VRRRRMMM! VRRRRMMM! Una serie di accordi in minore eseguiti da un’orchestra d’archi con un effetto di vibrato, così attacca la serie The Underground Railroad. Ed è il suono di un motore che si avvia, e – con quella ribollente fluttuazione – il sentire più giusto per introdurci non solo all’ansia che scartavetra l’interiorità dei protagonisti ma anche alla (benvenuta!) elusività della sua narrazione. Un incipit musicale che si accorda perfettamente alle primissime immagini sparpagliate che pescano dagli episodi successivi come in un nastro che si riavvolge. Una coppia abbracciata che cade nel vuoto, volti di gente ancora sconosciuta, interiora appallottolate e sepolte, il pianto di un neonato, un fascio di luce dal nero.
E già siamo turbati ed irretiti.
The Underground Railroad, tra storia e finzione (e un premio Pulitzer)
La serie prodotta per Amazon Prime Video è tratta dall’omonimo romanzo, Premio Pulitzer del 2020. “Ferrovia sotterranea” nella seconda metà dell’800 indicava un tragitto sicuro per gli schiavi neri che fuggivano dagli stati del sud verso la libertà, abbaini e cantine forniti di cibarie e vestiario. L’autore Colson Whitehead fa di un’espressione metaforica un corpo concreto. Nella realtà poetica del libro esiste sotto terra una galleria lungo cui viaggia un trenino che raccoglie i disperati, grazie anche al tramite di capistazione bianchi, abolizionisti di buona volontà, e li conduce al nord.
Da un tale pitch di genere ucronico ci si potrebbe aspettare uno svolgimento avventuroso, protagonisti energici e tappe piene di insidie da superare, una scansione netta e coinvolgente per aspera ad astra. Ma stavolta le cose non sono così semplici.
In principio è l’inferno. Una piantagione di cotone in Georgia dove il sadismo del nuovo padrone imperversa senza ritegno, e dal cui morso venefico fuggono due giovani. Cora, convinta che la madre sparita anni prima si sia servita della leggendaria ferrovia, abbandonandola, e Caesar, forte e dolce e innamorato di lei. Dietro a loro viene sguinzagliato il cacciatore di schiavi Ridgeway: lo fiancheggia un ragazzino di colore che lui adottò neonato, Homer, figura meravigliosamente straniante, braccio destro di incondizionata devozione, predatore inflessibile della razza sua.
Il suprematismo bianco e il razzismo che si fa incubo
In effetti le tappe piene di insidie ci sono, quasi ogni episodio (dei dieci di cui è composta la serie) è ambientato in uno stato diverso, ma pur allontanandoci dalla Georgia l’incubo del razzismo non si va via via rarefacendo ma anzi si declina secondo modalità eclatanti. La premurosa ospitalità che cela cospirazioni, la repressione messa in scena con foga dissennata, l’annichilimento della stessa coscienza (nell’episodio più impressionante, un notturno tutto vissuto nei pressi di un bosco dato dolosamente alle fiamme per costringere gli indigeni ad abbandonarlo), l’utopia di un affrancamento alla mercé degli umori e degli interessi di soci subdoli.
Alternandosi alle tappe del viaggio di Cora, alcuni episodi approfondiscono la figura di Ridgeway, secondo un approccio che già trovammo in Them (leggi qui il nostro racconto) e che intende gettare luce non solo sulle vittime ma anche sui persecutori. Per cui ecco un uomo che fin da ragazzo ha connaturata la certezza che il bianco americano abbia il sacrosanto diritto di predominio sulle altre razze. E questo a dispetto dell’educazione di suo padre, raro campione di magnanimità, a dispetto della sua stessa condizione di asservito roso da tormenti il cui scandaglio è suscettibile a plurime interpretazioni.
Purtroppo non ho letto il romanzo, e non so dire quante libertà siano state prese nei confronti dell’opera letteraria. La sensazione è che, a differenza di altri prodotti tratti da bestseller che alla lettura paiono poco meno scarni di un trattamento cinematografico, questa serie non abbia esaurito le potenzialità di un racconto magmatico. Ma si sia fatta fortemente influenzare da uno stile evocativo già nelle corde di chi lo ha adattato: Barry Jenkins, regista e produttore, oltre che co-sceneggiatore. Un autore in clamorosa crescita.
Barry Jenkins, dall’Oscar per Moonlight a The Underground Railroad
Nella notte degli Oscar del 2017 il suo Moonlight vinse la statuetta come miglior film, e per alcuni fu uno scippo all’oltremodo benvoluto “La La Land”, un premio dato non per la qualità del film ma per ragioni politiche. Sbertucciato anche per via dello svarione di Beatty & Dunaway al momento dell’annuncio.
Invero, a parte il fatto che il protagonista fosse Nero+Omosessuale (quindi gonfalone incarnato di minoranze: che poi tutto questo abbia offerto conforto e riconoscimento mi pare fine benemerito) il film si mantiene lungi da ogni tentazione di pretestuosità ruffiana. Moonlight è uno dei film dal montaggio più ellittico e dall’atmosfera più rarefatta degli ultimi tempi. Niente di programmatico né di megafonato. Forse è un poco stiloso (ma apprezzabile era l’uso di certi espedienti malickiani – soprattutto in quei passaggi in cui il sonoro non corrisponde all’immagine – calandoli nella quotidianità di una periferia problematica). Ma certamente Jenkins in quel film è riuscito a sublimare il disagio del personaggio, il suo irrequieto disorientamento che innerva il racconto stesso del film, col sussurro e un finale sospeso.
E quel misto personalissimo di vibratilità stilistica e di dolorosa introspezione, Jenkins lo imprime anche ad un racconto televisivo di tale possanza. Mischia le carte, coniuga l’approccio deterministico all’astrattezza dell’esposizione, mantenendo un accento interrogativo su quella ferrovia sotterranea, scavata in segreto chissà quando da una misteriosa umanità che vediamo effigiata in un caoticissimo affresco.
Ripensare l’epica, oggi: un canto esemplare e insieme ineffabile
“Epico” è uno degli attributi di cui tanti si avvalgono negli ultimi tempi in riferimento a storie corali che raccontano la disfatta e la rivincita di personaggi macignosi in difesa dell’universo, con tanto di affollatissima battaglia campale. L’appellativo è usato a mio avviso troppo spesso in riferimento ad una messa in scena pletorica, a toni ottusamente enfatici
Il primo significato del termine che ho trovato in rete è “Attinente alle grandi narrazioni poetiche, volte all’esaltazione degli eroi”: quel che trovo riduttivo è che il più delle volte si scelga l’attributo “epico” calcando sul concetto di “grande” e di “esaltazione” e meno sulla sfumatura “poetica”.
Definire la poesia, e la proliferazione dei suoi sensi e il suo andamento, è quanto mai impervio. Ma sono convinto che la narrazione per essere “epica” debba possedere, oltre che all’ampio respiro, pure un certo grado di sfuggevolezza, meglio: di ineffabilità.
Un racconto che riesca a cogliere i suoi personaggi nell’azione ma facendone emergere l’esemplarità, nel canto, appunto. Che si leva incisivo ma poi riverbera, si fa ondeggiante come quel vibrato impetuoso dell’orchestra di archi che principia questo splendido poema visivo, echeggiando con immagini forti, atti di abominio e tortuosi struggimenti, che pulsano come luci di stelle morte, il cui pulviscolo cosmico si disperde tossico e resta sospeso sempiternamente. Barry Jenkins è riuscito ad evocare lo spirito dell’epica, e in maniera tutta sua. Non intona la melodia semplice e perentoria del racconto, non stempera i sentimenti nell’elegia funebre, non li rivitalizza sforzatamente con le semplificazioni del postmoderno.
In questa intervista, Barry Jenkins spiega il senso “epico” e la difficoltà dell’operazione:
The Underground Railroad: brutale, insostenibile, indimenticabile, magnifica
Cora per tutta la serie è costretta a nascondersi, o propensa ad adattarsi e poi di nuovo, traumaticamente, costretta a fuggire. Ma nella successione narrativa che la vede passare da una “stazione” di patimento all’altra, da un compagno perduto all’altro, viene smorzato il convenzionale spirito escapista. Proliferando altrimenti un onirismo che rende la sua parabola forse più disagevole per lo spettatore, ma innalzandola in una rapsodia che accorda brutalità a chimera.
Perché brutale lo è questa serie. A tratti la visione è insostenibile (e torna il fegato a torcersi, ancora e ancora), ma la storia che si ordisce ha i bordi sfrangiati, la sua cadenza l’evanescenza di un sogno guasto. Nelle ellissi temporali si inabissano personaggi anche importanti. Alcune inquadrature spalancano baratri di senso (la traballante soggettiva di un disgraziato bruciato vivo e già morto e ci si chiede da quale dimensione egli continui a fissare un mondo in cui c’è gente che balla – balla, perdìo! – ai piedi del suo patibolo). Nella fotografia i colori paiono accoratamente amalgamati dalla feccia unta sul fondo di un calice che è l’umanità più respingente, e più autentica.
Ritornano alcune immagini dalla valenza allegorica, come lo stagno-soglia insidiato da un volubile mocassino acquatico, o la fucina dove avvampa l’insofferenza dello smarrito Ridgeway, e ora spenta. I nomi parlanti dei personaggi. Panoramiche scorrono lentamente sui volti della gente nera, gli occhi inchiodati su di noi che guardiamo, l’espressione dubbiosa più che offesa
Di quello sconcerto si fa carico Cora, eroina dall’anima infranta, può urlare e piangere per una notte intera. Di quella resilienza ella si fa emblema, perché alla fine non è col trenino delle meraviglie che riesce ad arrivare in un angolo di mondo dove un sospiro di sollievo se lo può finalmente concedere. Non accolta dall’abbraccio risoluto di una comunità, ma confidando nella “gentilezza degli sconosciuti”.
Un’opera televisiva magnifica e indimenticabile.