In teoria a me non doveva piacere Strappare lungo i bordi. Frequento marginalmente il mondo del fumetto, consumo animazione in modo moderato, conosco persino abbastanza poco Zerocalcare. Aggiungo che ho una radicata diffidenza verso le produzioni italiane, dopo infinite delusioni. Invece la serie Netflix in 6 puntate, subito divenuta un fenomeno di costume e un successo strepitosi e di cui abbiamo parlato qui nel podcast, mi ha conquistato fin dai primi minuti. E non ha mai ceduto un attimo. Reggendo benissimo una seconda visione, a solo pochi giorni di distanza. Anzi, rivelandosi persino migliore alla revisione.
Perché? Perché se uno conosce e apprezza il mondo delle serie, o ancora più in generale la narrativa seriale, o anche solo l’arte di raccontare una storia, insomma – se uno ama le storie, fa davvero fatica a non amare Strappare lungo i bordi. E alla fine, di questo stiamo parlando.
Proporrò una chiave di lettura che mi pare originale, più avanti, parlando di questo show in relazione a una serie cult come Mr. Robot. Ma a prescindere da tutto, quella di Zerocalcare, per usare le parole di uno dei personaggi dello show, nella puntata finale, “È proprio una bella storia”. E tanto basta. O no?
Le stupide polemiche italiane su Strappare lungo i bordi
No, non basta. Perché per chi voglia fare il bastian contrario a tutti i costi, per vanità o snobismo o semplicemente invidia, un motivo più o meno futile è facile trovarlo. Ci si può rifugiare, come hanno fatto alcuni, in qualche polemica culturale o politica. Più o meno ideologica, più o meno dietrologica.
O prendersela con la lingua di Strappare lungo i bordi, il romanesco assai colorito del suo creatore e protagonista. Probabilmente il fronte su cui più forti, e davvero più incomprensibili, si sono levate le grida dei detrattori.
O, ancora, lamentarsi: ma Zerocalcare biascica, si mangia le parole, parla troppo veloce, tra questo e il dialetto romano non si capisce niente. Sentendosi ancora più nel giusto perché il fumettista di Rebibbia (a proposito: “ma cosa ce ne frega di Rebibbia, se non sei romano non capisci i riferimenti” ecc..) dà la voce a tutti i personaggi, a parte la coscienza-armadillo dell’amico e mentore Valerio Mastandrea.
Che almeno all’estero se la sono presa per cose di contenuto. I Turchi per i riferimenti ai movimenti di liberazione curda. Gli alfieri del politicamente corretto per termini come “zingara”. E, nella nuova America fragile e neo-puritana, per il tema che non citiamo causa spoiler, e che ormai va sempre contestualizzato perché il pubblico va “protetto” (brrr).
Il che ci porta a dire altre due cose. Primo: la serie biascicata in romanesco viene guardata (e piace) anche all’estero, coi sottotitoli. Niente male. Secondo: il provincialismo di certe uscite italiane, che si fermano al dito (accusatore) e non vedono la luna, fanno pensare a rovescio al Nanni Moretti contro Sordi di Ecce Bombo. Ecco, viene da chiedersi: ma ce lo meritiamo davvero Zerocalcare?
Un paragone impegnativo: Mr. Robot
Tanto i detrattori quanto, va detto, alcuni fan adoranti sembrano faticare a volte a cogliere cosa renda Strappare lungo i bordi il capolavoro che è.
Certo: è una storia bellissima e piccola, piccola e bellissima. Insieme personale e universale, che è una grande capacità. Allo stesso tempo divertente, coinvolgente, emozionante, commovente. Tutto vero.
Ma il vero cuore della sua grandezza, sotto gli infiniti strati di allusioni, rimandi, citazioni, sotto cui Zerocalcare sembra averlo pudicamente nascosto, a me sembra essere un altro. E cioè il suo essere la perfettamente riuscita rappresentazione di una crisi. Ma non la crisi di una generazione (c’è anche quella, chiaro, ed è forse il motivo dell’adesione così robusta di un blocco anagrafico). La crisi, più profonda e radicale, della nostra realtà.
Qualcosa che fa assomigliare Strappare lungo i bordi alla serie più grande e folle ed emozionante degli ultimi anni: Mr. Robot, di cui abbiamo parlato in questa puntata del podcast. E non solo per presenze musicali come gli M83, che hanno fortemente segnato il capolavoro assoluto di Sam Esmail.
Un po’ per il monologo costante che fin da subito diventa un dialogo tra protagonista e spettatore. O il tentativo di trovare ordine o inventarne uno. O l’impossibilità acclarata di riuscirci se non in forma provvisoria. “Non è riuscita a trovare quel posto nel mondo che le era stato promesso”: le parole del padre di Alice potrebbero benissimo riassumere alcuni dei temi centrali di Mr. Robot, e che ritroviamo anche qui. Solitudine, alienazione, dolore, paranoia.
Ma poi soprattutto per l’espediente del narratore inaffidabile.
Strappare lungo i bordi, Mr. Robot e la crisi della realtà
Proprio come Elliot, l’hacker giustiziere con felpa e cappuccio che è al centro del racconto di Mr. Robot (2015-2019), il nostro Z parla incessantemente. A noi, a se stesso, di se stesso, della sua lettura del mondo. E proprio come il personaggio interpretato da Rami Malek, è un narratore inaffidabile.
Ciò che ci racconta e ci mostra non corrisponde necessariamente a come sono andate le cose. La sua visione del mondo è distorta. Ogni relazione, e così ogni accadimento, è piegata alla sua narrazione. Un film di cui pretende di essere star, soffocando e schiacciando ogni rivendicazione della realtà a lui esterna (amici, persone amate, altri) di esistere a prescindere da lui.
Il romanesco, il micromondo Rebibbia, ma anche e soprattutto la scelta di dare a tutti i personaggi “esterni” la propria voce, sono allora non soluzioni di comodo ma scelte necessarie. E al contempo sono il mantello dietro il quale un autore pudico, quasi timido, ha potuto nascondere l’ambizione universalista del suo racconto. Quella di parlarci di una realtà atomizzata, tribalizzata, spezzettata in bolle sempre più piccole – al punto da non essere più raccontabile come una storia condivisa. Ma solo come il flusso delirante e narcisista di individui che si credono registi, sceneggiatori, star di ogni possibile storia.
Certo, Mr. Robot ha i toni del dramma. Strappare lungo i bordi a volte pure, ma è una commedia nera, disperante ma assieme deliziosamente inventiva e irresistibile. E italiana, anzi romana. Eppure una vicinanza io ce la vedo.
Anche nella pienezza, quasi subliminale, quasi da horror vacui, per cui ogni scena racchiude una marea di significati, allusioni, ulteriori elementi di contesto, citazioni.
Un racconto impressionistico che diventa una storia unitaria
Si è detto giustamente che Strappare lungo i bordi ha anche qualità estetiche e formali eccezionali. Per il panorama italiano indubbiamente, ma non solo. Si è detto della sua ricchezza formidabile di contenuti, proposti a un ritmo velocissimo: contenuti visivi, sonori, narrativi. Riferimenti culturali, sociali, storici. Film, serie, personaggi. Nascosti in ogni scena, o mostrati in piena luce. Bum, bum, bum. Costantemente. E poi le canzoni, con una colonna sonora ricchissima, anche al di là delle belle composizioni originali di Giancane.
Tra le tante che si potrebbero citare, ricordo la scena in cui Z lascia casa di Alice nel cuore della notte. Il rientro a casa è un viaggio nella solitudine della città e della vita. Notte, stelle, lampioni, insegne luminose, la radio, le note contrappuntistiche di “Haut les coeurs” (in alto i cuori) di Fauve che risuonano concitatamente funeree. E la coscienza-armadillo che ti aspetta a casa, con la voce sardonica di Mastandrea: Hai scopato? No. Bravo. Sei un grande. Cintura nera di come si schiva la vita. Quinto Dan.
E di nuovo la canzone che parte, a commentare serratissime visioni fantasmagoriche delle cose che avrebbero potuto essere se solo…
Ma poi naturalmente tutto cambia, e per il meglio, con la sorpresa alla fine dell’episodio 5, quel twist narrativo che è un colpo al cuore. E costringe a ripensare tutto il racconto in termini del tutto diversi. Quello che era sembrato un racconto impressionistico, fatto di un affastellamento selvaggio, punk, vorticosamente episodico e aneddotico, mostra improvvisamente tutto il suo senso.
Quello di una storia in realtà sorprendentemente compatta, che sul piano principale si svolge tutta in poco più di 24 ore, attorno a un viaggio di conciliazione e scoperta. Ma che poi torna indietro nel tempo nei decenni, fino all’infanzia.
Perché amare, infine, Strappare lungo i bordi
Il punto d’arrivo di Strappare lungo i bordi è, di nuovo, simile a quella di Mr. Robot. La scoperta, o riscoperta, che gli altri esistono. Al di là di noi. E che sono creature complesse, di cui possiamo cogliere forse solo un aspetto.
E così i personaggi per cinque episodi egoticamente riletti dalla coscienza accentratrice di Z, al punto da farli parlare tutti con la sua stessa voce, finalmente nel finale ritrovano la propria individualità. La propria voce. Ascoltiamo la voce di Alice, che inizialmente era stata un sintetizzatore vocale; quella del padre di lei, e di Secco, e – più importante – di Sarah. L’unica capace di costringere Z a uscire dal guscio della propria patologicamente narcisistica e assolutoria auto-commiserazione.
Se siamo “stracci, brandelli sottili e ciancicati uguali alle vite che ci ritroviamo in mano”, o “cartacce senza senso che sono proprio distanti dalle forme che abbiamo pensato”, cosa resta? Resta il calore umano, quel fuoco condiviso che a volte ci può anche bastare. Resta appunto una storia, da raccontare e ri-raccontare.
E resta la complessità indicibile della morte, degli amori, di tutte le cose dette e non dette. Che poi è la complessità della vita: “la cicatrice non passa, è come una medaglia. Fa paura, ma è anche bella. È la vita.”
Cioè tutto quello che accade fuori dai bordi, e di qua e di là dai bordi – mai lungo i bordi che ci avevano insegnato a dover rispettare. A dare senso alle cose è infatti lo strappo, la ferita, la cicatrice.
Come il capolavoro di Zerocalcare ci ricorda, non è solo impossibile ma proprio inutile pensare davvero di poter prendere in mano il disegno della propria vita. Pretendendo, senza danno, di strappare lungo i bordi.
Ascolta queste puntate del nostro podcast:
Strappare lungo i bordi: Zerocalcare e il tempo che passa | PODCAST