Come gli zombi da cui prende il titolo, anche The Walking Dead è sembrata più volte morire, o esser morta. Per poi resuscitare. E proprio come i morti viventi di cui racconta, è meglio tenerla d’occhio anche nelle fasi in cui si muove lenta: quando meno te lo aspetti, morde.
Un ritratto che resta vero anche adesso che l’undicesima stagione – l’ultima: sembra impossibile ma è così – è arrivata alla sua conclusione. 24 puntate, distribuite nell’arco di un anno in tre blocchi di 8. Che hanno conosciuto in Italia la migrazione da Sky a Disney+. E che con l’episodio finale pubblicato qui da noi il 21 novembre 2022 hanno visto concludersi un’epopea iniziata 12 anni prima, il 31 ottobre 2010.
Nella storia ancora giovane della complex tv, 12 anni (e 11 stagioni) sono un’eternità per una serie moderna, a trama orizzontale. La cui popolarità, dopo le vette delle stagioni centrali, è andata declinando, vero. Ma la cui influenza sull’immaginario è forse invece ulteriormente cresciuta. Il fiorire di spinoff che proprio il finale della serie madre contribuisce come vedremo a lanciare sta lì a dimostrarlo.
Ora che è “finita”, possiamo fare il punto su questo pezzo di storia della tv. Parleremo naturalmente del finale (indicando i capitoli spoiler!). Ma soprattutto tireremo un po’ di somme. Sui temi, i motivi della fascinazione e del successo, i progetti collegati presenti e futuri di The Walking Dead.
Come in effetti merita questo – a suo modo – grande show. In cui la lotta disperata di un gruppo di umani per sopravvivere in un mondo infestato dagli zombi non è solo il prologo narrativo a tutto quanto avverrà. È anche il pretesto per un apologo pessimistico, cupamente morale e spesso più complesso di quel che sembra sulla natura umana.
The Walking Dead: da dove deriva, di cosa parla
Tratta dal fumetto creato da Robert Kirkman (cui abbiamo dedicato questa puntata del nostro podcast), la serie targata AMC ha avuto un gigantesco successo, tradottosi in una longevità rara. La conclusione della stagione 11, in questo fine 2022, ha portato il conteggio a 177 episodi.
Lo show prende le mosse da un’epidemia che contagia gli esseri umani e li condanna a tornare, dopo la morte, come zombi. Per poi raccontare la lotta per la sopravvivenza di gruppi di viventi che, in un mondo infestato dai famelici mostri, devono cercare di ricostruire comunità.
Se vi siete appena svegliati da un lunghissimo coma (per inciso, è quel che accade all’inizio della serie al protagonista di gran parte delle sue stagioni, Rick Grimes) e non avete idea di cosa siano gli zombi, ecco qua. Sono morti che si ostinano a non morire. Esseri umani che, presumibilmente infettati da un virus, tornano dopo la morte a uno stato di semi-vita, privi delle funzioni cerebrali superiori e animati solo dalla primitiva necessità di sfamarsi. Creature vaganti implacabili e persistenti come uno stalker.
Ma sono soprattutto una formidabile icona pop e uno dei più forti esempi di traduzione nell’immaginario orrorifico dell’evoluzione sociale del nostro tempo. Se il vampiro era il non-morto di una società aristocratica, lo zombi è il mostro non-morto per la società democratica, globalizzata, massmediatica. Lo zombi è il non-individuo, che ha dalla sua la forza soverchiante del numero. Lo stesso George Romero, che ha codificato il genere oltre 50 anni fa con il film capostipite La notte dei morti viventi (1968), grazie al successivo Zombi (1978) porterà nel genere un’esplosiva satira della società dei consumi: ambientandolo non a caso in un centro commerciale assediato – per coazione a ripetere – da orde di vaganti.
Un mondo dominato dai morti viventi
In The Walking Dead la società umana è travolta dall’improvvisa inarrestabile apparizione dei “morti che camminano” del titolo. Lo show inizia in medias res. Il vice-sceriffo di una contea della Georgia, Rick Grimes (Andrew Lincoln), si sveglia nel suo letto d’ospedale. E scopre che la civiltà è collassata.
Una storia individuale (un uomo che cerca, tra mille pericoli, la propria famiglia) diventa presto un racconto corale. Seguendo gruppi di sopravvissuti che lottano per la propria vita. E che – stagione dopo stagione – realizzano che non meno pericolosi dei revenants sono gli altri esseri umani. L’uno contro l’altro armati. Regrediti allo stato di natura paventato dal filosofo Thomas Hobbes.
Il tono della prima indimenticabile stagione, in cui showrunner è il regista Frank Darabont che dirige anche la bellissima e assai cinematografica puntata iniziale, detta la linea per l’intera serie. Se la premessa è horror e post-apocalittica, le corde del racconto lavorano su accenti drammatici. Con al centro, quando non ci se ne dimentica, una riflessione anche amara sulla natura umana e la sua pericolosa ambiguità.
Possiamo identificare 4 elementi-chiave drammaturgici molto ripetuti, strutturali, attorno a cui si organizza la narrazione di praticamente ogni episodio di The Walking Dead. Ovviamente il pericolo, onnipresente in un mondo in cui i non morti sono ovunque e dietro qualunque curva può spuntare una minacciosissima orda. Naturalmente la conseguenza più immediata del pericolo, e cioè la paura, una paura permanente che diventa angoscia. L’insicurezza, l’instabilità, che impedisce di dare fondamenta salde alle faticose conquiste di una comunità che vorrebbe risorgere. E però anche il polo opposto del pendolo emotivo: quel sentimento impalpabile ma sempre capace di riaccendere i cuori e le menti che chiamiamo speranza.
Speranza che finisce, invariabilmente, per restituire nuove e più forti delusioni…
Zombi, virus, collasso della civiltà
In The Walking Dead, è vero, ci sono gli zombi. Ma alla base di tutto e prima di tutto c’è la diffusione di un contagio che ha infettato i viventi. Condannandoli a un ritorno post mortem. Un contagio a cui nessuno è immune, come si scopre nel drammatico finale della prima stagione: ambientato non per caso in ciò che resta del CDC, il mitico Centro per il controllo delle malattie infettive di Atlanta. Al tema del contagio e della sua rappresentazione cine-televisiva abbiamo dedicato un’ampia analisi, che trovate qui, e che racconta film e serie sulla pandemia.
L’inflazione cinetelevisiva degli zombi e quella, più recente, delle epidemie sono solo due facce, spesso intercambiabili, della stessa medaglia. L’antica paura per la fragilità delle conquiste umane. Che oggi ha assunto toni globali e apocalittici.
Ed ecco allora tra serie tv, videogiochi, fumetti, blockbuster cinematografici – cioè la letteratura popolare del nostro tempo – emergere, ben prima del Covid-19, il grande tema del contagio. Con le sue implicazioni. Il contagio con la sua capacità di far crollare la civiltà, con le forze dell’ordine che provano a mantenere il controllo e falliscono, i militari che prima resistono e poi vengono travolti. E quindi il caos che ne discende, la distruzione dell’ordine su una scala che si fa globale, la fuga disordinata dei sopravvissuti, o gli esodi di massa, e le città che si fanno deserte, abitate solo da mostri vaganti o fantasmi…
In un certo senso, ciò che distingue il mastodontico franchise The Walking Dead è il suo interesse a raccontare non tanto la caduta quanto ciò che accade dopo. Mostrandoci un mondo in cui, poco a poco, siamo costretti a riconoscere due verità problematiche. Che i mostri non sono cattivi. E i protagonisti non sono buoni. Pur terrificanti, gli zombi vagano infatti sotto il dominio dell’unico istinto loro rimasto, un’insaziabile brama di carne. Sono un nemico, certo, eppure non hanno colpa morale per ciò che sono diventati. Ma che giustificazione hanno i supposti “buoni”, gli esseri umani – cioè noi? In questa popolarissima saga nessuno è davvero capace di astenersi dal male. Il gruppo dei protagonisti, i beniamini del pubblico, si macchia, stagione dopo stagione, di atti esecrabili. Spesso nella logica di un “noi contro tutti gli altri”, di una tribalizzazione estrema.
Dimostrando ripetutamente il punto centrale dello show: in un mondo in cui le strutture sociali sono collassate è l’uomo, più ancora del mostro o del virus, a fare paura.
È il punto se vogliamo più “politico” di The Walking Dead. Ne abbiamo parlato in questa puntata del podcast di Mondoserie , indagando i diversi modelli di società post apocalittica, le loro relazioni con la nostra realtà presente e storica e i perché del loro inevitabile collasso.
Il franchise infinito di The Walking Dead
La serie ammiraglia si è conclusa con 11 stagioni e 177 episodi. Ma il franchise è più vivo che mai.
Ha già completato 7 stagioni (con una ottava già annunciata) e superato le 100 puntate Fear the Walking Dead. Spinoff, da noi su Prime Video, che per le prime tre stagioni (dal 2015) funge più o meno da “prequel generale” alla serie madre: raccontando le prime fasi della pandemia e la caduta dell’ordine sociale. E che poi ha portato le proprie storie a “raggiungere” temporalmente la cronologia della serie principale, intrecciandone le vicende. E in alcuni casi i personaggi.
Un secondo spin off, The Walking Dead: World Beyond, ha debuttato nel 2020, anche questo su Amazon Prime Video. Due sole stagioni per 20 episodi totali che raccontano una storia parallela, una decina d’anni dopo l’apocalisse. Qui, i ragazzini cresciuti (relativamente al sicuro) in una comunità protetta durante i primi anni della catastrofe sono costretti a confrontarsi con un’opaca e brutale organizzazione militare, che sta ricostruendo a viva forza un modello di ordine sociale. La novità è che protagonisti del racconto qui sono gli adolescenti, che si affacciano a un mondo di cui ignorano il prima.
In Italia la serata conclusiva della serie madre ha visto anche il debutto di Tales of the Walking Dead, in America trasmessa quest’estate. Serie antologica di 6 episodi autonomi, ciascuno dei quali racconterà (con un cast importante) personaggi vecchi o nuovi alle prese con vari momenti della zombie apocalypse.
Non basta? Tre ulteriori spinoff sono già stati annunciati da AMC. Ben prima del finale di serie, alla faccia degli SPOILER. Uno incentrato su Daryl, uno sul rapporto tra Rick e Michonne, uno su Negan e Maggie.
E taciamo dei tanti videogame diretta filiazione della serie…
Come eravamo rimasti: la seconda inutile parte della stagione 10
Visto il passaggio della serie da Sky a Disney, che ha lasciato a piedi molti spettatori, ha senso prima di arrivare al gran finale ricordare rapidamente come eravamo rimasti. Se non vi interessa, skippate!
La decima stagione si era interrotta anzitempo per la pandemia: la pandemia reale, non quella fittizia da cui muove lo show. Che poi, “anzitempo”: boh. Uno dice: c’è stata la pandemia, non ti agitare, calma, va bene così. La stagione, anche se più corta del normale, aveva comunque avuto il suo arco primario concluso: quello della guerra contro i Sussurratori, iniziato nella stagione 9. Insomma, era proprio necessario riprendere?
A conti fatti, no. Anche perché le limitazioni dovute alla pandemia si sono viste tutte, nei 6 episodi cosiddetti “bonus” della seconda parte della stagione 10. Episodi che sembrano girati dal parente povero di questo show di enorme successo, e produttivamente piuttosto ricco. Puntate con uno, due, massimo tre personaggi; fatte di discussioni estenuanti; con ambientazioni ridotte all’osso.
Difficile togliersi dalla mente l’episodio – un’intera interminabile puntata di tre quarti d’ora – della zuppa. Ve lo ricordate? La puntata che ruota tutta attorno alle difficoltà di Carol nel preparare una zuppa per i suoi amici, tra penurie di ingredienti, problemi tecnici, e un topo che la tormenta. Quasi all’auto-parodia.
Tutto da buttare, allora? No, che poi è il motivo per cui non siamo mai riusciti a staccarci dalla serie, neanche nei momenti grami. Il solito guizzo, qui, si concretizza nella puntata finale della stagione 10: la tragica origin story di Negan. Preludio all’ulteriore evoluzione di questo complesso e fascinoso villain nella stagione 11. E al già menzionato futuro spin off a lui dedicato.
Stagione 11: le 24 puntate che concludono The Walking Dead [SPOILER]
L’undicesima e ultima stagione del nostro dramma zombi post-apocalittico non è stata una passeggiata. Da nessun punto di vista. È iniziata ad agosto del 2021. Per finire 15 mesi dopo. Suddivisa in tre tronconi di otto episodi ciascuno, distribuiti a distanza di mesi l’uno dall’altro.
Nelle 24 puntate della stagione finale di The Walking Dead i nostri eroi (o meglio chi è rimasto) ne hanno vissute di tutti i colori. Spesso divisi in sottogruppi ciascuno con il proprio set di storie e difficoltà. Hanno lasciato Alexandria, che da ormai 6 stagioni era la loro casa. Sono stati accolti (con difficoltà e diffidenze reciproche) nel Commonwealth, un’enorme e prospera comunità governata dall’apparentemente benevola Pamela Milton. Hanno combattuto e sconfitto i Razziatori, una sorta di gruppo militarista, fascista e cristiano. Hanno battagliato a più riprese con Lance Hornsby, viscido luogotenente del Commonwealth. Tutti i superstiti, poi, si sono ritrovati nella battaglia finale: chi da dentro, chi da fuori, insieme hanno mosso guerra alla struttura di potere autoritaria del Commonwealth. Istigando e guidando una rivolta, culminata nella guerra civile (con tanto di invasione zombi) delle ultime due puntate.
Tanta roba per una sola stagione – conclusiva! – della serie. Anche perché poco alla volta il Commonwealth è emerso da un lato come l’avversario finale; dall’altro come il simbolo del complicato rapporto filosofico di The Walking Dead con il potere, la politica, l’idea stessa della ricostruzione. Oggettivamente il Commonwealth ha incarnato la più riuscita (ri)organizzazione umana incontrata nello show. Una comunità popolosa. Una efficace struttura sociale. Comfort. Operosità. Sicurezza. Eppure ha finito per incarnare il male: e cioè un ritorno all’indietro, al mondo di prima dell’apocalisse. Alle ingiustizie di quel vecchio modello spazzato via dal collasso della civiltà. Un rigurgito reazionario.
L’episodio finale di The Walking Dead: sì, no, insomma [SPOILER]
Insomma: giunta al suo ultimo episodio, The Walking Dead doveva fare tante cose. Definire il destino del gruppo dei superstiti. Chiudere la loro ultima guerra, quella contro il Commonwealth. Decidere che prospettiva darsi: un finale cupo? Un finale speranzoso? Ancora: un finale chiuso o aperto? E naturalmente, che fare con tutte quelle storie di cui da anni gli spettatori reclamavano in modo sempre più esasperato uno sviluppo, a partire dal fato di Rick (e, in misura minore, di Michonne), rimasto indefinito per tutte le ultime stagioni? Tanto più visto che le differenze tra serie e fumetto avevano lasciato senza bussola i fan, che puntata dopo puntata vedevano esaurirsi il tempo della loro serie senza che ci si fosse degnati di spiegare che cavolo fosse successo al protagonista indiscusso delle prime 9 stagioni…
Tanti nodi da sciogliere in un’ora. Forse, un po’ troppi. La puntata finale di The Walking Dead porta così a una serie di soluzioni in parte frettolose e in parte furbesche. Il che è paradossale, considerando che la stagione era lunga ben 24 episodi.
Il conflitto col Commonwealth è risolto con qualche semplificazione brutale, ma non stiamo troppo a sottilizzare. Il vecchio modello, che riproponeva le ingiustizie del passato capitalistico, viene abbattuto: letteralmente, con una grande esplosione che ne cancella i simboli. Fortunate coincidenze permettono ai più di sopravvivere, e tra loro a tutti i beniamini. Certo, la fine di Rosita è straziante: ma in fondo nessuno dei veri big muore. I sopravvissuti festeggiano con un pranzo gioioso e abbondante. Alcune storie arrivano finalmente a un punto di svolta: Negan chiede perdono a Maggie, l’ex villain ha completato il suo percorso di espiazione.
Stacchiamo a un anno dopo: il vecchio Commonwealth ha cambiato volto. A governarlo è uno dei personaggi più amati della serie, Ezekiel il buono. Accanto a lui un personaggio nuovo e che però si è fatto valere e voler bene, l’ex generale Mercer. Tutto è in fiore. Tutto è luminoso. La terra porta frutto. Le strade sono sicure. La comunità prospera. Per The Walking Dead e le sue tinte fosche è più che un happy end: è quasi un tripudio.
Potrebbe anche andar bene così. Ma poi AMC si ricorda che deve fare due cose. Promuovere i nuovi spinoff. E dare un contentino ai fan orfani di Rick (e Michonne). E così la puntata conclusiva inanella una serie di sottofinali. Tutti scopertamente, quasi oscenamente, funzionali alle prossime espansioni del franchise. Abbiamo già detto di Maggie e Negan: la loro pacificazione, pur dolorosa e problematica, consentirà lo spinoff Dead City. Poi c’è Daryl, come sempre irrequieto: il suo addio, o meglio arrivederci, all’amica di (quasi) tutta la serie, Carol, è toccante. In sella alla moto parte per nuove avventure (che potrebbero portarlo nello spinoff a lui dedicato addirittura in Francia, non si sa bene come né perché).
Non basta ancora. L’ultima porzione della puntata 24, della stagione 11 e dell’intera serie di The Walking Dead fa ricomparire il grande desaparecido. E non solo in una memoria postuma affidata a immagini di repertorio e parole annotate di qualche lettera perduta. È proprio lui, Rick Grimes in persona, per quanto male in arnese: scalzo, ferito, coperto di fango. In fuga, ancora alla disperata ricerca di ciò che resta della propria famiglia. Sulla spiaggia costellata di corpi, davanti allo scheletro di una città distrutta, fa appena in tempo a gettare una lettera in una bottiglia, a nascondere sul relitto di una nave una traccia della propria presenza. Poi viene raggiunto dai propri inseguitori, in elicottero. Ricatturato da chi lo ha presumibilmente tenuto prigioniero per tutti questi anni. E altrove vediamo Michonne, in armatura, che lo cerca per i vasti spazi dell’America.
Sembra più un finale di stagione che di serie. Costruito con un cinismo commerciale che lascia quasi allibiti: è ragionevole dire che i fan avrebbero meritato, dopo 12 anni, un epilogo maggiormente degno di questo nome.
12 anni, 11 stagioni: tiriamo le somme
È chiaro: in 11 stagioni non tutto può essere oro. E The Walking Dead in più punti si impantana. Diventa una soap opera con gli zombi, e vorresti smettere.
Ma pur tra alti e bassi, e a volte lungagnate tremende in certe stagioni (specie tra la sesta e la nona), alla fine la serie ha mantenuto il suo fascino. C’è sempre qualcosa che ti fa tornare voglia di vederla. Sarà il mondo post-apocalittico, così preoccupantemente affascinante per l’uomo del nostro tempo. Le tinte crepuscolari che la distinguono. L’aria un po’ da western tra i boschi e i borghi della Georgia statunitense. La cupa moralità che la segna. L’idea che più pericolosi e crudeli dei non morti sono i vivi, resi lupi dal ritorno allo stato di necessità. E le domande che ne seguono. Cosa ci rende umani? Cosa definisce giusta una società? Quali sono le implicazioni morali delle scelte che facciamo per sopravvivere?
Anche il finale, allora, non fa eccezione. Una volta accettate le premesse della serie, il suo inseguire quasi sfacciatamente la stessa faticosa immortalità dei mostri che le danno titolo, persino la non-conclusione suona meno peggio. Un coro di personaggi – vivi, morti, risorti – ripete come un mantra le parole che chiudono la serie, “We are the ones who live”, siamo quelli che vivono. Un’affermazione apparentemente banale, ma che in realtà corregge in modo significativo la conclusione più dark raggiunta molte stagioni fa da Rick: “We are the walking dead”, siamo noi i morti che camminano.
È questo il messaggio del finale di The Walking Dead. Opportunisticamente, persino goffamente, ma ostinatamente e in fondo ottimisticamente, per i sopravvissuti alla fine del mondo come per il franchise che li racconta la vita continua.
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La nostra recensione: Tales of the Walking Dead