Tanto rumore per nulla? Sì, e in un doppio senso, come vedremo. Scene da un matrimonio (Scenes from a Marriage, HBO 2021) è approdato su Sky dopo il passaggio di settembre alla Mostra di Venezia (lo trovate anche su Now).
Immediatamente se ne è parlato come di un capolavoro, la cosa da vedere in questo autunno, un mezzo miracolo in particolare per le performance di Oscar Isaac e Jessica Chastain. Anche per la nobiltà della sua ispirazione: la celebre miniserie svedese omonima del 1973 di Ingmar Bergman, adattata poi dal regista a film.
Al solito, sarebbe meglio aspettare a parlare di qualcosa dopo che si è concluso, e lo si può giudicare nella sua interezza. Alla fine delle sue 5 puntate (da circa 1 ora ciascuna), il giudizio ponderato è: uhm. Un “uhm” per la verità piuttosto estenuato.
Se conoscete la produzione più famosa dell’autore israeliano Hagai Levi, ovvero quel BeTipul che sarebbe stato adattato in infiniti remake nazionali con il titolo In Treatment, avete già un’idea piuttosto precisa dello spirito. Cinema da camera, nel senso di due personaggi in una stanza che parlano. Ecco, in questo Scene da un matrimonio c’è persino meno azione che nelle sedute dall’analista di In Treatment. C’è meno evoluzione. Cambiamento. Costruzione di percorsi. E, alla fine, molto meno fascino.
Un remake fotocopia che non sa attualizzare il classico di Bergman
Va bene che Scene da un matrimonio è un remake, ma qua siamo più dalle parti della fotocopia. E qui c’è il primo grosso problema. La storia di una coppia con figli che andava in crisi e divorziava era fortissima 50 anni fa (il film fece molto scalpore e, si dice, contribuì a popolarizzare il divorzio). Oggi, ovviamente, no.
L’attualizzazione al tempo presente, che dovrebbe essere una sensata aspettativa nel caso di un remake, resta così al livello più superficiale. Le figlie erano due, diventano una sola. E, unica variazione di peso (più apparente che sostanziale): a mettere in crisi la relazione qui è la donna, mentre in Bergman era l’uomo. Riflettendo un po’ poveramente una trasformazione del ruolo femminile anche in termini di dinamiche di potere ed economiche nella famiglia: qui è la donna a guadagnare di più, ed è lei che, in nome delle proprie ambizioni e di un desiderio di autonomia realizzativa, sceglie di rompere un matrimonio che ormai avverte come soffocante.
Le 5 puntate della versione 2021 di Scene da un matrimonio hanno persino ognuna lo stesso nome di quella del 1973, che erano però una in più – ma per una durata complessiva pressoché identica: 285 minuti contro 281 minuti dell’originale. Ovviamente la puntata che si chiamava “Paula”, nome dell’amante del marito, ora si chiama “Poli”, nome dell’amante della moglie. Un po’ pochino, come attualizzazione.
Scene da un matrimonio: perché sì, perché no
Ma il “molto rumore per nulla” da cui siamo partiti vale anche non solo per Scene da un matrimonio nel suo complesso. Vale anche per la dinamica di coppia: seguiamo da vicinissimo, per quasi 5 ore, ogni sfumatura di una relazione in crisi. Per renderci conto, agli ultimi titoli di coda, che non è sostanzialmente successo niente, non è cambiato niente, e niente cambierà.
Di nuovo: un esito meno interessante e profondo oggi di ieri, sia in termini sociologici che culturali o psicologici. E che invece avrebbe potuto portare a riflessioni più feconde e vive.
Chiaro, sia Jessica Chastain che Oscar Isaac sono magnifici. La scrittura dei dialoghi è accuratissima. La regia capace di far vivere la casa o meglio le stanze in cui quasi tutta la vicenda si svolge: soggiorno, cucina, camera da letto. Anche se poi si concede un vezzo insopportabile nel mostrarci, in ogni puntata, gli attori che entrano nel personaggio (e, alla fine, ne escono): brrrr.
Se vi basta questo (interpreti eccellenti, dialoghi dolorosamente credibili, regia al servizio di questi e di quelli), Scene da un matrimonio è una miniserie faticosa ma solida, e plausibilmente soddisfacente.
Se non vi basta, vi resterà solo la fatica: e la sensazione di esservi fatti, per cinque lunghissime ore, i non così interessanti cazzi degli altri.