The Irishman (2019): la storia del veterano Frank Sheeran, passato dai crimini di guerra in Italia nella seconda guerra mondiale ad essere un sicario della mafia americana, è – tanta – storia degli Stati Uniti. Dalle elezioni presidenziali alle vicende del sindacato dell’allora onnipotente Jimmy Hoffa, suo amico personale.
Due anni fa il film di Martin Scorsese si prospettava come un’opera epocale, mastodontica sin dalle sue dimensioni. 209 minuti di durata, diviso in due episodi, poteva tranquillamente divenire una miniserie di tre, quattro, cinque episodi. Con la produzione Netflix, come vedremo, a consolidare l’aura seriale.
E la grande attesa per l’all star cast. Bob De Niro, Al Pacino, Joe Pesci (che per De Niro esce dal «pensionamento», come aveva già fatto per The Good Shepherd) e perfino un’altra vecchia gloria scorsesiana: l’immarcescibile Harvey Keitel.
Come era possibile rimanere inani davanti all’uscita di The Irishman?
Un appassionato di film di Scorsese (pochi non alzeranno la mano) sentiva che questo poteva essere il suo capolavoro finale, il suo testamento, con gli attori geniali della sua vita – più Pacino.
Le grandi aspettative su The Irishman
Un appassionato di cinema americano che non abbia un danno cerebrale che gli ha rimosso gi anni Settanta-Ottanta-Novanta non può non emozionarsi all’idea di un ensemble come questo.
Un appassionato di arte della recitazione, non può non essere rapito dalla possibilità di vedere cosa si può inventare De Niro, quali livelli di caricatura cruenta si permetterà Pesci, e poi come Al Pacino ricostruirà il suo Hoffa.
Infine, un appassionato di Storia non può ignorare una pellicola che promette rivelazioni definitive su misteri che ancora attanagliano l’America: la morte di Hoffa, la morte del mafioso Joseph Colombo, e fors’anche la morte del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Aggiungiamo la curiosità che legittimamente l’appassionato di effetti speciali può avere nei confronti della componente più ambiziosa di The Irishman: il de-aging, ossia la possibilità di cambiare – digitalmente, realisticamente – l’età degli attori.
Il budget fu dapprima racimolato da messicani: ben 100 milioni. Poi, dopo anni di Development Hell (come chiamano a Hollywood lo stadio in cui il progetto non esce dalla carta) Netflix comprò i diritti per 105 milioni. Il costo dell’opera, si dice, lievitò ad una cifra che sta tra 159 e 250 milioni di dollari.
Il motivo principale è l’aspetto cinematico più innovativo dell’opera, il de-aging degli attori: il cast viene ringiovanito, e invecchiato per coprire decadi di storia della mafia e dell’America.
The Irishman e l’eterna giovinezza digitale
La sfida tecnologica, nella quale si erano impegnati i ragazzi della Industrial Light and Magic (ILM), è, in definitiva, persa. Perché la tecnologia ha corso più veloce della produzione del film, rendendo le decine, forse il centinaio, di milioni in effetti speciali danaro completamente sprecato.
Sicuramente, la tecnica realizzata da ILM (lo studio di effetti speciali fondato da George Lucas: prende ogni anno solo film, e pochissimi) ha una resa realistica. I critici hanno però notato che non c’è accordo tra i volti ringiovaniti e i corpi degli attori, che hanno ancora le spalle e la corporatura degli anziani che sono (De Niro ha oggi 78 anni; Pacino 81).
Al contempo, in alcune scene il volto digitalizzato, per quanto credibile, ha come un’età indefinita, che non si accorda bene con la situazione. Le immagini di De Niro giovane non assomigliano alla faccia trucida e sbarazzina vista in Taxi Driver, Novecento, Mean Streets, etc. Bisogna pensare che per questa scommessa avevano perfino rigirato una scena di Quei bravi ragazzi nel 2015 (cioè,a 25 anni dall’uscita del capolavoro di Scorsese) e testato la tecnologia sulla figura di De Niro.
A vanificare tutto è arrivata, quando The Irishman era già in produzione, l’Intelligenza Artificiale. O meglio, gli smanettoni universitari che se ne occupano. A fine 2017 cominciano uscire paper accademici sui GAN, Generative adversarial network («Reti generativi avversaria»).
In pratica, l’informatica issa un’ulteriore bandiera sulla contrazione del reale a favore del virtuale: con il machine learning dei GAN, due algoritmi combattono l’un l’altro aumentando la loro capacità di apprendimento. Prima conseguenza concreta: i computer possono generare volti di persone che non esistono. Seconda applicazione: l’Intelligenza artificiale può applicare la faccia di chiunque su qualsiasi corpo.
I pazzeschi esperimenti del Deep Fake
Nel libro Mattatoio numero 5, Kurt Vonnegut sostiene che a poche settimane dall’invenzione della fotografia fu trovato un parente di Daguerre (l’inventore della tecnica) che al parco vendeva di nascosto immagini molto, molto oscene. Sappiamo anche quali immagini cominciarono a circolare quando inventarono il JPEG. O che video iniziarono a girare appena arrivarono le telecamere a infrarossi (ask Paris Hilton).
Ecco quindi che i GAN appaiono immediatamente nei pornazzi: volti di attrici famose vengono compositati, con un realismo sconvolgente, su corpi di promiscue fanciullone riprese mentre si accoppiano. Viene coniato un termine, Deep Fake. Ci si mettono a smanettare orde di nerd. I risultati sono pazzeschi.
Fanno dire a Tom Cruise quello che vogliono.
Rendono alle imitazioni di Bill Hader una sorta di realismo facciale metamorfico mai visto prima, come abbiamo raccontato anche qui a proposito della sua serie Barry.
In generale, le imitazioni con il Deep Fake vengono potenziate in modo impressionante.
I ragazzi si divertono. Stallone interpreta Mamma ho perso l’aereo. Donald Trump è il protagonista di un improbabile Better Call Trump.
Rete vs. Hollywood, e la scommessa perduta di The Irishman
Poi arriva la parte più interessante, e seria: l’attacco diretto ad Hollywood e ai suoi film.
Per esempio, il finale di Star Wars Rogue One (peraltro, uno dei film della serie più riusciti), dove sempre quelli di ILM avevano ricreato digitalmente, con una fatica improba, la principessa Leia giovane.
Arriva un ragazzo, tale Shamook, che dalla sua cameretta fa lo stesso lavoro in un pomeriggio. Il suo risultato è molto migliore di quello costato milionate di dollari e menti eccelse degli effetti digitali.
Era inevitabile, quindi, che se la prendessero con The Irishman. Il confronto è impietoso.
La sfida di De Niro e Scorsese è perduta. I soldi, buttati nel cesso – cioè, dati alla Disney, che comprandosi nel 2012 tutto l’impero Lucas ora è padrona anche di ILM.
Tuttavia, qualcosa è guadagnato. ILM quest’anno assume il giovane YouTuber Shamook, che aveva umiliato ulteriormente tutti aggiustando il Luke Skywalker de-aged nel finale della seconda stagione di The Mandalorian.
Appuntamento con la Storia
In realtà, c’è anche una sfida vinta – è quella con la storia. L’idea di realizzare un affresco panottico, diacronico, dettagliato e al contempo elegiaco, è vinta.
Dietro al film si sente, più che la mano di Scorsese, quella di De Niro. Le cronache raccontano che sia stato proprio Bob a portare a Scorsese l’idea di fare un film sulle memorie di Frank Sheeran, pubblicate con il titolo I heard you paint houses, «Ho sentito che dai il colore alle case» – un’espressione del gergo mafioso (nei Sopranos dicono «Interior decorator») per definire l’opera di un sicario.
Il racconto riguarda il microcosmo della mafia italoamericana nel macrocosmo della storia americana tout court. Niente è come sembra nella storia così come la conosciamo: Hoffa era mafiosissimo, e rissoso, e odiava i Kennedy. I Kennedy erano supportati dalla mafia, che ha fatto uccidere JFK. Gli americani hanno commesso crimini di guerra contro i tedeschi in Italia.
La storia esperita attraverso la pelle del protagonista è però separata dal suo nucleo, cioè le decisioni di mafiosi e altri personaggi potenti oscuri. Esso rimane inconoscibile, intelligibile solo per qualche allusione, o per illazione. Il cuore degli eventi rimane opaco, e quello che si può fare, al massimo, è «pitturare case».
Chi riconosce la grande arte di Robert De Niro non può non sentire la sua mano, e non parliamo del suo lavoro attorale. Robert De Niro è incontrovertibilmente un grande regista, un grande cineasta, un uomo innamorato della storia e del suo messaggio profondo.
Il coraggio di De Niro anche dietro a The Irishman
Dopo A Bronx Tale, un classico che è una disamina storico-antropologica della sua città, De Niro ha diretto un film che per gli storiografi ha un’importanza capitale, The Good Shepherd. In esso – un kolossal che dura quasi tre ore – è raccontata la storia d’America attraversando un altro tema scottante, la CIA.
Con coraggio intellettuale disarmante, nel film De Niro proponeva una teoria, certamente non accettata e tabù per vari motivi, che la CIA derivasse da una confraternita studentesca della Ivy League – nella realtà, la Skull and Bones di Yale, da cui provengono un certo numero di presidenti e candidati presidenti USA. L’origine della CIA è quindi iniziatica, e, come sottolinea Angelina Jolie nel film, essa costituisce una sorta di ordine cavalleresco, una setta (come potrebbe emergere dalle rivelazioni del controverso libro dell’ex agente Victor Marchetti CIA. Culto e mistica del servizio segreto) a cui i membri giurano una fedeltà superiore a quella che hanno per la nazione.
The Good Shepherd forniva questa e altre verità storiograficamente radicali, come il coinvolgimento della mafia (nella realtà Sam Giancana, con cui Jack Kennedy aveva un’amante in comune, e che nel film era interpretato da Joe Pesci) nel tentato assassinio di Fidel Castro. Oppure, l’uso di droghe psichedeliche nella guerra delle spie – qualcosa di cui abbiamo parlato vagamente qui quando abbiamo scritto della serie di Errol Morris Wormwood.
È impossibile, per chi conosce il peso di queste idee storiche, non ammirare il De Niro intellettuale – prima che il De Niro attore.
Chi può avere la possibilità di fare una cavalcata da centinaia di milioni di dollari sul lato oscuro della storia USA?
Che coraggio ci vuole?
Oceano Pesci
Questo articolo non può tacere del più importante effetto speciale per cui si vuole pagare il biglietto: la performance degli attori principali di The Irishman. Che non solo sono tutti materia da Oscar, ma sono i mostri sacri sulla cui carriera si è modellata l’intera popolazione degli attori degli ultimi cinquanta e passa anni.
De Niro, diciamo, non eccelle. Non si inventa nulla di speciale. Il personaggio è estremamente credibile: uomo di seconda fila, calmo e tranquillo, ma assassino efferato quando si tratta di portare a termine ordini di morte. La via della psicopatologia – Frank Sheeran come serial killer incapace di provare rimorso – non viene intrapresa.
Diverso il caso di Al Pacino, che con la consueta complessità costruisce un Jimmy Hoffa sorprendente. È spavaldo, è privo di tatto, è, in varie situazioni, quasi assente. È un mostro che va avanti con un’inerzia infinita, ma non è, nonostante la tanta fama e il tanto potere, il mostro determinante del sistema. Una recitazione ostinata, geometrica. Un personaggio che sembra fatto della sostanza sbagliata: si ha la certezza che la sua durezza ad un certo punto lo spaccherà in mille pezzi, e la volontà di proteggerlo è forse il conflitto vero di Sheeran- De Niro, un conflitto che lo sgradevole, autistico Hoffa-Pacino non riesce a percepire.
Il vero trionfatore è però – sorpresa per chi voleva il rematch di Heat per avere un vincitore – Joe Pesci. Un’interpretazione straordinaria, completamente spiazzante: il suo personaggio, il boss Russell Bufalino, è in totale controtendenza con tutti i personaggi da lui interpretati nella grande epopea italoamericana di Scorsese (da Toro Scatenato a Quei bravi ragazzi a Casino). È spietato, ma non c’è boria nei suoi atti: c’è anzi una bonomia sincera, un sentimento di vera amicizia verso il protagonista. Il bisogno – qui soddisfatto – di proteggerlo da un mondo tremendo, e tenerselo stretto come una persona a cui si vuole bene. La sua dolcezza, nell’ultima scena fatta di carezze di vecchio e pane col vino, è un oceano di emozione e di senso.
The Irishman non è un’opera perfetta, e la sua visione non è semplicissima. Tuttavia non si può pensare di amare Scorsese, De Niro, Pacino, Pesci e non averla ancora vista.
C’è qualcuno che non ama almeno uno fra Scorsese, De Niro, Pacino, Pesci?
Qualcuno ha il coraggio di alzare la mano?
Giudizio: epocale, denso. Non riuscitissimo, ma inevitabile per chiunque ami l’arte cinematografica o il lato oscuro della storia americana.
Potrebbe interessarti anche il nostro Speciale su I Soprano: