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The Last Dance, la lunga ombra di Michael Jordan | Documentari
The Last Dance, podcast | Puntata a cura di Untimoteo.
Il documentario (visibile su Netflix) del 2021 in 10 puntate The Last Dance, di cui Michael Jordan è anche produttore, rappresenta un’occasione imperdibile per gli appassionati di sport ma anche una testimonianza fedele della venerazione che la superstar riceve in ogni angolo del globo.
Una figura enorme e ingombrante al punto da cannibalizzare compagni di squadra e avversari. Definito il più grande cestista di tutti i tempi, è stato per il basket e per lo sport in generale una benedizione ma anche, forse, una pietra di paragone che oscura i suoi colleghi del tempo, i grandi giocatori del passato e quelli venuti dopo di lui.
M.J. è la prima grande star del marketing e del merchandise sportivo, un’icona commerciale globale che trascende l’uomo per diventare quasi una divinità.
“Documentari” è il format del podcast di Mondoserie dedicato all’approfondimento delle produzioni non di fiction.
6 titoli in 8 anni, i numeri di un mostro
Il documentario corre sul doppio filo dell’ultima stagione di vittorie dei Chicago Bulls, nel 1998. Ogni puntata parte dalle tappe di quell’ultima drammatica e gloriosa cavalcata alla conquista del titolo, per tuffarsi poi a ritroso nei momenti più significativi della carriera del giocatore. Gli anni dell’università del North Carolina, l’arrivo nei Bulls nel 1984 e gli esordi nella massima serie con la definizione di star predestinata. La trasformazione di una squadra indisciplinata in una vera e propria macchina da vittorie. Il rapporto con gli allenatori, Phil Jackson su tutti. L’arrivo di altre stelle nella squadra, come Scottie Pippen, Toni Kukoc e Dennis Rodman. Il dream team delle olimpiadi di Barcellona, le rivalità con gli altri grandi dell’epoca e i ritiri.
Ogni puntata è concepita magistralmente, con un giusto mix tra filmati di repertorio e interviste ai giocatori oggi. Il montaggio delle partite ha il non banale pregio di tenere lo spettatore con il fiato sospeso per una partita giocata quasi trent’anni fa.
Non mancano i momenti oscuri, gli attimi in cui l’eroe cade dal piedistallo, per poi risorgere e trionfare nuovamente. Indiscutibilmente questa epopea durata 14 anni letteralmente incolla al divano lo spettatore. In 19 anni da professionista, compresi due ritiri, Jordan ha giocato più di mille partite. Per 10 volte miglior marcatore, di cui 7 consecutive, 6 titoli NBA. Un record di media punti tuttora imbattuto. Un patrimonio stimato in 3,2 miliardi di dollari.
Icona pop più commerciale che culturale
Il noto “Be Like Mike” e gli spot con Spike Lee hanno avuto un impatto sull’immaginario popolare ma si tratta pur sempre di pubblicità il cui fine era vendere una bibita e un paio di scarpe.Quindi non c’è da stupirsi se Air non ha mai preso parte alla causa politica degli afroamericani. Inutile contestarlo per quella frase tanto odiata (“anche i repubblicani comprano le sneakers”). Jordan è stato fatto passare per una icona culturale, ma è stato prima di tutto un’icona commerciale.
Esiste un mondo dello sport prima e dopo M.J. perché senza di lui Usain Bolt, Tiger Woods ma anche Roger Federer, Cristiano Ronaldo o Lionel Messi non sarebbero stati lo stesso fenomeno commerciale e mediatico. Il legame che unisce il Michael Jordan uomo con il proprio brand è talmente forte e d’impatto che un intero film Air, invero anche pregevole, è stato dedicato al famoso accordo tra il giocatore e la Nike.
Jordan ha costruito il proprio successo con abnegazione e una forza di carattere sconosciuto al 99% del resto della popolazione di questo pianeta. In un periodo in cui i media iniziavano a trasformare gli eventi sportivi in un business legato all’intrattenimento, e il mondo della moda e della pubblicità in generale avevano bisogno di un modello accessibile per la cultura urbana.
Ascolta anche il podcast sulla storica squadra della Davis anni ’70
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