The Staircase (Suspicions, dall’originale francese Soupçons; noto anche come Death on the Staircase) è una docuserie in tre parti (13 episodi, Netflix) andate in onda tra il 2004 e il 2018. Il progetto, a cura del documentarista francese Jean-Xavier de Lestrade (Oscar 2002 per il film Murder on a Sunday Morning), riprende tutte le fasi del processo a Michael Peterson, giornalista e scrittore americano, accusato dell’omicidio della moglie Kathleen – a suo dire morta in seguito ad una rovinosa caduta dalle scale (the staircase).
De Lestrade, accorso a Durham subito dopo la tragedia e lo stato di messa in accusa di Peterson, ha la prontezza di chiedergli il permesso di riprendere la sua vicenda esistenziale e giudiziaria, fino alla sentenza del processo. Nessuno dei due aveva allora la più pallida idea di essere solo all’inizio di un allucinante viaggio che sarebbe durato ben sedici anni. Riservando diverse sorprese dolci o amare, e clamorosi colpi di scena.
Dopo i primi otto episodi, la parabola di Michael Peterson sembrava conclusa. Andranno invece inaspettatamente ad aggiungersi una seconda, e addirittura una terza parte (per un totale di altri 5 episodi) di questa epocale e mastodontica opera documentaristica.
La prospettiva principale di The Staircase, pur non sbilanciandosi mai né a favore né contro l’eventuale veridicità dell’accusa, e seguendo la vicenda dal punto di vista di Michael, assieme ai suoi famigliari, e del suo brillante ed appassionato legale David Rudolf, è giocoforza quella della difesa – che grida a gran voce la sua assoluta innocenza.
Tragico incidente o macabro delitto?
La docuserie di Jean-Xavier de Lestrade è dunque tripartita e ripercorre l’intero processo al romanziere americano fino alla condanna per l’omicidio della moglie nella prima parte (2004). Nella seconda (2013) la riapertura del caso, dopo otto anni di carcere, e nell’ultima parte (2018) il patteggiamento forzato di Michael tramite l’Alford Plea – con cui negli USA si accetta la condanna pur continuando a dichiararsi non colpevoli.
Questo controverso incubo giudiziario, durato quasi venti anni, ha inizio con il cadavere di Kathleen, in un surreale lago di sangue, ai piedi di una scala… The Staircase. Durham, Nord Carolina: in una notte del dicembre 2001, il 58enne Michael Peterson chiama il 911 per riferire che sua moglie Kathleen, dopo aver bevuto e aver preso dei sonniferi, è caduta da una scalinata nella loro villa. Sta perdendo molto sangue e giace in stato di incoscienza. Muore poco dopo, tra le braccia di lui.
Al suo arrivo la polizia decide quello non essere il luogo di un tragico incidente, bensì la scena di un macabro delitto. La polizia non crede alla fatale caduta accidentale di Kathleen, accusando invece lo stesso marito di averla colpita a morte, molto probabilmente con un attizzatoio del camino, misteriosamente scomparso dalla casa.
Peterson, accusato di omicidio, acconsente da subito ad ospitare una troupe per documentare giorno per giorno l’evoluzione del suo caso. Seguito dall’avvocato della difesa Rudolf e dalla sua squadra di consulenti legali e investigativi. Al fianco di Michael ci sono il fratello Bill, che lo supporta finanziariamente per sostenere le ingenti spese legali (oltre il milione di dollari), i suoi due figli, avuti dal precedente matrimonio, e le due figlie adottive: Martha e Margareth.
The Staircase: la maledizione delle scale
Le due sorelle, sempre fermamente al suo fianco, furono adottate da Michael – che all’epoca viveva in Germania con la prima moglie – dopo la morte di Elizabeth Ratcliff, loro madre biologica e carissima amica di famiglia. La donna morì in seguito ad un’emorragia cerebrale, causata – per un improbabile e surreale gioco del destino – da una caduta dalle scale, in seguito ad un aneurisma cerebrale.
L’improbabile analogia tra le due circostanze (la caduta dalle scale), pur non presentando alcun elemento oggettivo di relazione, e nonostante sia la polizia tedesca che le autorità militari statunitensi (Michael e il defunto padre delle ragazze lavoravano lì presso una base militare americana) classificarono la morte della donna come accidentale, divenne uno degli argomenti principali per l’accusa – a tal punto da riesumarne (inutilmente) il cadavere.
Il secondo argomento forte dell’accusa riguardava la bisessualità segreta di Peterson e i suoi trascorsi rapporti extraconiugali, soprattutto con prostituti ex militari. Secondo il procuratore Jim Hardin, la scoperta delle sue propensioni omosessuali da parte di Kathleen sarebbe sfociata in un’accesa discussione, a sua volta degenerata nel brutale assassinio.
Eppure tutti i famigliari e gli amici della coppia sostengono la loro essere stata da sempre una relazione amorosa complice e felice, se non addirittura idilliaca.
Michael inoltre nega di essere stato presente alla caduta di lei dalle scale… Il che significa che la difesa non può sapere con certezza cosa le sia accaduto (ad un certo punto si arriva per assurdo ad ipotizzare l’attacco fulmineo di un rapace). Può solo formulare l’ipotesi più plausibile e dunque probabile, interpretando i segni sulla scena delle scale e principalmente le tracce ematiche. Le stesse tracce di cui l’accusa si serve per dare una lettura opposta dell’accaduto. Arrivando addirittura a manipolare ad arte prove ed indizi per confermare la bontà dell’ipotesi accusatoria.
Anni di carcere e colpi di scena
La giuria, alla fine del processo, condanna Michael per omicidio volontario. Peterson viene incarcerato a vita. Dopo 8 anni, l’agente dell’FBI Duane Deaver (incaricato all’epoca di analizzare il sangue sulla scena del crimine) viene accusato e condannato per aver manomesso decine di prove indiziarie forensi a favore dell’inconsapevole procura. L’appello per riesaminare il caso di Peterson viene accettato: Michael viene rilasciato con la condizionale, in attesa di un nuovo processo. L’inquinamento delle prove legate alle macchie di sangue ritrovate, in particolare quell’unica goccia del sangue di lei rinvenuta sui calzoni di lui, è motivo sufficiente per mettere in seria difficoltà l’accusa.
Riemerge inoltre dal nulla, come un filmico colpo di scena, il famoso attizzatoio scomparso, che per la procura era stato l’arma del delitto. Fino a quando uno dei figli non se lo ritrova, incredulo, davanti agli occhi in garage. Il rinvenimento dell’oggetto in questione da parte di tutta la famiglia Peterson e del team dell’avvocato Rudolf viene ripreso dalle telecamere. Sono tutti basiti all’idea che possa essere rimasto lì per quasi dieci anni, nonostante lo cercassero tutti, dentro e fuori la villa. Ma le ragnatele – e altri segni di incuria – stanno lì a testimoniare il contrario.
L’unica spiegazione plausibile è che sia stato già rinvenuto dalla polizia durante le prime indagini e poi volutamente occultato per così dire in bella vista, dato che non era stato evidentemente usato per uccidere Kathleen.
Michael vorrebbe un nuovo processo per essere definitivamente scagionato dall’accusa di uxoricidio. Ma la relativa indigenza economica, con la seguente impossibilità di farsi carico di nuove spese processuali, e soprattutto la sfiducia maturata nei confronti delle autorità hanno la meglio. Peterson decide di accettare un patteggiamento per Alford Plea: pur non dichiarandosi colpevole, accetta la condanna – da lui già scontata.
The Staircase e la mise en abyme autoreferenziale
Michael viene quindi immediatamente e definitivamente rilasciato in libertà. Le sorelle di Kathleen, schierate fin dal principio contro Peterson, protestano vivamente contro questo patteggiamento.
Fanno riferimento allo stesso documentario The Staircase, la cui prima parte era nel frattempo andata in onda in America, come ad un astuto escamotage usato per manipolare in suo favore l’opinione pubblica. Il racconto del documentario giunge infine ad influenzare la stessa realtà raccontata, in un’ambigua, involontaria – e anche per questo eccezionale – situazione di mise en abyme autoreferenziale.
The Staircase, oltre ad essere un magistrale precedente per i tanti documentari true-crime che oggi affollano il panorama delle piattaforme streaming (The Jinx, Making a Murderer, The Keepers, Evil Genius…), è anche l’unico del suo genere, a causa dell’eccezionale durata della sua storia. I quasi 20 anni trascorsi tra il primo e il tredicesimo episodio modificano inequivocabilmente i volti dei protagonisti di questa singolare vicenda umana. Soprattutto il volto – e l’intero corpo – di Michael Peterson, invecchiato malamente anche e soprattutto a causa di questa storia, parlano da soli. Sono segnati dal pathos e dall’ossessione per la perdita della compagna, dalla pesantezza dell’accusa del suo omicidio, dagli anni in carcere.
The Staircase, a differenza della maggior parte dei sopracitati documentari true-crime, non cerca di investigare e scoprire la verità sulla morte di Kathleen. Cerca piuttosto di fotografare il calvario esistenziale di un uomo la cui vita viene completamente ed irrimediabilmente stravolta.
Il carnevale mass-mediatico e l’inconoscibile verità
Un uomo la cui posizione sociale (bianco, famoso e benestante) mette pericolosamente contro di lui buona parte dell’opinione pubblica, in un sordido e perverso gioco di ignoranza politicamente corretta. Della serie: Michael Peterson è un privilegiato, dunque deve essere colpevole poiché privilegi ed impunità vanno sempre a braccetto.
Per tacere della prurigine sollevata dall’omosessualità nascosta dall’ex militare o dall’infausta ed idiota coincidenza tra l’incidente mortale accaduto decenni prima alla madre delle sue figlie adottive e quello di sua moglie: quelle maledette scale. The Staircase, per l’appunto.
Qui non c’è sceneggiatura o finzione che regga al confronto con una realtà che potrebbe sopperire dal punto di vista della messinscena ma non certo da quello del devastante impatto emotivo. Come ad esempio i volti segnati dal dolore di Martha e di Margareth durante la lettura della condanna del padre. Ed è incredibile il contrappunto offerto dai diversi ed imprevedibili colpi di scena (la condanna di Peterson, la corruzione dell’agente Deaver, la misteriosa ricomparsa dell’attizzatoio), perfetto nel costruire un percorso, lungo due decadi, intensamente drammatico e farsesco al contempo.
La rassegnazione filosofica di Michael, la disperazione dei figli – diventati nel frattempo a loro volta genitori -, l’odio viscerale delle sorelle di Kathleen.Tutti sentimenti potenti, costretti a coesistere, oltre che davanti alle telecamere di The Staircase, in un relativo ordinario clamore massmediatico americano. Ma soprattutto nella relatività di una verità che non sapremo mai. Una verità che di sicuro non interessa al regista francese de Lestrade che con questo titanico The Staircase si conferma essere una potenza assoluta per l’odierna forma seriale del documentario true-crime.
https://youtu.be/TftAFQflBy8
The Staircase: dalla docuserie alla fiction
Una verità che rimbalza sempre più ossessivamente, allontanandosi proprio in virtù di questo movimento, tra realtà e finzione. Non solo, come si diceva, The Staircase sembra influenzare l’opinione pubblica in favore di Michael. Quest’ultimo trova la forza di rimettersi al lavoro, scrivendo Behind the Staircase, dove racconta la sua personale versione – con anche gli anni trascorsi in carcere.
Dalla vicenda nasce poi una sitcom – Trial & Error (NBC, 2017-18) – che parodizza il documentario e i dettagli del caso giudiziario. Ancora più debordante è infine l’uscita della miniserie drammatica The Staircase – Una morte sospetta (8 episodi, HBO 2022, in Italia su Sky e NOW). Scritta e diretta da Antonio Campos (Le strade del male, Christine), protagonista Colin Firth, che vede tra i produttori esecutivi lo stesso Jean-Xavier de Lestrade.
Pur avendo incontrato il favore generale del pubblico, la fiction ha profondamente amareggiato Michael Peterson. “Ci sono enormi mistificazioni e distorsioni della verità nella serie HBO, ben al di là di quella che può essere considerata una licenza ‘artistica’…” – così si lamenta, accusando il documentarista francese di aver tradito lui e la sua famiglia. Paradossalmente anche de Lestrade si è a sua volta sentito tradito da Campos. “Dato che sapevo che Antonio aveva in mente di raccontare la storia di Michael e del documentario, ho pensato che sarebbe stato meglio collaborare ed essere coinvolto nel processo, invece di rimanerne totalmente fuori come un estraneo. In un certo senso pensavo di proteggere Michael e la sua famiglia facendomi coinvolgere, ma mi sbagliavo”.
Antonio Campos ha avuto accesso a molti materiali non utilizzati nel montaggio finale del documentario. Ciò nonostante de Lestrade, dopo aver visto la serie ha dichiarato che secondo lui non racconta come realmente si siano svolti alcuni avvenimenti…
Chi è Michael Peterson?
La questione è a dir poco intrigante: il piano della cosiddetta realtà – ovvero la storia accaduta a Michael Peterson – va nettamente distinto dal piano del documentario.
E questi due differenti piani si scontrano a loro volta con il piano della narrazione seriale – quello in cui Michael è interpretato da Colin Firth…
La serie di Campos si chiede ciò che il documentario aveva accuratamente evitato di fare: chi è Michael Peterson? Un vedovo vittima della miopia e dell’accanimento del sistema giudiziario a stelle e strisce oppure un malvagio manipolatore uxoricida senza scrupoli? Campos ridà vita e spessore alla figura di Kathleen (Toni Colette), immergendo in una nuova aura di ambiguità le scene di un matrimonio da tutti ritenuto perfetto – la perfetta complicità, il sogno di una vecchiaia da trascorrere insieme a Parigi… Ma soprattutto inscenando qualcosa che era giocoforza sfuggito allo stesso documentario: ovvero la relazione sentimentale nata tra Michael e l’addetta al montaggio di The Staircase (nella serie interpretata da Juliette Binoche).
Ecco il motivo di tanta acredine da parte dello scrittore americano nei confronti della messinscena seriale. Un cortocircuito da capogiro tra realtà e racconto, come raramente era capitato fino ad ora di assistere. Rispettando rigorosamente il principio d’indeterminazione della meccanica quantistica, ogni approccio narrativo a questi fatti finisce immancabilmente con il modificare gli stessi fatti, dando forma ad un bizzarra e vorticosa spirale – che sarebbe anche affascinante, se non fosse dolorosamente reale.
Non si tratta di essere buoni o cattivi: ognuno fa semplicemente la sua parte in questo metafisico grande girotondo: Peterson affronta con dignità il suo avverso destino, urlando a gran voce la propria innocenza. De Lestrade ci mostra il travaglio di quest’uomo, cercando per quanto possibile di non prendere posizioni pregiudiziali. Campos infine mette in scena la storia, cercando di impiegare per quanto possibile diversi punti di vista. E in uno di questi Michael ha davvero ucciso Kathleen.
The Staircase e il principio di indeterminazione
Non si tratta solo di mostrare la pericolosa fragilità del sistema giudiziario statunitense, quanto piuttosto la sua capacità di penetrare e corrompere l’esistenza degli imputati in modo patologicamente irrimediabile. Del resto chi si sentirebbe pronto a presentare ad una giuria di perfetti sconosciuti tutta la sua vita, in ogni suo aspetto, soprattutto quelli più privati e riservati, nel bene e nel male – bene e male essendo valori posti dalla stessa giuria?
Lo stesso giudice del processo che finì con la condanna per omicidio, si è in un secondo momento ricreduto rispetto alla validità processuale dei principali argomenti dell’accusa – argomenti che la difesa cercò allora vanamente di far rigettare. Il riferimento è alla morte accidentale dell’amica di famiglia sulle scale in Germania di tanti anni prima. E, soprattutto, alla bisessualità di Peterson, che creò un forte pregiudizio nei suoi riguardi.
E come se mettere in pubblico gli aspetti più ambigui della propria esistenza non bastasse, Michael accetta di farsi riprendere per il documentario in ogni occasione – dal lutto alle indagini, dal lavoro di strategia difensiva alla sentenza del processo. Perché?
Qualsiasi ipotesi è qui destinata a naufragare di fronte all’enigma dell’essere umano Michael Peterson – enigma che va ben al di là del più semplice dilemma colpevole o innocente. Enigma che riguarda piuttosto la verità – l’essenza -, e le maschere – l’apparenza -, di un individuo: di ogni individuo.
Tutto ciò che viene messo in mostra è forse inevitabilmente falsato proprio dall’essere messo in mostra? Una telecamera che riprende incessantemente una persona, per questo motivo falsa incessantemente questa persona?
Infine: può un documentario – per quanto realizzato nel più veritiero dei modi – dire la verità su una qualsiasi storia?
Finzione e realtà anche in questo documentario: I love you, now die