In questo loop audio di sardonica cupezza sta tutto Them (Prime Video), anche in riferimento alla sua monolitica struttura, anche nel suo farsi specchio della Storia degli umani soprusi. “Get Happy”, canta Alleluja e sii felice, esorta la voce ancora fulgida di Judy Garland mentre la vettura della famiglia Emory percorre la via di un (“Tutto è quieto sull’altra riva”) sobborgo color pastello dove sorge la loro nuova casetta acquistata con mutuo dopo che il capofamiglia ingegnere è stato assunto nella vicina azienda aeronautica.
La vettura procede a marce basse, gli Emory – padre, madre, due figlie – vogliono gustarsi ogni metro che li conduce ad un’esistenza che (“Tutto è quieto sull’altra riva”) finalmente li emancipi da un passato nell’arida Carolina del Nord dove la madre Lucky è stata vittima diretta di un trauma indicibile, le cui prime mosse vengono mostrate in un incipit che già comincia a torcerti il fegato.
Intanto s’affollano i vicini pronti ad un festoso benvenuto che si sfascia all’istante quando si rendono conto, loro bianchissimi, che i nuovi arrivati sono neri, l’aspirazione di questi ultimi ad una maggior fortuna si (“Tutto è quieto sull’altra riva”) inceppa, quel verso di gaudio in colonna sonora attacca a ripetersi come per il salto della puntina di un vecchio giradischi, il ritmo rallenta fino a squagliarsi, la voce sprofonda in zona tombale: il sorriso si blocca in un rictus catatonico, la pelle illividita, gli occhi iniettati di sangue, ogni speranza annichilita. Niente fiori né torte di mele per gli Emory.
Una serie antologica sulla scia di “American Horror Story”
Così inizia Them, serie creata da Little Marvin, dieci episodi proposti solo in lingua originale (e sottotitoli italiani) su Amazon Prime Video nell’aprile 2021. Una serie antologica sulla scia di American Horror Story di Ryan Murphy, del quale sembra essere un esuberante compendio, ai limiti della parodia, ficcando dentro in una sola stagione ambiti da quella separatamente esplorati, la casa infestata, il manicomio, il salto nel passato, il freak show. Tutto affastellato senza gran criterio in effetti, ma la sua affannata affabulazione è a mio avviso una mossa programmatica, riflesso di questi tempi di congestionamento televisivo.
La comunità della solare East Compton (scandalizzata al pensiero che quell’unica goccia di inchiostro vada ad intorbidire la sua lattescente purezza, e, più prosaicamente, preoccupata che la presenza dei reprobi deprezzi le proprietà) nei sempre più invadenti tentativi di far sloggiare gli importuni – dall’autoradio sparata giorno e notte alle ingiurie e minacce, alle scritte di fuoco nel giardino, alle bambole impiccate alle travi della veranda – si rivelerà ovviamente non meno scellerata dei bifolchi della Carolina da cui gli Emory sono fuggiti, fino ad arrivare alla corda e al coltello.
Come se non bastasse, nella nuova casetta si palesano presenze fantasmatiche altrettanto maligne.
Them: orrori reali e orrori sovrannaturali
Quella di Them però, come detto, è una storia che sfugge alle regole di claustrofobico isolamento dell’horror da camera. Anche i jumpscare (che con il loro dozzinale espediente ci ammorbano da troppi lustri a questa parte) pur presenti in avvio si rivelano una falsa pista: tutto s’allarga e sbanda come un intimidatorio crescendo free jazz.
Gli spettri che affiancano ciascuno dei componenti della famiglia protagonista sono emanazioni di un’intima frustrazione, e di quella essi si fanno infidi propulsori, con un taglio quasi da teatro espressionista.
Un ghignante blackface (è lo spirito della rivalsa violenta) aizza Henry il capofamiglia, già brutalizzato in tempo di guerra e ora quotidianamente umiliato sul posto del lavoro tanto agognato.
Un’educatrice segaligna ed inflessibile (è lo spirito dell’abuso emotivo) insidia la piccola Gracie, confusa, fidente, ma infine pure lei coinvolta nella bellicosità pervasiva: “Picchiali, mamma, picchiali”, col tono pacato di una veterana, dopo che Lucky ha reagito con uno schiaffo ad un’offesa di troppo.
Una compagna di scuola bionda e sensuale (è lo spirito dell’ inadeguatezza sociale) adesca l’adolescente Ruby, intelligente e colta – ma questo non basta in un ambiente in cui la sua mortificazione è un inscalfibile principio.
Un predicatore (è lo spirito di quell’Imperativo Americano, cioé il diritto dei bianchi a spadroneggiare sulle minoranze, che tormentosamente istiga anche il cacciatore di schiavi in The Underground Railorad, sempre su Amazon Prime Video) la cui storia vecchia di cent’anni, il peccato originale che instilla nella suburbia il latente desiderio di prevaricazione nei secoli dei secoli, viene mostrata, in un incisivo bianco e nero, nel penultimo episodio: lui tallona la volitiva Lucky che per far fronte a quel suo rantolo odor di zolfo dovrà traversare scenari di delirio.
Un accumulo orrorifico, tra razzismo e traumi
Spiriti certamente turpi che spingono i quattro a reazioni cieche e disperate (strazianti soprattutto i modi in cui Ruby esternerà i suoi appelli di accettazione) ma infine li rendono consapevoli, li rafforzano come singoli, e come nucleo in strenua battaglia. Cosa che non capita alla cerea collettività che li vuole fuori dai piedi. Certamente il razzismo è la questione preponderante della serie, ma occorrerebbe tener conto anche dello scontento che lo esacerba.
Qua la figura che spicca è Betty (interpretata da Alison Pil, l’unico volto noto in un ensemble di attori intensissimi), la quale, donna negli anni cinquanta, deve sopportare la diffidenza del gruppo di maschi (rosi dalla consapevolezza giammai confessata di essere individualmente dei pusillanimi) nel momento in cui si fa promotrice di una più radicale azione punitiva, in nome di una supremazia ereditata dai padri che sarebbe deprecabile tradire.
Anche lei cela agghiaccianti traumi giovanili (goffamente accennati, ma tutto fa ingrediente nella brodaglia infernale). Alla fine Betty, la cui anima si sfalda come la tappezzeria dalle pareti di casa, si affida ad un lattaio belloccio che un ruolo non ben specificato durante il secondo conflitto mondiale ha fatto rovinare in uno stato irreparabile di alienazione.
In questa fiera dell’accumulo orrorifico anche la coreografia di un gruppo di cheerleaders illuminata da luci soggioganti finisce nel ribrezzo di arti che si schiantano. Anche la cosiddetta “Seconda grande migrazione” (che tra il 1940 e il 1970 ha infiammato le illusioni di tanti afroamericani in fuga dagli stati rurali del sud dove ancora imperversava l’infamità delle Leggi Jim Crow) si scopre essere appannaggio degli speculatori finanziari.
Them e le nuove frontiere del black cinema
Il cinema black odierno certamente irride il cinema che tentava la conciliazione con loschi risvolti paternalistici, ma in fondo pare scettico nei confronti di una più aperta militanza (e mi sembra se ne faccia un gran baffo delle battaglie social su eufemismi linguistici e feticistiche ritorsioni). Spesso declina la propria esasperazione nel genere fantastico, non per edulcorare, anzi: il Male è cellula atavica, lo scontro ineluttabile.
Anche lo stesso sottotitolo della prima stagione di Them, “Covenant”, il Patto, ha una valenza sfuggente. Facendo riferimento immediato ad un accordo col diavolo (e nell’episodio in cui viene stipulato, quanta più paura suscita un’inquadratura prolungata a macchina da presa fissa di una faccia fuori fuoco rispetto ai BUH! faciloni). Ma anche, più in profondità, ad un ingranaggio innescato nella perversa notte dei tempi che attanaglia la vittima al carnefice e la cui forza stritolatrice viene qua mostrata con schiettezza (ma troppi ralenti). Ed è lo stupro, è l’infanticidio, è il tradimento più schifoso. Ed è il fuoco, che non si pone limiti.
Quello che colpisce degli autori di Them è la pervicacia. Non hanno in serbo per i loro personaggi chissà quali evoluzioni di trama e di registro (manca del tutto la dimensione picaresca di Lovecraft Country, e l’ironia e la raffinatezza formale dei progetti di Jordan Peele, e lo struggimento da fiaba crudele che ammanta The Underground Railroad). Non prevedono cambi di scena sostanziali (anche le visite di Lucky nelle periferie dove sono stati confinati amici e parenti neri acquistano nel prosieguo l’ambiguità di un sollievo tutto immaginato). Si ostinano a infilare nella centrifuga dinamiche di genere e istanze all’insegna del “So’ du’ etti signò, che faccio, lascio?” (non manca la malcelata omosessualità del marito di Betty, l’unico bianco accomodante nei confronti della famiglia Emory, più per quieto vivere che per convinzione).
Però, senza farsi illusioni, sono disposti a comprendere nello sguardo d’insieme le afflizioni di Noi e Loro, e tutte queste paiono attorcigliarsi e mordersi come gli aspidi sulla testa di Medusa, unica storia nostra maledetta.