Su Netflix è sbarcata in pompa magna Tiger King 2 (di cui parliamo in questa recensione). Cinque puntate che fanno da seguito alla fortunatissima docuserie uscita l’anno scorso e che – complice l’inizio del lockdown – divenne subito un fenomeno di massa e globale. Risultando a fine 2020 la serie più cercata dell’anno su Google: un risultato ancora più eccezionale se si ricorda che si tratta di un documentario, seppur anomalo.
Del nuovo capitolo della docuserie discutiamo anche in questa puntata del nostro podcast, parlandone in relazione alla prima folgorante stagione. Qui vogliamo tornare sul fenomeno più ampio. E provare a indagare che cosa Tiger King, e il suo successo mostruoso, ci dicano sullo stato di salute del mondo.
Perché una cosa è chiara: quello di Joe Exotic e compagni è un manifesto della follia e della demenza del nostro tempo. Irresistibile, certo. Ma allo stesso problematico. Un piacere proibito o meglio, in inglese, un “guilty pleasure”: cioè un piacere colpevole. Ci si sente in colpa del godimento ricevuto da una forma di intrattenimento volgare, facile, grossolana eppure diabolicamente appagante.
Espressione che con Tiger King può assumere un senso anche morale. Quello di contribuire disinvoltamente alla normalizzazione di profili e comportamenti che avremmo, fino a poco tempo fa, definito aberranti. Reggetevi forte: nel discorso c’entra anche Trump, e non di striscio.
Tiger King: documentario sugli allevamenti di felini, spaccato dell’America profonda
Alcune parole per inquadrare l’oggetto per i pochi che fossero sfuggiti alla “tiger king mania”. Tiger King è una docu-serie pubblicata nel marzo 2020 da Netflix. Un documentario in 7 puntate (più una speciale e successiva), strutturato abilmente come una miniserie di finzione narrativa (colpi di scena, cliffhanger, rivelazioni, racconto sulle storie pregresse dei personaggi, conflitti…) ma utilizzando solo riprese dal vero e interviste. La seconda stagione (2021) ha aggiunto altre 5 puntate.
Il motivo del suo successo? Una storia che se non fosse realmente accaduta sarebbe impossibile da credere. Quella di Joe Exotic, alias Joseph Maldonado-Passage, alias Joseph Schreibvogel, e del suo pittoresco allevamento di tigri e grandi felini, anche zoo e parco tematico, in Oklahoma. Nel profondo degli Stati Uniti meno glam.
Puntata dopo puntata, sprofondiamo in una vicenda para-criminale. Alimentata da follia, fanatismo, illegalità, depravazione, musica country, ambizioni smisurate, fallimenti in serie, narcisismo patologico, faide pluriennali tra zoo concorrenti, tentati omicidi, suicidi accidentali, narcotraffico, abuso di droga, demenza, avidità, ossessione per le armi. E, naturalmente, centinaia e centinaia di tigri.
Oltre che dai più allucinanti look, tatuaggi e tagli di capelli da decenni a questa parte: il micromondo raccontato da Tiger King è anche lo spaccato di un’America normalmente poco raccontata, lontana anni luce tanto dalle metropoli quanto dai loro suburbs borghesi.
Così, quello che era nato, nelle intenzioni degli autori (Eric Goode e Rebecca Chaiklin), come un reportage sullo sfruttamento e la cattività dei grandi felini in America diventa subito un documentario antropologico che apre uno spaccato sconcertante su un pezzo di America profonda.
Il segreto del successo: un documentario leggibile in tanti modi diversi
Insomma, storia irresistibile, da cui è impossibile staccarsi, e successo planetario assicurato. Ma perchè ne parliamo? Non tanto per la qualità del documentario, eccezionale dal punto di vista spettacolare (nella sua prima stagione) anche se discutibile nella sua fattura. Ha senso parlarne piuttosto come esempio di una narrazione che pur essendo tutta costituita di elementi individualmente abbastanza ordinari, o non così straordinari, riesce a diventare un caso mondiale per una combinazione quasi magica.
Non è solo la quantità di elementi bizzarri a farne la storia più popolare del momento; è la sua intrinseca capacità di attrarre pubblici, e quindi sguardi, diversissimi. Di generare, più che di offrire, analisi del tutto differenti. E infine, di essere riconducibile non a una morale, ma a una morale variabile, dipendente dall’appartenenza dello spettatore a specifici gruppi socio-culturali. È in questa totale polisemia che Tiger King diventa davvero irresistibile.
C’è chi guarda le disavventure di Joe Exotic e sentenzia (posizione ricorrente sui social): ecco, questa è l’America vera, che orrore! C’è chi concentra il proprio sguardo sulla condizione dei felini, ne denuncia i maltrattamenti, invoca riforme normative e il pieno riconoscimento dei diritti animali. Chi allarga il raggio interpretativo: al misantropo, o anche solo al malinconico, la bizzarra vicenda sembrerà un’allegoria della miseranda condizione umana.
E c’è infine chi – e sono i più a giudicare dai commenti online, dalle reazioni al limite del fanatismo e dall’esplosione di una “Joe Exotic mania” fatta di pagine amorevoli e petizioni per chiederne la scarcerazione – finisce per parteggiare per il protagonista di questa grottesca storia. Joe è uno di noi! È l’uomo qualunque schiacciato da un meccanismo più grande di lui! Il portatore di fragili sogni spazzati via da un mondo spietato e dall’ingiustizia degli uomini!
Il furbo sovvertimento dei valori di Tiger King
L’ultimo esito può apparire sorprendente: chi abbia letto qualcosa della vicenda, o anche solo le righe con cui l’ho riassunta, ne avrà ricavato l’impressione di un sottomondo di piccoli lestofanti senza arte né parte. L’impressione è corretta, e il giudizio sull’uomo è implacabile come la sentenza che l’ha condannato a 22 anni di carcere. Ma la forma del documentario è così squilibrata da produrre un effetto del tutto diverso.
La serie contravviene a qualsiasi aspettativa di neutralità ed equidistanza, producendo due risultati entrambi problematici. Il primo è quello di demonizzare, facendola emergere come la vera antagonista, la figura di Carole Baskin, proprietaria di una struttura per grandi felini in Florida e grande rivale di Joe Exotic. Che ne è così ossessionato da dedicarle infinite aggressioni verbali sul web e da arrivare a commissionarne l’omicidio (secondo l’accusa). Così, l’unico dei personaggi a non avere a proprio carico condanne di alcun tipo diventa il cattivo della storia, una figura che è impossibile non odiare.
Il secondo aspetto problematico è speculare: la trasfigurazione quasi martirologica, e comunque l’elevazione a protagonista in fondo positivo, dell’allevatore di tigri dall’improbabile mullet. Joe Exotic è chiaramente un manipolatore patologico, bugiardo seriale, incallito sfruttatore delle debolezze dei marginali di cui si circonda. Ma in Tiger King finisce per diventare un simpatico cialtrone, un amabile perdente.
È dunque questa la colpa di cui parlavo all’inizio? Non esattamente, o almeno non solo. Certo, il sovvertimento valoriale dei poli positivo e negativo è un problema, nella dimensione ingannevole di quello che si presenta e appare come un lavoro documentaristico e non di fiction. Così come la normalizzazione di comportamenti e attitudini patologicamente aberranti. Ma il punto vero è ancora un altro. E ha a che fare con Trump.
Trump e Joe Exotic, gemelli diversi
Le cronache del 2020 hanno a più riprese riportato l’attivo interessamento dell’allora Presidente Donald Trump alla vicenda del galeotto Joe Exotic. Che ne ha spesso invocato il potere di grazia, per riparare il “torto” di una condanna “ingiusta”. Pur in piena pandemia, Trump ha trovato il tempo di discutere anche pubblicamente l’opportunità di un perdono presidenziale. Lo si vede nella prima puntata della seconda stagione di Tiger King.
Bisognoso di conferme in quell’America profonda dalla cui lealtà dipendevano le sorti delle difficili elezioni di novembre 2020, Trump aveva soppesato il disgraziato allevatore di tigri dell’Oklahoma. Un possibile simbolo ed eroe per quei milioni di marginalizzati che hanno in odio le “élite” e si sentono, non a torto, lasciati indietro dalla trionfale e spietata marcia della globalizzazione. Di questo elettorato trumpiano, nutrito a dietrologie e complottismi e diffidenze verso il “Sistema”, Joe Exotic è nei fatti un fratello eccentrico. E – almeno dopo l’agiografica narrazione televisiva – un potenziale campione.
Sconfitto alle elezioni, Trump ha firmato nelle ultime convulse ore alla Casa Bianca numerosi perdoni presidenziali – ma alla gente della sua cerchia, a quelli che potevano ancora fargli comodo. Joe Exotic, di cui pure si è parlato fino all’ultimo, a quel punto non serviva più.
Ma le analogie tra i due non mancano. Entrambi, in fondo, appartengono alla stessa sfera post-moderna: un mondo radicalmente destrutturato, puramente istintuale e post-fattuale. Trump è, in una lettura solo apparentemente paradossale, un Joe Exotic all’ennesima potenza. Nato ricco e baciato da una strepitosa fortuna: ma non diversamente narcisistico, manipolatorio, ossessionato dalla fama, disinteressato ai fatti, alle convenzioni, financo alle leggi; presuntuoso ed egoista nel momento affermativo quanto petulante nel giocare la carta della vittima, quando la realtà si incarica di smentirne il delirio di onnipotenza.
https://youtu.be/pT4NYto3abM
Tiger King e il problema della realtà
C’è un ultimo cruciale aspetto in cui ha senso sovrapporre due storie apparentemente inconciliabili. Da un lato il disgraziatissimo esemplare di white trash sudista, dall’altro il privilegiatissimo figlio di un brillante immobiliarista newyorchese. E ha a che fare con la natura della nostra realtà.
Sia Joe Exotic che Donald Trump devono il proprio successo, o meglio la trasformazione in icone, a una reinvenzione puramente mediatica del proprio personaggio. Un nuovo racconto della propria storia. Ciò che Tiger King ha fatto per Joe Exotic, The Apprentice fece per Donald Trump.
Reduce da una serie di insuccessi clamorosi, divenuto negli ambienti finanziari un appestato, Trump si reinventò come star di un reality show in cui impersonava ciò che, nella realtà, aveva dimostrato di non saper essere: un imprenditore di successo. Per 14 stagioni, dal 2004, entrò nelle case di un pubblico vastissimo, divenendo l’icona dell’uomo arrivato, e addirittura il simbolo del self made man (lui che aveva ereditato la propria fortuna, per perderla a più riprese!).
La trasfigurazione di entrambi i personaggi, la loro elevazione a simboli e oggetti di identificazione ed empatia, nasce da una reinvenzione puramente mediatica operata a dispetto della realtà.
Jean Baudrillard è morto nel 2007. Ma non è difficile pensare che il filosofo di Simulacri e Simulazione (1981) avrebbe potuto assumere la doppia parabola dei nostri due eroi a perfetto esempio delle proprie teorie sulla dissoluzione mediatica dei fondamenti stessi della nostra realtà.
Ed ecco allora il vero senso di questo guilty pleasure: nel godere della storia di Joe Exotic, potremmo scoprire che c’è un prezzo da pagare.
Ascolta la puntata del podcast dedicata a Tiger King!
Leggi la recensione di Tiger King 2:
Su realtà e virtualità, scopri il documentario I love you, now die
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Una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata il 1 maggio 2020 su Doppiozero: Tiger King, Trump e i simulacri.