The Book of Boba Fett è la storia di come Boba Fett, cacciatore di taglie, riesce a sopravvivere a mille peripezie e a divenire il capo della mafia del pianeta desertico Tatooine.
La Disney sta prendendo sul serio il brand Star Wars, comprato a caro prezzo nel 2012 da George Lucas (insomma: la cifra, a pensare ad altri deal del mondo digitale, non pare nemmeno esorbitante: 4,05 miliardi di dollari, più di un terzo del PIL della Moldavia).
La mungitura dell’universo degli Skywalker è arrivata, come noto, a rovinare la vita ai fan con l’ultimo filmone della trilogia, L’ascesa di Skywalker (2019), affidato al gigione J.J. Abrams, che intere comunità in rete vogliono essere dichiarato un episodio null and void, come un contratto annullato. Sarebbe bello.
Tuttavia, nel ramo delle serie TV, Disney Star Wars non sta facendo grandi errori. The Mandalorian era una bella serie (ci torniamo qui sotto), con due stagione equilibrate e dense, a tratti emozionanti, che sapevano dosare bene gli elementi dello spazio narrativo a disposizione.
Ora, The Book of Boba Fett procede decisamente su quella direzione.
Boba Fett: chi è, e il suo successo
Innanzitutto, due parole sul personaggio principale di The Book of Boba Fett. Egli gode di un successo pluridecennale sul quale spesso ci siamo interrogati. Figura assai secondaria nella prima trilogia di Star Wars (cioè, quella degli anni Settanta e Ottanta), compare brevissimamente alla fine de L’Impero colpisce ancora e poi in Il Ritorno dello Jedi. È, come il lettore certo ricorda, il cacciatore di taglie che ritira Han Solo (Harrison Ford) pietrificato nella grafite per consegnarlo all’indimenticabile Jabba the Hutt.
Il suo nome viene pronunziato proprio da Han Solo, ancora ciecato, nella sequenza emozionante in cui i nostri eroi sconfiggono Jabba sopra il pozzo di Sarlacc. Che è un incrocio tra una foiba e un parassita, una bocca piazzata nel deserto, dove chi vi viene buttato dentro esperisce una tortura infinita. «Nel suo ventre scoprirete una nuova qualità di dolore e sofferenza, venendo digeriti lentamente per un migliaio di anni» annuncia 3PO, il robot protocollare dorato, passato temporaneamente a servire il Jabba.
Boba ci finisce dentro, con un urlo assai ebete, perché prende una brutta botta inaspettata. E noi per decadi abbiam pensato che fosse ancora lì.
Avevamo invece appreso dagli ultimi episodi del Mandalorian che è ancora vivo. Grazie a The Book of Boba Fett apprendiamo anche come ha fatto a sopravvivere.
La sua vita però non si semplifica: finisce in mano ai predoni Tuskan, e quindi in mezzo a traffici illeciti e galattici. Ma il nostro persevera, e diventerà Daimyo, parola giapponese che stava ad indicare i signori feudali, ma che qui pare significare invece «capo mafia planetaria». Nientemeno che il ruolo che aveva Jabba, i cui putrescenti e verminosi parenti, scopriamo, sono ancora in giro. (peraltro, non tutti sanno che, anche Jedi ha una spuria derivazione nipponica: il termine è derivato da jidai-geki, espressione che descrive per lo più i film di samurai, da cui Lucas ha rubato non poco; jidai, per altro, non vuol dire samurai, ma «epoca»).
I cereali di Boba Fett
Il successo di Boba Fett negli anni, ribadiamo, non riusciamo a spiegarcelo. Esso rappresentava alla perfezione un modus operandi di Lucas, ben spiegato nella sua biografia. Riempire lo sfondo delle inquadrature di personaggi e creature che sono curati nei minimi dettagli. Perché, forse prevedeva il cineasta con chiaroveggenza, milioni di persone si ossessioneranno ad essi, nonostante siano visibili per qualche secondo, e magari pure sfocati.
Ciò è stato possibile con la produzione di action figure, già nei primissimi anni, di tutte le figure presenti nella prima trilogia. Le vendite del pupazzetto di Boba Fett devono essere andate benissimo, perché in America decisero di fare il personaggio di Boba Fett dentro i cereali. Proprio così: ed erano uno sconvolgente desiderio dei bambini italici che visitavano all’epoca gli States, un Paese che rispetta davvero le mitologie moderne. Oggi, la Funko è andata oltre, e ha fatto i cereali di Boba Fett veri e propri, ricoperti di cannella.
Non bastò. Nella seconda trilogia (quella tra gli anni Novanta e gli anni Duemila), si decise di inserire in pratica un’intera origin story di Boba Fett: figlio di Django Fett (Tarantino era in coda per l’omaggio a Corbucci), anzi, suo clone, che assiste, ancora bambino, alla sua decapitazione per opera dello Jedi Mace Windu, cioè Samuel L. Jackson – che se ci pensate ammazza un Django ma poi viene massacrato anni dopo da un altro Django, quello Unchained del film di Tarantino.
Ora ce lo ritroviamo in una serie tutta sua. Che si lascia guardare e ha molti pregi. Si rivedono personaggi – e mostri – che fanno battere il nostro cuore. Talvolta anche grazie alla sempre più pazzesca tecnologia del Deep Fake, che ringiovanisce gli attori in modo insuperabile.
Profondità mandaloriana
Vi è poi l’innesto, in S01E05, del Mandalorian vero e proprio, in qualcosa di più di un crossover. La serie assume subito una maggiore profondità. La ricerca del perdono, della rettitudine e della pace interiore dell’uomo con l’elmo è qualcosa che si guarda con grande passione. Ambientazioni e costumi dell’episodio sono una spanna sopra. Così come i significati, che virano verso il socio-religioso: sono oscuri e intricati, tuttavia rassicuranti. Il Mandaloriano deve seguire la sua via («This is the way») oramai conosciuta solo da mezza manciata di superstiti alla strage dei suoi simili, nonostante sia per lui quasi impossibile, oramai, da seguire.
La serie trova un sostituto violento di Chewbacca, e alla fine infila pure un personaggio piuttosto riuscito, Cad Bane, già visto nelle serie animate, una sorta di crudele alieno-pistolero con una bocca orrenda, che viene doppiato in modo magistrale, mentre la serie fa capire l’intenzione di virare verso il western puro.
Temuera Robinson, il protagonista, è lo stesso che interpretava il babbo del clone Boba, Django Fett, in Episodio II. Gli anni passano, e il trucco usato per far vedere il danno degli acidi gastrici di Sarlacc sulla sua pelle (che guarisce in sessioni idroterapiche che permettono alla narrazione di partire con flashback a volte troppo lunghi, a volte troppo brevi) lo fa sembrare più vecchio ancora, e al contempo di altra razza: pare bianco, invece ce lo ricordiamo per i suoi possenti tratti Maori in Once We Were Warriors (1994) o, per gli intenditori, Barb Wire (1996).
Più episodi sono diretti da Robert Rodriguez, e si sente davvero. Ad una certa compare anche Danny Trejo – cioè, per chi non lo conosce, Machete – e noi ringraziamo.
GIUDIZIO: qualità, tenuta, spensieratezza. Cura dei particolari. Rispetto del canone di Star Wars. È già tanto così.