Bisognerebbe rivalutare il pregiudizio. Costantemente bersagliato dalle critiche dei benpensanti, un pregiudizio non è sempre il rigurgito reazionario di una mente chiusa. Può anche solo essere l’onesto meccanismo di difesa di chi, non potendo provare tutto ma proprio tutto (specie oggi, specie nell’epoca delle infinite nuove proposte ogni settimana), è costretto a scegliere a cosa dedicare il proprio tempo. Basandosi su esperienze precedenti, aspettative ragionevoli, supposizioni e scommesse. Avrei dovuto fare lo stesso con The Midnight Club.
Il pregiudizio mi diceva che questo lavoro di Mike Flanagan (pubblicato da Netflix nel 2022) mi avrebbe deluso. Eppure amo il regista – sceneggiatore americano, specie nella dimensione lunga del racconto televisivo. Amo la sua reinvenzione autoriale dell’horror, dalla doppia serie The Haunting of Hill House / The Haunting of Bly Manor all’ambiziosisisma Midnight Mass. E amo la sua amorevole ma non polverosa rilettura del “Gothic Romance”, che tocca corde molto contemporanee. Ma lo sapevo che qui mi avrebbe deluso.
Perché? Il pregiudizio aveva almeno due risposte. La fonte letteraria del nuovo show, i romanzi non proprio indimenticabili di Cristopher Pike. E la caratura tra teen e young adult, che mi preoccupava ancora di più. Ottimista oltre ogni ragionevolezza, non sono stato a sentire. E mi sono sparato in un paio di giorni le 10 puntate (lunghette) di The Midnight Club.
Ahimè, non c’è una conclusione ad effetto: il pregiudizio aveva ragione.
Cos’è e di che parla The Midnight Club
Lo show è un horror mystery-thriller con, plausibilmente, venature soprannaturali, anche se la cosa potrebbe essere discutibile. Di che parla?
Di un gruppo di otto ragazzi, tutti malati terminali, che la peculiare casa di cura Brightcliffe Home accoglie. Una grande vecchia villa affacciata sulla scogliera, davanti a un mare ventoso. Il loro destino è segnato, e la struttura offre un porto sicuro: un luogo dove vivere gli ultimi mesi della propria vita liberamente, condividendo con altri coetanei un percorso, scegliendo ciascuno a modo suo i termini con cui chiudere la propria esperienza terrena. Allo scoccare della mezzanotte, ogni giorno, si ritrovano nella biblioteca: è il Midnight Club del titolo. Ogni notte, a turno, uno di loro racconta agli altri una storia, spesso di fantasmi. E si promettono che il primo a soccombere alla malattia proverà a mettersi in contatto con gli altri dall’oltretomba. Per confermare loro se c’è qualcosa dopo.
L’ambientazione è nel pieno degli anni ‘90. Che poi sono gli anni di pubblicazione di The Midnight Club e degli altri libri di Christopher Pike a cui la serie si ispira. Ben 27, secondo quanto confermato dallo stesso Flanagan, creatore e showrunner della serie con Leah Fong. Usati in modo peculiare. Il libro The Midnight Club fa da ossatura alla serie omonima. Gli altri romanzi alimenteranno le storie notturne raccontate dai membri del club. Il che fa presagire, va detto con qualche apprensione, una vita oltre la fine della prima stagione per lo show. L’apprensione ha un motivo semplice: amiamo così tanto Flanagan che non vorremmo vederlo continuare a perdere tempo dietro a un progetto che non è certo inguardabile (ne diremo meglio dopo) ma è ben lontano dagli standard cui ci ha abituato.
L’orrore secondo Mike Flanagan
Due parole quindi bisogna dirle, specie per chi lo conosce poco o nulla, su Mike Flanagan, autore a cui abbiamo dedicato un ampio speciale. La mente dietro a un interessantissimo revival di un horror maturo e intelligente. Capace cioè di spaventare non con trucchetti dozzinali ma con le armi sottili dell’inquietudine e dell’angoscia esistenziale. Costruendo opere in cui il terrore è mentale più che effettistico, e in cui ciò che veramente fa paura non sono i mostri ma gli abissi della mente. Stephen King, Quentin Tarantino e William Friedkin sono – non per caso – tra i suoi estimatori.
L’autore americano di The Midnight Club è nato nel 1978 a Salem, in Massachusetts. Cioè la località dell’ultimo grande processo alle streghe del Nord America, nel 1692. Un fatto che ha avuto una forte influenza sui suoi interessi narrativi. Tra i suoi film ricordiamo prodotti di genere in gran parte interessanti e assai ben fatti: Absentia (2011), Oculus (2013), Ouija (2016). Il buon adattamento dal romanzo di Stephen King Il gioco di Gerald. E il temerario “sequel” di Shining, anche questo tratto da King, Doctor Sleep (2019).
Ancora più rilevanti sono però qui le sue opere per il piccolo schermo: The Haunting of Hill House (2018) e The Haunting of Bly Manor (2020), di cui abbiamo parlato congiuntamente qui. E poi la già citata Midnight Mass, con cui Flanagan ha firmato forse la sua opera più ambiziosa, quella capace di rappresentarne appieno la poetica. E di dividere il pubblico: se il plauso della critica è pressoché unanime, in rete trovate fazioni agguerritissime, tra chi ha gridato al capolavoro e chi l’ha definita una palla mostruosa.
Il Gothic Romance, Poe e The Midnight Club
Ma il filo comune che possiamo rintracciare nella produzione migliore di Flanagan è la volontà di attualizzare il Gothic Romance. Quello che mescolava, per dirla con le parole dello stesso regista, “eccitazione e mistero, orrore e rovina”.
D’altra parte, nel costruire le due fortunatissime stagioni di The Haunting Flanagan ha cercato ispirazione in alcuni testi classici. La prima, The Haunting of Hill House, deriva dal romanzo omonimo di Shirley Jackson del 1959 (in italiano L’incubo di Hill House). La seconda, The Haunting of Bly Manor, dal celebre racconto di Henry James Il giro di vite (1898). “To haunt” in inglese significare ossessionare, perseguitare, infestare. E il cuore della serie antologica è esattamente qui: nell’idea che esistano luoghi (luoghi metafisici, luoghi dell’animo, e anche luoghi fisici) che possono produrre esalazioni nefaste. Finendo per generare traumi che plasmeranno le vite di coloro che si trovano a respirarne l’aria malsana.
Per questo ha suscitato immediata eccitazione la notizia che a questi lavori si aggiungerà in un prossimo futuro The Fall of the House of Usher. Una nuova miniserie basata su diverse opere – tra cui ovviamente quello del titolo, che in italiano conosciamo come La caduta della casa degli Usher (o la rovina, in altre traduzioni) – di Edgar Allan Poe. L’autore più celebre e influente a cavallo tra mistero, angoscia, orrore.
E forse per questo The Midnight Club non poteva che deludere. Diciamolo: Pike non è Poe, o Henry James, e neppure Shirley Jackson. E così, con una materia narrativa inevitabilmente meno profonda, l’abilità di Flanagan nell’utilizzare i generi e ricorrere a stilemi anche retrò per raccontare storie capaci di parlarci di noi, del nostro mondo, delle nostre inquietudini e ossessioni, finisce per girare a vuoto.
Il teen, l’horror, la commistione di generi
La premessa narrativa di The Midnight Club è in realtà davvero interessante: un gruppo di giovanissimi morituri che inventa storie. Non per ingannare la morte ma per scendere a patti con la crudeltà della vita.
La confezione, come sempre con Flanagan e soci, è ottima. Anche se le 10 puntate (che vedono diversi nomi alternarsi alla regia) tendono a dilungarsi. E la commistione di diversi generi, dall’horror al fantastico alla detective story alla fantascienza, con i differenti stili che gli autori utilizzano per caratterizzare ciascuna delle storie narrate dai protagonisti, a volte rischia il kitsch (per esempio il noir nell’episodio 4). Ma il cast corale rende sempre piuttosto sincera la messa in scena, a partire dal terzetto dei tre ottimi attori principali: Iman Benson (Ilonka, la protagonista affetta da cancro alla tiroide che indaga sull’origine del misterioso luogo di cura); Igby Rigney (Kevin, affetto da leucemia, che intreccia con Ilonka una profonda condivisione); Ruth Codd (la rabbiosa, minuta, potente figura di Anya, compagna di stanza di Ilonka).
Pure tra gli adulti non ci si può lamentare. A parte alcune presenze ricorrenti come attori nelle precedenti opere tv di Flanagan (Samantha Sloyan, Zach Gilford, Rahul Kohli, Henry Thomas), occupa prepotentemente lo spazio la dottoressa Stanton interpretata da Heather Langenkamp. Cioè Nancy Thompson, l’eroina, se così si può dire, di diversi Nightmare: dal primo A Nightmare on Elm Street (1984) al terzo (Dream Warriors, 1987), fino al complesso e metacinematografico Wes Craven’s New Nightmare (1994). A ricordarci in modo plastico la connessione profonda che il cinema degli ultimi 40 anni ha istituito tra l’horror e l’adolescenza.
E quindi? Perché ci lamentiamo?
The Midnight Club e la profondità che manca
Perché per tutta la drammaticità della sua premessa, e la cura della sua messa in scena, The Midnight Club manca di una cosa: profondità. Non un’assenza banale. Specie per un autore come Flanagan, che usa le atmosfere orrorifiche per fare un discorso altro. E ben più alto. Sulla facilità di perdersi, tra sensi di colpa, angosce, traumi. Di finire a pezzi. O affondare nelle sabbie mobili della mente.
E il sospetto, puntata dopo puntata, prende forma. Il problema è, paradossalmente, proprio l’età dei protagonisti. Sono ragazzi, e negli anni ‘90, quando Internet è solo un promettente strumento. Hanno vissuto così poco. Conoscono così poco del mondo. Certo, sono pieni di speranza, di desiderio di vivere, di curiosità, di amore. E la morte che incombe su di loro è un dramma straziante, e un’ingiustizia inaccettabile.
Ma, allo stesso tempo, quest’ombra non ha gli attributi della tragedia. Neppure come possibilità. Perché non ne ha la dimensione temporale articolata (sono troppo giovani), non ne ha la complessità di significati (hanno troppo poca conoscenza del mondo), non ne ha l’irresistibile e doloroso statuto di necessità: la loro malattia è terribile e disumana, ma non è tragica. Non fraintendetemi: intendo in senso letterario, drammaturgico. Ed ecco che il pregiudizio di cui dicevo all’inizio si rivela compiutamente. Quanto adulto può essere davvero un dramma young adult? Quanto pienamente maturo, senza scadere nella parodia?
Così, i momenti migliori sono quelli in cui il quotidiano dei protagonisti teen viene compiutamente trasceso, e il racconto si fa ossessivo, paranoico, disturbante. Il lungo sogno di Anya della puntata 7. Il racconto di un suicidio mancato nell’episodio 8.
Sono anche i momenti in cui riconosciamo, finalmente, la mano di Mike Flanagan. Bellissimi, ma insufficienti. Anche, evidentemente, a far proseguire il progetto: The Midnight Club è stata cancellata dopo una sola stagione.
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