Dando vita a un’opera d’arte totale, nuovamente capace di inventare, innovare, meravigliare. Di percorrere fino in fondo quella via che la vecchia serie aveva allora solo potuto indicare. Nel modo che ora proverò, per rapidi quadri ed evocazioni, a raccontarvi.
Twin Peaks, un ritorno profetizzato. 25 anni prima
È già del tutto eccezionale che una serie prosegua – questo non è un remake o un reboot ma proprio una prosecuzione – 25 anni dopo la propria fine. Ma addirittura avendolo profetizzato? Nel finale dell’ultima puntata della seconda stagione, nel giugno del 1991, Laura Palmer lo annuncia a Cooper, entrambi prigionieri della Loggia Nera.
25 anni dopo, però, a tornare non sarà un solo Cooper, ma quattro. C’è il Cooper buono, prigioniero per un quarto di secolo della Loggia Nera; c’è il Cooper cattivo, che infesta il mondo con la propria malvagità; Dougie Jones, copia sgraziata; il Dougie Jones posseduto dal Cooper buono. E se vogliamo c’è persino un quinto Cooper, il Cooper-Richard che emerge, alla fine, quasi come crasi di alcune delle altre incarnazioni.
Lynch ha atteso 25 anni finché non ha avuto la certezza di una libertà e un controllo totali. Potendo dirigere, scrivere e controllare tutte le 18 puntate della nuova stagione. E così, un quarto di secolo dopo, può finalmente portare il discorso creativo ancora più in là: verso l’opera d’arte totale. Astratta. Libera come un videogame, o un cartone. Radicalmente diversa da qualsiasi altra cosa possiate vedere sul piccolo schermo.
Sublime. Commovente. Disturbante. Enigmatica.
Un’opera d’arte totale, tra lirismo e sogno
La forma del racconto procede liberissima, per associazioni ed evocazioni; non sempre è facile da seguire; ma appaga, se si accetta una logica che è più da opera d’arte – a volte astratta – che da prodotto narrativo di consumo: e cioè, immergersi nel mistero senza necessariamente comprenderlo. Senza pretendere di risolverlo. Accettando di non poter spiegare ogni singola cosa. Accettando la sacralità del mistero. E con impressionanti ma forse non sorprendenti analogie al primo lungometraggio di Lynch, Eraserhead (1977): quasi a fare di questo nuovo capitolo della serie un’opera-testamento, o quantomeno capace di riepilogare temi, ossessioni, visioni di una vita.
Twin Peaks 3 diventa così l’esperimento forse più radicale della storia del piccolo schermo. Capace di emozionare a volte anche solo con il lirismo di una realtà che anche se banale può essere sempre reinventata, e diventare emozionante: come nei due minuti e mezzo di chiusura dell’episodio 7, che mostrano solo un uomo che spazza il pavimento.
La nuova Twin Peaks non rassicura lo spettatore e non gli perdona disattenzioni o pigrizia. Gli chiede di fare un passo più in là, in territori inesplorati. Di mettersi in gioco. Lo sfida, e lo premia, costruendo mirabolanti giochi di specchi e sofisticate costruzioni metanarrative. Come in quella scena vertiginosa in cui il vicedirettore dell’FBI Gordon Cole, interpretato – non a caso – dallo stesso creatore della serie, David Lynch, racconta ai suoi agenti di aver avuto un altro sogno con protagonista Monica Bellucci. E quel sogno mette pesantemente in crisi lo statuto della nostra realtà: se è un sogno, di chi è quel sogno?
L’origine (atomica) del male nel ritorno a Twin Peaks
Eppure Twin Peaks sa anche usare la realtà, piegarla al proprio racconto. L’esplosione nucleare del 16 luglio 1945, che va in scena in una lunga sequenza dell’ottava puntata subito divenuta leggendaria, studiatissima, lungamente discussa dai fan, non è una invenzione. È davvero il primo scoppio atomico, il test “Trinity” nel deserto del New Mexico che porterà subito dopo a Hiroshima e Nagasaki. Un riferimento storico stranamente preciso per Lynch. E certo non casuale.
Oppenheimer, uno dei padri dell’atomica, dirà subito dopo quel primo test, citando il Bhagavad-Gita, antichissimo testo religioso indiano: “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. È lecito pensare che Lynch, che ha abbracciato il buddismo e la meditazione, sia sensibile all’idea della “conquista” nucleare come una vittoria del male nel nostro tempo.
Di certo, nella serie, tra le pieghe dell’esplosione nucleare il male irrompe effettivamente nel mondo, come se si fosse aperta una porta. Strane creature sciamano nel deserto: i woodsmen, terrificanti boscaioli che uccidono sul colpo coloro che toccano. O, addirittura, quanti dovranno ascoltare la nenia che il loro capo diffonde a un certo punto via radio.
Anni dopo il male, generato o attirato nel deserto dall’esplosione nucleare, assume la forma di un’oscena creatura strisciante e saltante, una rana-falena. Ed entra, letteralmente, in una ragazzina, che poi diventerà Sarah Palmer. La madre di Laura Palmer, la prima vittima, quella da cui la nostra storia ha inizio, quella sul cui cadavere viene letteralmente costruito l’intero edificio di Twin Peaks.
Un mondo oscuro e impoverito
Twin Peaks – Il ritorno ci racconta l’origine del male e ci racconta le conseguenze che questo traboccare di oscurità ha avuto: il declino dell’America come la conoscevamo e amavamo nella età della nostra innocenza, e dell’innocenza della tv. Come è diventato il mondo in cui dobbiamo vivere? Lo dice esplicitamente il personaggio interpretato da Naomi Watts, una delle moltissime figure nuove che affollano la terza stagione: “viviamo in un’epoca molto molto oscura”.
Il nuovo capitolo ci racconta anche l’impoverimento dell’America. L’indebolimento della sua classe media. La progressiva marginalizzazione di quei gruppi sociali che ancora 25 anni prima potevano – se non vivere – almeno vedere da non troppo lontano il sogno americano. La segheria, simbolo fin dai titoli di testa della Twin Peaks produttiva di 25 anni prima, è chiusa. Dopo un incendio, non è mai stata ricostruita. La felice e prospera comunità di provincia di un tempo oggi vede troppa gente faticare anche solo per racimolare i soldi per vivere. La tossicodipendenza ha falcidiato le nuove generazioni.
Un mondo violento e impazzito
E ci si chiede che fine hanno fatto le belle case, i quartieri color pastello del sogno americano, con le loro costruzioni tutte uguali, il po’ di verde davanti, il cortile dietro con l’altalena. Quartieri tranquilli, al massimo un po’ noiosi. Se lo chiedono persino due gangster, che si trovano per caso in mezzo a un’improvvisa, terrificante sparatoria, che devasta un quartiere. I due fratelli criminali non si capacitano: loro sono abituati all’esercizio della violenza, ma una violenza razionale. Le esplosioni di ferocia cui assistono appaiono ai loro occhi irrazionali, folli, degenerative.
Ma la violenza non è relegata solo al crimine organizzato, è dilagata come uno tsunami.
Come in quella splendida e terrificante scena (episodio 11) in cui la tensione e lo straniamento derivano non tanto da una sparatoria, che è quanto di più banale si possa vedere in tv, ma da una sparatoria che nasce per caso. E in cui il colpevole, se così si può dire, è un bambino. Che in macchina ha trovato la pistola del padre e ha esploso alcuni colpi, all’incrocio, creando il caos e il panico nella mitica tavola calda (il Double R Diner) che ricordavamo, dalle prime stagioni, come un rifugio ameno e luminoso.
Un mondo incattivito e malato
Neppure un bambino riesce a sembrare innocente. E i giovani? Nella vecchia serie erano romantici, capaci di bontà, in cerca dell’amore. Qui, 25 anni dopo, sono diventati malsani. Mostruosi. Avidi. Irresponsabili. Tossicodipendenti.
Intrinsecamente violenti, come ben illustra il personaggio terrificante di Richard Horne: figlio di Audrey e di un misterioso atto di violenza, dopo aver investito e ucciso un bambino e aver ridotto in fin di vita la testimone che poteva identificarlo aggredisce la propria nonna per estorcerle la combinazione della cassaforte.
È un mondo malato. In cui la malattia si è diffusa, ovunque, contagiando adulti e bambini. E così l’oscurità. La violenza. E la follia. Anche il bonario dottor Jakoby, lo psicologo un po’ svitato e dal look hawaiano delle prime stagioni, eccentrico ma animato da buone intenzioni, si è riciclato nel nuovo millennio. È diventato un influencer radiofonico che asseconda l’appetito popolare per i complottismi di ogni sorta, e vende finte vanghe d’oro con cui “tirarti fuori dalla merda”.
Il bene è imprigionato
La Twin Peaks del ‘90 e ‘91 aveva mostrato il lato oscuro dell’America. Ma accanto all’oscurità, c’era anche la luce. L’amicizia. La lealtà. La ricerca del bene quasi cavalleresca di Cooper. E poi naturalmente c’erano i simboli di questa bontà, cioè letteralmente le cose buone a cui si poteva sempre tornare. Le crostate di ciliegia, i caffé, un momento di gentilezza, qualcosa che ci avrebbe fatto sorridere.
Il bene, 25 anni dopo, è imprigionato. L’agente Cooper, il Cooper buono fuggito dalla lunghissima prigionia della Loggia Nera, è rimasto intrappolato nel corpo di un suo clone sgraziato, Dougie Jones, un assicuratore. Cooper prende il posto di Dougie Jones e sebbene non sia in grado di parlare, né di vestirsi da solo, o di lavorare, tutti lo trovano migliore rispetto al Dougie Jones che conoscevano. La storia di Dougie Jones sembra l’American Dream rovesciato: o forse realizzato come parodia. I simboli dell’America positiva di prima ci sono ancora: i caffè, le torte, il raro momento di bontà. Ma tutto sembra fuori sincrono.
Cooper, il Cooper buono, l’eroe senza macchia e senza paura che il pubblico aspetta di acclamare, è imprigionato nel corpo ottuso di Dougie Jones. Quasi come nel romanzo neo-gnostico Divina invasione, il secondo libro della cosiddetta Trilogia di Valis di P. K. Dick. Che mette in scena il ritorno di Dio sulla terra: una terra dominata dal male, che Dio deve letteralmente invadere. E il male è così forte che Dio riesce a rientrare nel mondo solo nascondendosi nel corpo di un bambino inconsapevole perché cerebroleso, con la mente e la memoria danneggiate. Come quelle del Cooper buono.
Le attese e la nostalgia per il ritorno a Twin Peaks
Il progressivo risveglio dell’agente Cooper, intrappolato nel corpo di Dougie Jones, è uno dei temi centrali del Ritorno. Ma la stessa ovvia commozione nel riabbracciare vecchi e amati personaggi lascia il posto al sottile disagio per come sono cambiati: e non solo invecchiati.
Per 25 anni i fan hanno sognato il ritorno a Twin Peaks. Se lo sono immaginato, costruito nella mente. Hanno desiderato rivedere personaggi che conoscevano a memoria, e che volevano sentir parlare e veder agire come da copione.
Ma la morte – cioè il Tempo – aleggia, di nuovo dentro e fuori la serie. O meglio tanto tra i personaggi quanto tra i loro interpreti.
Anche qui con forte senso meta-cinematografico: muore la Signora Ceppo, personaggio iconico; muore la sua interprete, Catherine Coulson, amica e collaboratrice storica di Lynch, già molto malata durante le riprese. Come fosse per il regista un canto del cigno, un’opera d’arte totale e finale in cui travasare tutte le ossessioni di una vita. In cui finzione e realtà pienamente e davvero si mescolano.
E tornare indietro è un viaggio doloroso e pericoloso, non confortante. Perchè nulla è immutabile. E così, il ritorno a Twin Peaks non risulta rassicurante, come sarebbe il ritrovare al suo posto qualcosa che ci era prezioso. Risulta piuttosto struggente e disturbante. “Il mondo com’era”, che desideriamo, ci è precluso.
Un’operazione genialmente anti-nostalgica
Con una lucidità spaventosa questo ritorno sul luogo del delitto affronta il tema, così importante nel nostro tempo, della nostalgia. Il desiderio dell’America di tornare indietro, a un mondo migliore, pieno di decenza e caffè fumanti e torte di ciliegia e personaggi tutti d’un pezzo. Che è il nostro desiderio di spettatori di tornare indietro, alla Twin Peaks originale.
È un tema attuale e gigantesco, la grande tentazione culturale della “nostalgia”. Una forma involutiva della crisi contemporanea, percepibile in campo artistico (l’inflazione dei remake e reboot) come politico: lo slogan trumpiano “Make America Great Again”, la forza anti-modernista del fenomeno Brexit, le retoriche populiste in così tanti contesti diversi.
Ma l’unico ritorno possibile indietro, ci indica Lynch, è il ritorno al trauma, alla frattura, alla ferita. Alla radice oscura della violenza che ha segnato ciascuno, individualmente, e contaminato il mondo.
L’unico possibile ritorno indietro è un ritorno al cuore di tenebra: là dove il male accade, ed è impossibile impedirlo. E così la ripetizione diventa la chiave.
Cooper prova a tornare indietro, nel tempo – e persino nella stessa materia narrativa della serie – per sottrarre Laura al suo omicidio. Ma la violenza si ripete, continua a ripetersi, in un ciclo infinito che intrappola i personaggi e le loro menti. Si ripete il sacrificio di vittime che non sarà possibile salvare, neppure tornando indietro e alterando la storia come la conoscevamo.
Si ripete la violenza contro Laura Palmer, archetipo della vittima la cui morte produce conseguenze sul mondo, fino a travolgerlo, fino a distruggerlo. Come se la ragazza non potesse riposare mai in pace, e dovesse morire infinite volte.
Twin Peaks: ritorno al cuore di tenebra (“SPOILER”, si fa per dire, sul finale)
Alla fine della serie siamo tornati al punto in cui la stagione storica della vecchia Twin Peaks ci aveva lasciati: ancora una volta c’è una ragazza da salvare, e ancora una volta l’eroe fallirà. Ma 25 anni dopo, tutto è divenuto più complesso, più sfumato, più adulto. Non basta che l’eroe entri nella Loggia Nera, come era stato nel finale della seconda stagione nel ‘91, e si confronti con i suoi demoni.
Il male è dilagato, ha corrotto il mondo. L’eroe stesso ha dovuto compiere un viaggio lunghissimo, e penoso, solo per poter tornare a Twin Peaks. Una Twin Peaks che non è più quella mitica della finzione: sembra piuttosto una Twin Peaks in prosa, in scala di grigi. Che somiglia più al set di Twin Peaks che a Twin Peaks com’era, o meglio: come la ricordavamo. Come avrebbe dovuto ancora essere, se solo il mondo fosse capace di adeguarsi ai nostri desideri perfetti.
Forse, forse, Laura, la vittima archetipica, è stata questa volta salvata. Ma i suoi echi permangono. Gli echi della violenza che ha conosciuto, gli echi di un lungo incubo da cui svegliarsi è impossibile. Gli echi di tutte le altre ragazze minacciate, in pericolo, tutte le ragazze perdute che popolano l’universo di Twin Peaks.
Alla fine della serie non è rimasta più neanche la storia, o almeno la storia come la conoscevamo.
Ci sono solo fantasmi, ombre senza identità, echi che continuano a risuonare sempre più distorti. Non c’è ritorno indietro a un posto che conoscevamo, non c’è una casa a cui tornare, o che possiamo riconoscere – e chiamare – casa nostra. Dove siamo? In che anno siamo?
Resta lo smarrimento, resta il dubbio, resta la paura, resta un grido nella notte, resta il buio.
Ritorno a Twin Peaks, ritorno al mistero
Resta un segreto, sussurrato senza fine. Quello che Lynch sceglie per il vero finale della sua creatura: i titoli di coda dell’ultima puntata. Nella penombra, Laura parla nuovamente all’orecchio di Cooper, come aveva fatto 25 anni prima: sono entrambi invecchiati, e quel segreto noi non lo conosceremo mai.
Ora che ha il controllo pieno, Lynch può fare ciò che avrebbe sempre voluto fare: non risolvere il caso, non arrivare a una soluzione, lasciare il mistero intatto, ricco delle sue infinite possibilità.
Quel segreto sussurrato e che non udiamo è il senso di questa terza mirabile stagione, e per me dell’intera parabola ultradecennale di Twin Peaks. Nell’idea iniziale del suo autore; nella delusione di vedersi imposte soluzioni commerciali dalla produzione dell’epoca; nella lunghissima attesa per poter, un quarto di secolo dopo, rimettere a posto le cose.
Non possiamo conoscere fino in fondo; ci sono misteri che sono sacri e che è giusto rispettare. Quale grande, e antica, lezione per una serie televisiva!
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La Twin Peaks storica e la sua nuova stagione: ascolta la puntata del podcast!