Se vi piacciono le vicende di spie ma avete poca pazienza per il glam gadgetistico e d’azione di 007, Slow Horses è quasi l’altra faccia della medaglia: una faccia sporca, rugginosa, graffiata, abituata a restare nascosta. Con al centro un Gary Oldman semplicemente monumentale, in una performance che da sola vale la visione. Quasi un anti-Bond, sublime quanto laido.
La quarta stagione, appena conclusa su Apple TV+, non ha deluso le attese che ormai si rinnovano anno dopo anno per una crescente comunità di fan. Confermandola come una delle nostre serie preferite degli ultimissimi anni. Una serie da guardare perché irresistibile, senza bisogno di tante altre ragioni. Puro intrattenimento, di gran classe. Nel suo genere perfetta. Scritta magnificamente. Recitata meglio. Sempre intelligente, seppur di un’intelligenza volutamente “dimessa”, poco scintillante. E, cosa che non era per niente scontato aspettarsi, persino cresciuta, dopo il capitolo di debutto.
Anche se, forse, questa quarta stagione – più personale, più psicologica, più dark nel suo raccontare e indagare i fantasmi che, come vedremo, dal passato riaffiorano per definire, e tormentare, i protagonisti – ha un po’ portato lo show in una direzione diversa. Più profonda. Che normalmente sarebbe una buona cosa. Ma che qui potenzialmente compromette la caratteristica in fondo più godibile di Slow Horses: una paradossale levità.
Vabbé, è questione di gusti. Ma soprattutto, di sfumature. Come detto, questa è una serie che, stagione dopo stagione, non perde il fiuto. Un po’ come il vecchio agente a capo dei Ronzini…
Dai romanzi di spionaggio omonimo, un inatteso successo
Intanto, che cos’è Slow Horses. È un thriller spionistico nato per svilupparsi in due brevi stagioni. Ciascuna ispirata a un libro di Mick Herron, e ciascuna con un proprio arco narrativo largamente autonomo. Le sei puntate andate in onda su Apple TV+ tra aprile e inizio maggio 2022 erano tratte dal romanzo dallo stesso titolo. Le sei distribuite a dicembre 2022 poggiavano su un secondo libro dello stesso autore: Dead Lions.
Una scelta curiosa, quella di lanciare nello stesso anno due (seppur brevi) stagioni . Che dovevano iniziare e concludere lo show. Ma poi, sull’onda di un successo forse persino sorprendente e di un vasto plauso critico, la serie ha rapidamente ottenuto un ulteriore imprevisto rinnovo. Le stagioni 3 e 4 di Slow Horses traducono ulteriori romanzi della collana: Real Tigers e Spook Street. Ed è già stata confermata una quinta stagione, basata su un altro volume della serie: London Rules. Come da tradizione, il trailer del capitolo 5 di Slow Horses ci è già stato mostrato, in coda all’ultimo episodio della stagione 4.
Abbiamo detto del successo di pubblico, e del plauso critico, universale. Sarebbe stato lecito attendersi qualche riconoscimento in più. Invece, almeno tra i premi che contano di più, solo quest’anno è arrivato un Emmy: quello alla miglior sceneggiatura tra le serie drama, per l’episodio “Negotiating With Tigers”, della terza stagione.
Come inizia e di cosa parla Slow Horses
Creata e prodotta da Will Smith (no, non lo schiaffeggiatore degli Oscar), che ne è anche lo sceneggiatore primario, Slow Horses è stata diretta per tutti e 6 gli episodi della prima stagione da James Hawes. Mentre per la seconda fa da regista Jeremy Lovering, sempre con Smith come sceneggiatore capo e showrunner. Smith è un autore esperto (vincitore di un paio di Emmy per il lavoro su Veep con Armando Iannucci), che qua prende una vacanza dal genere comico che ha più frequentato. Anche se le crepuscolari atmosfere della serie non di rado offrono inattesi momenti grotteschi, persino divertenti.
La serie inizia mostrandoci il fallimento, durante una missione di addestramento, dell’agente britannico dell’MI5 River Cartwright (Jack Lowden). L’imbarazzo è cospicuo, e costa al promettente agente una sorta di condanna al purgatorio: la Casa del Pantano (Slough House). Cioè la fatiscente sede secondaria dei Servizi, sorta di parcheggio amministrativo in cui agenti caduti in disgrazia si trovano a passare tediose giornate, tiranneggiati dal capo della sezione: Jackson Lamb (Gary Oldman). Trasandato, alcolizzato, disincantato, apparentemente interessato solo a spingere – per tedio e frustrazione – alle dimissioni i suoi agenti in disgrazia. E cioè gli Slow Horses del titolo, ovvero i ronzini: cavalli di scarso valore, e che pure si piegano a compiti umilianti. Nella remota speranza di poter tornare un giorno a Regent’s Park, scintillante quartier generale dell’MI5.
Il rapimento di un giovane comico universitario di origine pachistana da parte di un gruppuscolo di estremisti ultranazionalisti di destra, che minacciano di decapitarlo come gesto dimostrativo, mette in gioco anche la Casa del Pantano. Facendo emergere segreti, bugie, storie pregresse. E offrendo al gruppo, forse, una possibilità di redenzione.
L’ombra della Russia: una seconda stagione che cresce
La seconda stagione di Slow Horses alza ulteriormente la posta. Nel primo capitolo la vicenda principale esplorava le pericolose connessioni politiche e mediatiche di certe frange estremistiche dell’ultranazionalismo bianco e revanscista: un quadro certamente molto attuale (gli esempi in questo senso ormai si sprecano, specie negli Stati Uniti ma anche in Gran Bretagna: ne abbiamo raccontato un filone parlando del documentario Q: Into the Storm), ma al contempo, va detto, non facilissimo da prendere davvero sul serio. Anche per l’ottusità del manipolo di neonazisti.
Nella sua stagione 2, Slow Horses rispolvera il nemico per eccellenza dell’immaginario spionistico occidentale: i russi. Anche in questo caso, non manca l’attualità. Il nuovo caso inizia quando un ex agente segreto riconosce, a Londra, un uomo che lo ha torturato durante la Guerra Fredda. Prova a seguirlo, e viene trovato morto su un bus, vittima di un apparente attacco di cuore. Jackson Lamb vuole vederci chiaro: sotto un sedile del bus trova, nascosto, il telefono del morto. Tra le note, una sola parola: “cicala”. Che non è l’innocuo insetto ma, nel gergo delle spie, un agente dormiente: capace di restare inattivo per anni, per poi essere riattivato e colpire. Come le cicale, che – a seconda della specie – possono passare anche diversi anni sotto terra come larve, prima di emergere.
Ci sono agenti dormienti? Sono stati riattivati? Qual è il loro piano? Sullo sfondo di complicati negoziati tra servizi inglesi e dissidenti russi, delle mai sopite smanie di rivalsa dell’ex superpotenza e di movimenti anti-capitalistici parte una caccia che cambierà più volte di segno nel corso della stagione… Senza far mancare, va detto, una vena ironica più esplicita che nel primo capitolo.
La stagione 3 di Slow Horses: il marcio è ovunque
La terza stagione di Slow Horses cresce ancora ed è forse (ma sono gusti) la migliore. Un risultato persino sorprendente, se si pensa che la serie ha una natura quasi formulaica: cioè, all’osso, applica alle sue varianti narrative una formula abbastanza schematica e di per sé ripetitiva. C’è una minaccia esterna; i ronzini della Casa del Pantano, solitamente ai margini, si trovano coinvolti, mostrando una certa dose di coraggio e dedizione; Jackson Lamb esce dal suo abituale torpore alcolico per confermare che le abilità che ne avevano fatto un agente leggendario non sono morte.
Nel suo terzo capitolo, Slow Horses rivolge lo sguardo all’interno: il pericolo non viene da fuori, ma da dentro. Dalla politica inglese. Dalle sue compromissioni di interesse, tra l’amicale e l’economico. E dalle macchinazioni anche interne ai servizi segreti. La minaccia è rappresentata dal desiderio di vendetta, o forse di giustizia, di un ex agente dell’MI5, che ha visto una sua collega – e amante – morire tra le sue braccia, e sospetta che la sua morte sia stata decisa dall’alto per coprire una mezza porcheria combinata all’estero. La cosa fa deflagrare tensioni pre-esistenti: tra il governo e i servizi, tra Regent’s Park e il Pantano, tra le due donne a capo dell’MI5. Per tutti sarà una resa dei conti che non è solo una battaglia di potere, ma di sopravvivenza.
Anche perché la stagione si apre con il rapimento della fedele segretaria e responsabile amministrativa della Casa del Pantano, Catherine Standish. Un grave errore: perché Lamb se ne frega di tutto, ma se tocchi uno dei suoi…
La quarta stagione di Slow Horses: fantasmi dal passato
La stagione 4 di Slow Horses muta, come abbiamo accennato, il registro. Portandoci a scavare nel passato dei suoi protagonisti. Se la terza stagione si concentrava su giochi di potere interni e macchinazioni politiche, la quarta introduce un tono ancora più cupo perché personale, costringendo alcuni dei protagonisti a fare i conti con i loro vecchi demoni. La storia ruota attorno agli “spettri” del passato: errori e compromessi che i servizi segreti, nell’opacità delle loro pratiche, speravano di aver sepolto per sempre, ma che tornano a perseguitarli.
In questa stagione, vediamo River Cartwright affrontare il declino di suo nonno, David Cartwright (Jonathan Pryce), ex spia di rango dell’MI5, che scivola lentamente nelle ombre della demenza. Questo dramma personale – David è l’uomo che ha allevato il giovane River dopo la morte della madre – si intreccia con un nuovo cattivo (Hugo Weaving), una minaccia in parte esterna e in parte appunto “figlia” del disinvolto modus operandi dell’agenzia. Creando un’atmosfera di tensione e vulnerabilità, in cui le storie private e professionali si mescolano. Fino a una rivelazione che non sveliamo. Il finale, fra l’altro, stavolta rinuncia a chiudere l’arco narrativo stagionale: gettando un ponte irresistibile verso il prossimo capitolo.
Lo abbiamo detto in apertura. La stagione 4 di Slow Horses sceglie di aggiungere profondità alle disavventure dei suoi Ronzini. Senza rinunciare né al tono crepuscolare e sporco né a una cospicua dose di azione, che anzi qui cresce forse di tono – accumulando altri morti. Ma il suo percorso più psicologico e riflessivo, tra le ombre del passato, riduce non di poco i momenti apertamente umoristici, di quell’umorismo sardonico che era stato uno dei tratti distintivi dello show nei suoi primi capitoli. Si guadagna forse qualcosa, si perde qualcosa. Vedremo dove questo ci porterà.
Un’ottima resa, un gigantesco Gary Oldman
Fedele alla storia che racconta, Slow Horses offre una messa in scena fatta di sfumature e zone d’ombra. La Casa del Pantano è fatiscente fuori come dentro. Persino entrarvi non è facile: una porta semi-bloccata ne evidenzia l’isolamento. L’interno non è certo meglio: scale sporche, corridoi fiocamente illuminati, uffici miseri.
Il più misero di tutti è il regno, si fa per dire, di Lamb. Perennemente immerso in una nebbia di sigarette, fuligginoso, ingombro di carte, spazzatura, bottiglie più o meno vuote. Il vecchio agente disincantato, come scopriremo, è stato in gioventù un membro dell’Intelligence leggendario. Gary Oldman, attore per tanto tempo non sufficientemente riconosciuto nonostante le sue qualità e il suo carisma e consacrato solo negli ultimi anni per la sua incredibile performance come Churchill in Darkest Hour, gli dà forma perfetta. Corpulento, stropicciato, infastidito da tutto, dalla parlata strascicata e perennemente alcolica.
Quando la sua squadra viene coinvolta nelle macchinazioni ordite da Regent’s Park, o rischia di finire come capro espiatorio di operazioni “false flag” finite male, Lamb mostrerà di non essere né decotto né privo di cuore. “Potranno anche essere degli sfigati – ma sono i miei sfigati”: dice, ergendosi a difesa dei suoi, in un bellissimo confronto notturno con Diana Taverner (Kristin Scott Thomas), vicedirettore dell’MI5 e capo delle operazioni nota con il nome in codice di “Second Desk”. L’attrice inglese è il perfetto contraltare al connazionale Oldman: gelida, sofisticata, controllatissima. Opposto speculare in termini tanto estetici quanto morali, in una riuscita dialettica che non può che portarci a tifare per il vecchio e gonfio perdente.
Chiude il bel cast Jonathan Pryce, che interpreta il nonno dell’agente Cartwright, a sua volta sulfureo e misterioso agente dell’MI5 in pensione.
Le spie di Slow Horses, anti-Bond
Ma è appunto il gioco delle ombre e degli opposti a rappresentare l’aspetto più interessante di Slow Horses, oltre ovviamente alla già citata performance magistrale di Oldman. Come fa capire subito l’allusiva canzone della sigla di testa, Strange Game, che Mick Jagger canta e che ha scritto per lo show assieme al compositore della colonna sonora Daniel Pemberton.
Jackson Lamb sarà anche indolente e tirannico, ma ha cuore. Avrà anche i calzini bucati e camicie non lindissime, ma è pulito dentro. E quando rifiuta di far finire i propri agenti nel tritacarne delle ciniche operazioni dell’MI5, senza per questo rinunciare ad essere un bastardo, siamo gioiosamente con lui. La seconda e la terza stagione spingono ancora più in là il paradosso. Lamb è sempre più laido. L’impermeabile è ormai una mappa di macchie. Guardarlo ingurgitare il cibo (noodles, gelati) mette a dura prova lo stomaco. Sembra quasi di sentirlo puzzare, e chi lo incontra non manca di farlo notare. Eppure la statura morale del personaggio cresce. Non ha bisogno di divise, come non ha bisogno di grandi discorsi, per fare la cosa giusta.
Queste spie sono lontane anni luce dal modello di James Bond e dalla maggior parte delle incarnazioni glam, solari, positiviste della figura dell’agente segreto. Sono personaggi quasi sempre mediocri, e però ancora capaci di un occasionale guizzo. Vivono nell’ombra, e ai margini di un gioco più grande di loro, e da loro assai distante. Però sanno trovare lo scatto d’orgoglio.
Che fa loro tenere testa ai temibili dogs, i “cani” che sono l’unità tattica d’élite del controspionaggio inglese. E che li porta, loro ronzini, slow horses, ad arrivare per primi sul traguardo. Seppur tra molti acciacchi, e molte ferite.
Un altro splendido “perdente”: Jack Taylor
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