Lanciata fatalmente qualche mese prima del movimento #metoo, la serie americana The Handmaid’s Tale resta senz’altro uno dei prodotti televisivi più significativi degli ultimi anni. La quarta stagione, andata in onda quest’anno, non sarà l’ultima: in Italia le 46 puntate fin qui prodotte sono disponibili su Tim Vision (su Prime Video ci sono invece solo le prime due stagioni).
La prima stagione, che sbancò gli Emmy nel 2017 (un risultato opposto rispetto alla debacle degli Emmy 2021, raccontata qui) sbalordendo il mondo intero per la sua meravigliosa crudeltà, è il riadattamento fedele dell’omonimo romanzo di Margaret Atwood pubblicato nel 1985.
L’uscita di questa serie ha fatto poi eco all’era Trump, scatenando accese polemiche in America dove moltissime donne hanno cominciato a citare Il racconto dell’Ancella come esempio di un futuro terribile e possibile.
Qui cercheremo di capire i motivi di tanto successo iniziale, cosa su cui abbiamo riflettuto anche in questa puntata del nostro podcast. E come l’evolversi delle stagioni abbia invece indebolito uno dei simboli letterari e televisivi della rivolta femminista, trasformandosi in un loop vicino al torture-porn.
Qui sotto, il teaser originale italiano. Qui al link invece il trailer completo della prima stagione:
Di cosa parla The Handmaid’s Tale
The Handmaid’s Tale è una distopia dove si immagina un’America caduta nelle mani di un movimento religioso estremista che l’ha ridotta ad un’oppressiva Teocrazia.
Gilead (il nuovo nome degli ex Stati Uniti) è una repubblica governata da soli uomini (i Comandanti) che ha come unica guida la -presunta- parola di Dio. Un Dio feroce, fatto di passi scelti dall’antico testamento, rimanipolati secondo le necessità del governo.
E queste necessità sono la guerra e la ripopolazione. La terra, che negli ultimi anni è stata inquinata a tal punto da rendere quasi tutte le donne sterili, deve ritornare alle sue origini.
In Gilead non c’è posto per la plastica, il divertimento, i bar, i ristoranti, i negozi alla moda e quasi tutto ciò che il mondo occidentale conosce.
Pochissimi punti di commercio offrono solo prodotti senza marca. Tutto è spogliato di qualsiasi identità, dalle scatole di pelati alle persone.
Le donne sono ridotte in categorie: le mogli (vestite di blu); le “Martha”, ovvero le domestiche (di verde); le ancelle, le uniche femmine fertili destinate alla riproduzione (vestite di rosso). E poi ci sono le zie, vestite di marrone, che si occupano dell’educazione e della disciplina delle ancelle.
Una prima stagione che funziona a meraviglia
E tra le ancelle scarlatte, troviamo la nostra protagonista, June Osborn (Elizabeth Moss), alias Offred (ogni ancella prende il nome dal suo Comandante) che si trova praticamente ‘rinchiusa’ nella casa del Comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes) e di sua moglie Serena (Yvonne Strahovski). Dai quali viene ciclicamente violentata – la moglie la tiene per le braccia mentre il marito la stupra – in una pratica che si chiama “la cerimonia”, nella speranza che l’ancella rimanga gravida e possa dare loro un figlio.
Il tutto alla luce del sole e secondo la legge di Gilead, che, aggrappandosi e distorcendo un passo della Bibbia, ammette lo stupro programmato delle poche donne ancora capaci di procreare.
La prima stagione, quasi del tutto fedele al romanzo The Handmaid’s Tale, funziona a meraviglia. June vive in un mondo dove non ha voce. Sono i suoi pensieri a guidarci tra i bancali semivuoti del supermercato, i minacciosi corridoi della casa, l’ufficio del Comandante, il salotto dove viene costantemente umiliata.
E’ quindi la “voice over” di Elizabeth Moss a raccontarci Gilead, dal suo ristrettissimo punto di vista, quello di una donna segregata al ruolo di schiava sessuale che non ha più alcun diritto.
Ed è per questo che The Handmaid’s Tale ci fa così paura. Siamo dentro ai suoi pensieri, imprigionati come lei nella sua testa.
Le (ancora buone) stagioni 2 e 3 di The Handmaid’s Tale
Ma se questo funziona benissimo per un testo scritto, non può durare a lungo in una trasposizione cinematografica. Dopo le prime puntate audaci e soffocanti, dove June subisce il mondo che la circonda, contrariamente al libro, lei comincia a ribellarsi apertamente.
Si rompe così la magica angoscia del punto di vista della sottomissione ed inizia un lungo capitolo sulla ribellione.
Abbiamo quindi una seconda e terza stagione dove June, assieme ad un manipolo di altre ancelle, tenta di sollevarsi dalla schiavitù del regime. Entriamo in un loop di torture, evasioni, morti, catture, e poi di nuovo torture, fughe, uccisioni senza sosta.
Il libro di Margaret Atwood ha una violenza insita e potentissima, senza alcun bisogno di lunghe descrizioni di torture o pene capitali.
E la serie ha tenuto fino a dove il libro aveva indicato il cammino.
Poi ha dovuto arrangiarsi insistendo su ciò che attira sempre: la violenza perpetrata su un eroe invincibile e i suoi degni compagni, banalizzando il senso stesso della Teocrazia così abilmente descritta all’inizio.
Eppure la seconda e terza stagione di The Handmaid’s Tale ancora reggono bene. Gilead diventa sempre più estetica e terrificante. Si esce da Boston e si va a Washington, aprendo un po’ la visione di questo mondo. I lunghi ed estenuanti tempi narrativi ben si accordano al minaccioso Regime e alle fughe della nostra eroina
Ma tutto perde mano a mano di raffinatezza.
La quarta stagione (SPOILER): calvario di June, e nostro
La solidarietà femminile diventa scontata, i cattivi sempre più cliché e i buoni invincibili.
Per ben due volte June ha la possibilità di fuggire da Gilead ma decide di restarvi (the show must go on).
L’agognato Canada, il luogo oltre i confini di Gilead che tutti cercano di raggiungere e dove nel corso delle stagioni sono approdati metà degli amici e parenti di June, tra cui una delle figlie, è stato tenuto chiaramente in serbo per la quarta stagione.
E nella quarta stagione di The Handmaid’s Tale il calvario di June (e degli spettatori) sembra davvero non aver fine. Per riempire interminabili sequenze fatte di dialoghi sempre più scialbi, si accentuano le torture, le minacce, le riapparizioni di zie oramai pensionate ma pronte ad infliggere i più terribili tormenti.
June, al pari di Gilgamesh, continua a sconfiggere da sola interi battaglioni di nemici fino ad imbarcarsi (finalmente!) verso il Canada.
Lì assisteremo al suo problematico ricongiungimento con la famiglia e “le altre fuggitive” che per riprendersi dai traumi subiti hanno deciso di fondare dei gruppi di ascolto (Ancelle Anonime?)
Colmo dei colmi, Serena Waterford, l’infertile e crudelissima aguzzina di June, rimane incinta di suo marito, sterile anche lui dall’inizio della serie. Entrambi sono prigionieri in Canada e si apprestano a diventare genitori.
The Handmaid’s Tale e la tentazione di durare per sempre
Pause al limite dell’impossibile, primi piani con sguardi sofferenti perpetrati all’infinito sfiniscono un pubblico che segue comunque con pazienza e fedeltà. E’ pur sempre The Handmaid’s Tale!
Per ora non ci sono state resurrezioni – ma potremmo aspettarcele nella quinta stagione.
Visto che solo un miracolo può salvare dalla rovina quella che era stata una delle serie più promettenti degli ultimi anni.
Ma che non ha saputo resistere alla tentazione di andare oltre la sua stessa naturale durata.
Ascolta la puntata del podcast: The Handmaid’s Tale: perché ci fa così tanta paura
The Handmaid’s Tale: perché ci fa così tanta paura | PODCAST