Tra le nuove uscite del 2021, la più interessante è sicuramente The White Lotus (6 puntate appena concluse su Sky, disponibile anche su NOW). Ma la scommessa, non molto difficile, è che ce la ricorderemo anche come una delle migliori produzioni dell’anno. L’abbiamo discussa anche in questa puntata del podcast.
La serie HBO (te pareva) è una dark comedy radicalmente satirica, e racconta una settimana nella vita di un variegato gruppo di ospiti di un lussuoso resort alle Hawaii, il White Lotus del titolo, e dello staff che se ne prende cura.
Spiego tutto meglio dopo, ma ecco qua le ragioni sintetiche per correre a guardarla: una scrittura chirurgica e crudele; una messa in scena perfetta; un cast strepitoso; uno dei migliori personaggi emersi nella tv degli ultimi anni; un’ambizione allegorica e uno sguardo sull’umanità che sarebbero piaciuti a Sartre. Niente meno!
Qui invece trovate il trailer in lingua italiana.
Cos’è e di cosa parla The White Lotus
Partiamo con una notizia sul futuro. Lo show era nato per essere una mini-serie conclusa: ma l’enorme successo (in America è uscita già a metà luglio) ha subito portato alla scelta di trasformarlo in una serie antologica. Niente paura per chi ama le storie con un capo e una coda: le vicende raccontate nella prima stagione sono effettivamente esaurite, quindi vi potete buttare. Nei prossimi capitoli cambieranno personaggi e cast, e ci saranno nuove storie ambientate in altre strutture della medesima catena di resort.
The White Lotus è serie profondamente autoriale: la stessa mente, quella di Mike White, ha creato, scritto e diretto tutte e 6 le puntate. In precedenza, White aveva scritto per il cinema (School of Rock). E in tv dieci anni fa aveva creato, assieme alla protagonista Laura Dern, lo show Enlightened (portato in Italia da Sky solo a metà di quest’anno con il titolo Enlightened – La nuova me).
Con un artificio divenuto ormai così frequente da risultare stucchevole, ma qui per una volta pienamente giustificato, il racconto inizia dalla fine, con un preambolo. Nella prima scena troviamo un gruppo di passeggeri all’aeroporto, in attesa di tornare in America. Viene menzionato il White Lotus, “quel resort dove c’è stato il morto”. Vediamo una bara che viene caricata sull’aereo.
“Una settimana prima”, ed eccoci all’inizio delle vicende che verranno narrate: una barca si avvicina all’imbarcadero di un lussuoso resort hawaiano. Sul pontile, schierati in sorridente attesa, sono i membri dello staff del White Lotus: capitanati dal servizievole Armond (Murray Bartlett), direttore del posto che sfoggia baffi e camicie hawaiane come un Magnum P.I. più elegante. Accolgono i personaggi che la barca scarica nella struttura, e nella nostra storia: americani assai ricchi venuti a passare 7 giorni di relax e detox nel “più romantico albergo delle Hawaii”. Moderno e lussuoso edificio sulla spiaggia, dotato di tutti i confort.
Che però presto mostra di essere meno paradisiaco delle attese.
Un’umanità orrenda, un paradiso che assomiglia all’inferno
Giorno per giorno, infatti, e puntata per puntata, The White Lotus mostra un lato crescentemente oscuro. Lo fa la serie (seppur nelle forme di una commedia appunto dark), lo fanno gli ospiti, lo fa il personale. E persino la stessa struttura comincia a sembrare meno attraente di quanto all’inizio fosse apparsa. Più che una cartolina, è come una di quelle foto in cui ti accorgi, guardandole bene, che è finito nell’inquadratura un dettaglio disturbante. Qualcosa che non ci doveva essere.
L’umanità venuta al White Lotus in vacanza è il peggio del peggio. Ma senza bisogno di essere grottesca. O eccessiva. Tanto che nella prima puntata sembrano personaggi persino poco promettenti, di cui non vedi il potenziale. Ricchi un po’ annoiati e un po’ blasé, con i loro problemi ombelicali. Poi li guardi più da vicino, e ti accorgi che sono una manica di stronzi. Gente proprio brutta. Ma tutti. Vecchi e giovani.
Le ragazze che si professano idealiste e impegnate (Sydney Sweeney e Brittany O’Grady); la grande imprenditrice ossessionata dal lavoro e dal controllo (la sempre ottima Connie Britton); il di lei marito in perenne crisi d’identità (il divertente Steve Zahn). O la coppia appena maritata: lui ricco (Jake Lacy), lei no (Alexandra Daddario, che mostra qualità recitative sorprendenti per chi la ricordava solo per la sua per altre ragioni memorabile apparizione nella prima stagione di True Detective) – con la madre del neo sposo che si presenta nel bel mezzo della luna di miele. O l’alcolizzata donna in là con gli anni (Jennifer Coolidge) che si porta dietro le ceneri della madre, da cui non riesce a staccarsi.
Ma è un problema solo dei ricchi bianchi? No. Non cambia nulla se si guarda ai “servitori” (oltre al già citato Bartlett, su cui torneremo, merita menzione anche Natasha Rothwell nei panni della responsabile della SPA che spera di svoltare agganciando una ricca cliente). Non sono migliori dei “padroni”. Furbi, opportunisti, disonesti, miseri, meschini. Comunque sempre interessati.
Sono tutti uno peggio dell’altro. Tutti convinti di avere diritto alla felicità che li elude, o al desiderio del momento; tutti animati da una perenne insoddisfazione; tutti pronti a recriminare. E nessuno davvero diverso dagli altri, in una storia fatta tutta e solo di personaggi problematici, per una ragione o per l’altra sgradevoli.
E il posto? Si presenta come un paradiso ma gratta gratta è un mezzo inferno, seppur di lusso. Il resort dovrebbe essere il più romantico delle Hawaii: ma troppo spesso le camere non sono come dovrebbero, il cielo è grigio, il mare mosso e senza pesci da ammirare. In compenso c’è il costante apparato, pacchiano e debordante, dei finti ornamenti e delle cerimonie “tradizionali”, il finto indigeno che suona la conchiglia per chiamare gli ospiti alla cena, le musiche folcloristiche, i danzatori hawaiani in costumi di paglia. E l’alcool a fiumi a cercare di compensare tutto il resto.
L’inferno sono gli altri, ci ha insegnato Sartre
Saltate pure al prossimo e conclusivo capitolo se il tema non vi interessa: ma qui provo a spiegare una delle ragioni per cui The White Lotus mi è piaciuta così tanto. È per una profondità e radicalità nel descrivere l’umanità e la nostra società della perenne recriminazione: capace di generare molteplici livelli di lettura, che a me ha ricordato un’opera molto precisa. E cioè A porte chiuse, opera teatrale di Jean Paul Sartre del 1944. Il grande filosofo esistenzialista francese condensò in questo famoso atto unico un bel po’ dei temi della sua riflessione intellettuale.
È in quest’opera che si trova la frase forse più famosa del pensatore: “L’inferno sono gli altri”. Nell’opera teatrale tre personaggi si trovano in una stanza chiusa e senza finestre. Quando capiscono che è l’inferno, i personaggi si aspettano di essere torturati, ma nessuno più entra nella stanza: i torturatori sono loro, l’uno dell’altro. Con la loro semplice presenza, con i commenti, con le domande che impediranno di dimenticare a ciascuno perché sia finito appunto all’inferno. O semplicemente con il loro sguardo.
Perché lo sguardo dell’altro, ci dice Sartre, ci giudica, ci denuda, ci fa soffrire. E noi esistiamo solo attraverso gli altri, i loro giudizi, la loro percezione di noi che ci definisce. Appunto: l’inferno sono gli altri. Verso la fine del dramma scopriamo che la porta della stanza è sempre stata aperta, ma ormai è troppo tardi per uscire: tutti i personaggi sono per sempre imprigionati nella rete di rapporti che hanno creato gli uni con gli altri.
In un certo senso, è quanto accade alla fine di The White Lotus. L’apparente lieto fine che sembra premiare i personaggi è un lieto fine sotto l’ombra della morte: disturbante e macabro, e appunto solo apparente. Chi se ne va dal resort lo fa senza aver davvero risolto o riconciliato nulla: ma avendo piuttosto ingoiato, e nascosto in sé, il proprio pezzetto di personalissimo inferno, da portarsi dietro per sempre.
Esempio perfetto di quanto sia illusorio e beffardo questo lieto fine è quanto accade all’unico personaggio forse “buono” (in senso morale), il 16enne ossessionato dai videogame che causa rottura del telefono scopre la bellezza della natura. La sua scelta finale non è meno ossessiva o infantile: decide di mollare la propria vita e rimanere alle Hawaii per mettersi a pagaiare (per sempre?) tra un’isola e l’altra.
Al punto, vien da dire, che non sarebbe troppo tirata per i capelli una lettura metafisica spinta del tipo “tutti i personaggi sono morti, e il White Lotus è il centro di smistamento dell’inferno”. Sto scherzando, ma non troppo.
White Lotus: ritmo perfetto, bella scrittura, un protagonista eccezionale
Le buone ragioni per guardare The White Lotus dovrebbero a questo punto essere più d’una. Ne aggiungo alcune, anche per meglio sottolineare la forza davvero notevole di questa brillante produzione HBO.
Se superate la prima puntata, preparatoria e che può sembrare lì per lì quasi incerta nel tono, vi ritrovate in un racconto perfetto. In cui le dinamiche sviluppate sono tutte indispensabili e tutte porteranno frutti, naturalmente avvelenati. L’ideazione degli attriti e dei conflitti è impeccabile e feconda, assicurando sviluppi godibilissimi. La caratterizzazione dei personaggi efficacissima, e sapiente la scelta di cosa ciascuno rappresenti in termini socio-culturali.
La scrittura – sempre ritmata, serrata, implacabile – lega ogni cosa, come l’onnipresente colonna sonora: anch’essa tutta ritmo, ossessiva, parodisticamente tribale.
In The White Lotus si ride, e parecchio. A volte di gusto, a volte amaro. A volte in modo sorprendente, a volte persino in modo sconcertante: di malattie, morte, ossessioni, dipendenze, sentimenti. Non è per tutti i gusti, e il crescendo delle due ultime puntate potrà sconcertare qualche spettatore: ma anche l’eccesso qui non è mai gratuito.
E questo anche grazie, ed è l’ultima nota, a uno dei personaggi più belli e grandiosi della tv degli ultimi anni: il direttore del resort Armond, interpretato da uno spettacolare Murray Bartlett. È lui il cardine di tutto. Si presenta come un normalissimo e servile maitre, preoccupato solo del benessere dei suoi ospiti; ma scopriamo presto che li disprezza profondamente. Non solo: si rivelerà essere un ex drogato pronto a ricadere nel vizio, poi un vero animale pronto a qualsiasi eccesso. L’ammaliante, sorridente, luciferino Armond è quasi il direttore di una prigione folle e inconsapevole: una prigione per persone che non sanno di essere prigioniere. E ne è insieme egli stesso prigioniero.
A lui la serie affida alcune battute chiave, quelle che permettono di accedere ai livelli più profondi di lettura di una dark comedy che satireggia l’umanità con radicalità pari al suo garbo e all’apparente leggerezza.
“Vederli mangiare ogni sera mi fa venire voglia di strapparmi i bulbi oculari”, commenta osservando il rito della cena degli ospiti.
“Loro sfruttano me, io sfrutto te”, dice a un collaboratore. Per poi aggiungere: “Caduta libera, Dylan” (in originale: “Crash and burn, Dylan”).
Armond col sorriso smagliante, clown tossicomane e pieno di odio e di furia, un vulcano costantemente sul punto di esplodere: a ricordarci che sotto l’apparenza del paradiso sulla terra ribollono, minacciose, le acque scure dell’inferno.
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The White Lotus, se il paradiso nasconde l’inferno | PODCAST
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