“Quel che dice l’Amen, il principio della creazione di Dio: io conosco le tue opere, tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né caldo né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.
Così, soggiogati dalla verve con cui in The Good Lord Bird si citano versetti della Bibbia (pescandoli come da cartucciere nella mente e rifunzionalizzandoli a seconda del frangente per meglio scontornare nella sua nequizia l’avversario con la forza propulsiva della Parola di Dio, per poi, talvolta, spacciarlo con più concrete pallottole), eccone uno, temibilissimo, tratto dall’Apocalisse di Giovanni.
L’appassionato abolizionista e lo schiavo scambiato per ragazza
Certo tiepido non fu John Brown (che “giace nella tomba là nel pian … ma l’anima vive ancor”, così il canto da decenni si eleva paciosamente schitarrante attorno ai falò di mezza estate). Una figura storica, un abolizionista militante che, con parole e opere (e bando alle omissioni!), contribuì ad appiccare la miccia che deflagrò, due anni dopo la sua condanna a morte per assassinio e incitamento alla rivolta, nella guerra di secessione americana. Un rogo poderoso le cui scintille disperse per tutta la nazione ancora oggi turbinano a terra roventi.
Non è John Brown il protagonista nella miniserie The Good Lord Bird (produzione Showtime, in 7 episodi, recuperabile su Now e Sky, interpretata e creata da Ethan Hawke con Mark Richard). Lo è, protagonista e voce narrante, Henry Shackleford, un ragazzino schiavo che, dopo la morte accidentale del padre, viene accolto nella banda con cui l’attivista briga nel profondo Sud, aizzando gli schiavi e accoppando chi ne è detentore. Un gruppo sparuto e scalcinato del quale fanno parte i suoi giovani figli, che lui vedrà quasi tutti morire, un indiano volitivo e, in un indeterminato aggirarsi, altri pistoleri che smammano al momento dell’azione vera.
L’elemento disorientante della faccenda è che, per un equivoco sul nome (Brown ha sentito “Henrietta” e da lì non s’è smosso), Henry viene scambiato per una femmina, gli vengono date vesti acconce e vezzeggiato col nome di Little Onions: nella versione doppiata in italiano uomini fatti si rivolgono a Henry col nome di “Cipollina”. Il tocco da commedia demenziale è che solo i bianchi imperterriti la prendono per una ragazzina laddove i neri compari nella disgrazia deridono Henry per la sua situazione ma gli consigliano di accettarla perché, a prescindere da con chi hai a che fare, non conviene contraddirli mai, i bianchi.
Di cosa parla The Good Lord Bird?
Henry/Henrietta/Cipollina tenta invero di ribellarsi al fraintendimento ma riesce anche ad apprezzarne gli aspetti positivi, l’alleggerimento delle incombenze e la confidenziale premura con cui viene avvicinato dai maschi della combriccola selvaggia. Più impegnativo sotto le mentite spoglie sarà invece, per un adolescente cogli ormoni allo sbando, relazionarsi nell’intimità con Annie, l’estroversa figlia di Brown.
Quest’ultimo non solo addotta Henry ma lo considera il suo portafortuna. Se lo porta sempre appresso, lo subissa di Sacre Scritture, lo indottrina con proclami drastici e lo aggiorna sulle sue intenzioni bellicose. La voce fuori campo del ragazzo riflette una presa di coscienza in progressiva affermazione.
In principio, rendendosi conto della suicida velleità con cui il vecchio vuole opporre all’esercito confederato la sua ghenga male in arnese, Henry (sempre in vesti muliebri) scappa.
Un intero episodio fa a meno di John Brown e segue il ragazzino in una cittadina del Missouri dove farà suo malgrado da perno di un’insurrezione armata di un gruppo di schiavi, e lì fronteggerà del suo popolo in catene i caratteri inversi di chi punta ad una liberazione solo individuale grazie al mercimonio e al tradimento, e di chi aspira ad un meno meschino riscatto attraverso un gesto di rivolta ahimé precoce che conduce ad un martirio in totale consapevolezza.
Una ballata picaresca, tra storia e pulp
Ma la narrazione non si attarda con la recriminazione o con l’apologia, e via a voltar pagina di una vicenda che scorrazza per gli Stati Uniti in lungo e in largo col piglio della ballata picaresca, l’approccio quello storico speziato con pizzichi di sregolatezza pulp.
Già la sigla animata ci accoglie coi disegni stilizzati, l’anacronistica musica bluegrass e un font dei titoli simile a quello di Django Unchained: ma (sia ringraziato l’Amen!) qua non ci si gingilla a taroccare uno stile che, non tenuto per le redini dal controllo formale di Tarantino, rischia di incoattirsi nell’indigesta superfetazione guyritchiesca. Si mantiene franca l’affabulazione e, per merito del fu lynchiano Peter Deming, direttore della fotografia unico per tutta la miniserie (a differenza dei registi sempre diversi), la resa visiva ammalia ma non distrae. E il montaggio incalza ma non stressa.
John Brown si ripiglia Cipollina e con lei va a New York presso la casa dell’oratore afroamericano Frederick Douglass, sperando in un supporto ideologico ed operativo, ma sarà proprio l’amico ad ergere gli argini della cautela, da futuro politico e diplomatico, a deviare da sé gli scomposti propositi dell’uomo d’arme.
The Good Lord Bird, fratello scanzonato di The Underground Railroad
Durante l’attività di reclutamento si susseguono conciliaboli proficui o disgraziati, fino al giorno del raid in una fornita armeria della Virginia. Un piano che John Brown considerava senza falli. Ovviamente quel che deve andare storto ci va, chi doveva arrivare di rinforzo non arriva, e in quel piccolo spazio, mentre l’esercito tutto intorno si raduna e già punta i fucili, si inscena l’ultimo atto, con il vecchio agitato da residua speranza con resa definitiva al rimpianto, figli e sodali pronti a sostenerlo e ad anticiparlo nella morte, e il pubblico formato dagli ostaggi bianchi ad assistere a questa tragedia delle cause perse, e qualcuno di loro persino a comprenderne la morale, perché, come suggerisce uno dei seguaci neri di Brown, il fine più alto della loro lotta non è l’affrancamento dei neri ma la redenzione degli schiavisti bianchi dal protratto stato di peccato mortale.
The Good Lord Bird sembra il fratello scapestrato della miniserie The Underground Railroad (di cui abbiamo parlato qui), sono opposti nei toni, l’una in gran parte scanzonata l’altra poema tutto dolente, ma affini nel tema del razzismo e nel periodo storico. Nel primo si fa riferimento alla “ferrovia sotterranea”, anzi, nella casa di Frederick Douglass, dietro una porta ci sono ripidi scalini che scendono verso l’oscurità dove si allunga il tragitto di cui gli schiavi clandestinamente si servono per raggiungere il Canada emancipato, e che l’autore del romanzo da cui Barry Jenkins ha tratto il suo capolavoro ha immaginato fosse percorso da un vero treno.
Ma l’elemento che accomuna le due opere nell’intento di spianare le distanze temporali è lo sfilare in sequenza dei volti dei personaggi afroamericani che immobili ci fissano dallo schermo, i vivi e i morti, e tocca a ciascuno degli spettatori leggere dentro ai loro occhi quale moto interiore li rende, nonostante i volti non tradiscano sentimenti, così perforanti.
Un infervorato Ethan Hawke negli stilemi del Southern Gothic
Ethan Hawke interpreta John Brown, e cavalca il progetto col fervore di chi non solo vi recita una parte ma di chi l’ha in parte scritto e finanziato. Tra l’altro Annie Brown è interpretata dalla sua vera figlia Maya, nata dalle propizie gonadi sue e di Uma Thurman (e chissà che non la si riveda un giorno in Kill Bill vol. 3 come figlia ormai grande di Beatrix Kiddo).
Hawke interpreta un personaggio spesso presente nella letteratura gotica, e in particolare nel cosiddetto Southern Gothic novecentesco, da Flannery O’Connor a Cormac McCarthy, con gesù cristo sempre in bocca e la gestualità da invasato, un carattere che gli fa scalare diverse tacche del gigioneggiometro fino a sfiorare il rosso, ma è intenso nell’esprimere anche sentimenti meno plateali come lo sconforto e la tenerezza, come nell’incontro finale in prigione con Henry, il vecchio con la barba che si è tanto infoltita da farlo sembrare un patriarca veterotestamentario, ammansito dalla sconfitta militare ma conscio delle sue implicazioni nel prossimo futuro, il ragazzino ormai pronto a farsene propugnatore.
A livello iconografico però, in questo caso, per quanto Hawke sbraiti sputazzando e sbarri incupito gli occhi come un Achab, è la realtà che supera la trasfigurazione artistica.
Si può stare a contemplare a lungo il dagherrotipo (datato 1856) di John Brown, dato il carisma che tracima dal soggetto. Le rughe come intagliate nel legno di quercia, la zazzera ancora compatta, il fisico nervoso di un uomo che ha condotto una vita austera, e gli occhi chiari limpidi.
Sembra la versione primitiva, ancora inselvatichita di Lincoln, che sostituirà l’avventurismo naif di Brown con un’impresa deflagrante puntellata su retorica e mezzi che l’altro aveva solo nella sua mente in ebollizione.
The Good Lord Bird, John Brown e gli USA-cipolla
Ci si confronta con figure del genere.
Nella miniserie non si tralasciano contraddizioni e fisime di Brown, il tetragono convincimento con cui portava avanti la sua crociata, un caterpillar in carne ed ossa che castiga i padroni senza fare distinzione tra feroci possidenti che trattano gli schiavi come bestiame da fustigare e i più modesti coloni, come se transfusi in sé avesse lo spirito idealistico della Rivoluzione e quello degenerato del Terrore. Il suo destino è una strada a senso unico, dritta e senza deviazioni, e lui arriverà in fondo, portasse pure all’annientamento, portasse pure al giudizio degli storici di essere stato un folle.
Ci si confronta. Con la mente stordita dal profluvio di possibilità che ogni ambito contempla, mi crogiolo all’idea della coralità impenetrabilmente dissonante di questo mondo (un mondo senza una melodia ravvisabile, coi ritmi che si moltiplicano sfuggendo, i timbri che svaporano l’uno nell’altro), ma senza la capacità di trarne una chiusa costruttiva.
Mi crogiolo sì, e a volte mi chiedo quando i confini del pensiero infragilito non si slabbrino e trabocchino nelle lande desolate del qualunquismo, e quindi di una neghittosa ambivalenza. Come se non riuscissi a mantenere saldo il timone di una prospettiva personale, che sfugga dall’ottusità di un partito preso ma che dovrebbe essere ormai somma sufficientemente consolidata di riflessioni decennali: ed eccomi in balia del mare piatto dell’irresolutezza.
John Brown fu un condottiero sanguinario e poco lungimirante, e forse per questo verrà giudicato, ma certamente non fu irresoluto, e l’Amen non lo vomiterà dalla sua bocca come un brodo sciapo. Brown non ha eluso il suo destino e sulla forca ha ragione ad esclamare sorridendo “Che grande paese!” il suo, perché gli Stati Uniti sono come una cipolla dagli innumerevoli strati, lo sa bene lui che sfogliandola negli indefessi andirivieni ha riscontrato le antitesi di cui è rivestita, e poco tempo manca che al male si contrapporrà il vaccino.
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