7 puntate da 20-30 minuti ciascuna; 7 storie indipendenti, ma che nascondono una connessione profonda; 8 eccellenti attori, tra cui 3 premi Oscar. Anche solo i numeri rendono chiaro perché ha senso guardare la fascinosa Solos (2021, Prime Video).
E questo nonostante altri numeri raccontino di un giudizio della critica tutt’altro che entusiasta: sull’aggregatore Rotten Tomatoes, la serie vanta un apprezzamento da parte del pubblico all’81%, che però è solo del 45% per la critica (e scende addirittura al 30% tra i top critics selezionati dal sito).
Siccome la missione di Mondoserie è orientarvi alle visioni meritevoli nel mare tumultuoso di troppe produzioni tra cui scegliere, lo diciamo subito. Ha senso guardarla. E ora raccontiamo perché (e anche su quali episodi concentrarsi, se si vuole assaggiare il piatto ma senza finirlo tutto).
Solos: che cos’è e cosa vuol dire il titolo?
Solos è una miniserie antologica episodica: cioè una produzione conclusa con l’attuale stagione, fatta di puntate autonome l’una dall’altra. David Weil (Hunters, The Twilight Zone) l’ha creata, scritta in gran parte, diretta in diversi episodi. Il genere è drammatico e fantascientifico. Tutte le storie, anche quelle che sembrano essere collocate nel nostro tempo, si rivelano poi portare qualche segno di un futuro prossimo venturo: nuove tecnologie, nuove abitudine culturali o sociali, o l’ombra di eventi passati che hanno portato gli esseri umani a scelte radicali.
Il tema: un’esplorazione curiosa e a tratti filosofica di cosa significhi essere umani, e della rilevanza della condivisione delle esperienze nella nostra definizione dell’umanità.
Ma a rendere davvero peculiare Solos, e a giustificarne il titolo, è la sua struttura: ogni puntata si concentra su una singola storia, e vede un solo personaggio in scena. Di fatto, ogni episodio consiste di un “assolo”, come promette il titolo: nella forma di monologhi o, in alcuni casi, di dialoghi con altre versioni di sé (versioni alternative, o passate / future…).
Con la sola – e non casuale – eccezione dell’ultima puntata, come vedremo meglio dopo pur senza fare spoiler.
Un cast formidabile per una sorta di “fantascienza teatrale”
Un impianto quindi fortemente teatrale, che non potrebbe funzionare senza un gran cast. Ben tre premi Oscar: Morgan Freeman (la cui voce apre ogni puntata, settandone il focus narrativo e filosofico e che poi è protagonista dell’ultimo episodio), Anne Hathaway, Helen Mirren.
Accanto a loro Anthony Mackie (The Falcon and the Winter Soldier), Dan Stevens (Legion), Uzo Adubo (Orange Is the New Black), Constance Wu (Crazy Rich Asians), Nicole Beharie (Sleepy Hollow).
Tutti uno più impressionantemente bravo dell’altro: e capaci di rendere credibili e interessanti storie intense e spesso sfidanti.
Al solito, poi, la messa in scena è assai bene curata, e funzionale ad esaltare il pezzo forte dello show, cioè appunto le prove degli attori. Oltre a Weil, dirigono episodi il co-produttore Sam Taylor-Johnson (Fifty Shades of Grey), Zach Braff (Garden State, Scrubs) e Tiffany Johnson (Girls Room, Black Monday).
Gli inserti fantascientifici, quando servono, si armonizzano con naturalezza, alludendo a un mondo che ha conosciuto ulteriori sviluppi tecnologici e ha imparato a fronteggiare eventi catastrofici e mutamenti socio-culturali. Ma, come si diceva, il focus di Solos e quindi di ogni puntata è il tentativo di indagare il mistero più grande dell’universo conosciuto: ciò che ci rende umani.
Temi fantascientifici per riflettere sul significato dell’essere umani
La riflessione sulla tecnologia, che qua è molto meno centrale e rilevante di quanto sia in Black Mirror (serie a cui si potrebbe pensare come riferimento, e che invece risulta lontanissima non solo negli esiti ma tutto sommato anche nelle intenzioni), è sempre e solo un pretesto per tornare al discorso centrale.
I temi di puntata finiscono così per rappresentare il contesto e il pretesto per esplorare il senso dell’esperienza umana. E soprattutto per riflettere su quanto questa sia definita, inevitabilmente, dalla connessione con le esperienze degli altri. Sono “assoli” che cercano, disperatamente, un pubblico o un eco, o la risposta di un altro performer.
In ordine di apparizione, i temi di puntata rendono chiaro il quadro. Si parte con una scienziata geniale e tormentata, la cui ricerca sul viaggio nel tempo è motivata da una necessità quasi disperata. Si prosegue con la scelta di un uomo d’affari che ha scoperto di essere in punto di morte ed è deciso a provare una tecnologia controversa per non abbandonare la propria famiglia. E poi con il viaggio nello spazio profondo di una donna anziana, invisibile nella vita di tutti i giorni, che cerca qui la sua opportunità per essere rilevante.
Tre personaggi femminili confinati in piccoli spazi domestici caratterizzano poi gli episodi 4, 5, 6. Dopo 20 anni di reclusione domestica a causa di una catastrofe globale, Sasha non si fida della sua casa smart che cerca di convincerla a uscire nel mondo. Una stanza d’attesa diventa l’inferno di una giovane e autodistruttiva donna, che si accorge di riuscire a ricordare solo frammenti degli eventi che l’hanno condotta lì. Una neo-madre deve affrontare le conseguenze dell’innovativa cura per la fertilità che ha sperimentato.
E si arriva così alla puntata finale, l’unica che vede in campo due attori e un dialogo: non sveleremo nulla, ma è l’episodio che costruisce una connessione profonda con diverse delle altre storie. Riflettendo in modo profondo e dolente sulla memoria, la sua labilità, la sua riproducibilità, la sua centralità nel definire chi siamo.
Perché ha senso guardare Solos…
Al di là delle sue più che soddisfacenti qualità realizzative e delle strepitose performance di attori davvero in stato di grazia, che già da sole meritano abbondantemente la visione delle 7 brevi puntate, Solos vale il vostro tempo anche per una ragione metatestuale. Cioè per cosa rappresenta nell’evoluzione della produzione audiovisiva contemporanea.
Lo show fa una scelta radicale: quella di provare a imporsi un vincolo fortissimo, e lavorarci attorno. Il vincolo, ovviamente, è quello di poter usare un solo attore a puntata (a parte come detto l’ultima). Non è un limite da poco e non è certo privo di implicazioni.
Ma lo dobbiamo intendere come un mero divertissement, un esperimento senza conseguenze? No.
Rientra piuttosto in un filone di cui, forse non casualmente, abbiamo di recente visto un altro esempio: Calls (Apple TV+), di cui abbiamo parlato qui. Altra serie antologica pure questa segnata da una scelta di auto limitazione formale fortissima che ovviamente produce conseguenze sulla struttura drammaturgica e la narrazione stessa. In Calls, come il titolo suggerisce, abbiamo solo delle chiamate: telefoniche, radiofoniche, via computer. Ma non vediamo niente, sentiamo solo.
Vincoli, dicevamo. Scelti e voluti dagli autori. Forse non solo per mettere alla prova se stessi, ma anche per testare i limiti del formato della narrazione seriale. Divenuta in questi anni così pervasiva e totalizzante. In questo senso, sono forse esperimenti che ci possiamo aspettare sempre di più, nella misura in cui aumenta a dismisura la quantità di serie prodotte e i formati tradizionali finiscono per risultare crescentemente inflazionati.
… ed ecco le puntate da non perdere per una visione selettiva.
Comunque, se volete investire ancora meno tempo in questo show, ecco la guida a quali puntate vanno viste per forza e quali possono essere sacrificate.
La prima e l’ultima, senza discussione: sono le puntate più belle, emozionanti, e narrativamente imprescindibili. Anne Hathaway è ottima nella prima; Morgan Freeman e Dan Stevens rendono indimenticabile il profondissimo e struggente segmento finale.
In mezzo, da non perdere anche gli episodi 4 e 5: “Sasha” ci racconta una realtà a cui è difficile non pensare, dopo un anno e mezzo di vari gradi di lockdown e distanziamento sociale; “Jenny” è un purgatorio esistenzialista, una sala d’attesa della coscienza che si esalta nella prova dolorosa di Constance Wu. Ma la verità è che nessuna delle brevi puntate delude davvero.
Ultima cosa: sono Solos, pezzi di bravura. Guardare lo show doppiato sarebbe come ascoltare un assolo di Jimmy Hendrix “tradotto” da un chitarrista meno dotato. Vedete voi!
Un altro affascinante esperimento di fantascienza: Calls