Il Festival di Sanremo, in diretta sulle principali reti di stato a partire dal 1951, è forse la serie più longeva nella storia della televisione italiana. Anche se manca un arco narrativo generale che leghi tra loro le diverse stagioni. Allo stesso modo, trama e struttura delle singole edizioni sono piuttosto nebulose. Ma è più vicino ad una sitcom che a una serie drammatica. Della situation comedy ha la ripetizione come struttura: di anno in anno si ripete lo stesso schema con poche varianti.
Ogni volta in sostanza vi è una quantità smodata di artisti in concorso. Più il mattatore della serata. Con la sua dama di compagnia. E i suoi ospiti: altri cantanti, attori, sportivi o personaggi pubblici a vario titolo. Dal premio Nobel alla velina. E infine l’esito delle votazioni. Si tratta di giurie svariate – addetti ai lavori o furor di popolo che si esprime, a seconda dell’epoca, con il Totip o il televoto o gli sms e in futuro con ammiccamenti cerebrali chissà.
Questi gli elementi basilari della trama. Unico vero protagonista è sempre il conduttore, che è anche il direttore artistico del festival. Sta a lui scegliere quali saranno gli artisti per la gara, quali le donne e gli uomini dello spettacolo che interverranno nel corso della puntata. I criteri delle selezioni sono squisitamente televisivi. Hanno poco o niente a che fare con la musica. Non è una visione snobistica dell’arte, ma una semplice considerazione di carattere pratico. Una considerazione che del resto vale oggi per buona parte delle produzioni cinematografiche o anche discografiche. Quelle produzioni che comportano un importante investimento economico e che hanno dunque l’obiettivo di incassare il più possibile. Ad ogni modo, criterio televisivo significa audience, né più né meno.
La retorica di Sanremo
Sparare su Sanremo è come sparare sulla Croce Rossa. Cercando di andare con ordine, in modo da dare a Dioniso quel che è di Dioniso, e tutto il resto ad Orietta Berti: è evidente che il festival della canzone italiana è anzitutto un fenomeno televisivo. E come tale, segue le leggi del piccolo schermo. Lo scopo è naturalmente il consenso, quindi l’audience. Recriminare su questo sarebbe infantile.
Le cose stavano così – anche se in termini diversi – per Sofocle e Caravaggio, per Mozart e Leopardi. Dunque non deve stupire che il conduttore del festival ne sia anche il direttore artistico. Che a lui spetti la selezione iniziale che decreta gli artisti che saranno in gara. E che i criteri di questa selezione cerchino di interpretare lo spirito estetico del tempo. E di soddisfare al contempo le esigenze di mercato. Che prevedano infine la soddisfazione di diverse fasce del pubblico televisivo.
Ecco perché ancora in concorso vi è qualche ‘dinosauro’. Nemmeno tanti in verità. Immagino a monte vi sia stato un calcolo sulle percentuali delle diverse età che seguono la kermesse. Né quindi può stupire che tanto spazio sia stato dato al fenomeno trap o a quello glam pop – ovvero a giovani artisti che incarnano il meglio (e il peggio) della produzione popolare di questo periodo. Popolare, perché pop non ha un significato buono e uno cattivo. Pop / popolare significa per sua natura che abbia in sé il meglio e il peggio che il commerciale possa offrire.
Dai dinosauri alla trap
La serie di Sanremo si nutre di esibizioni musicali come a suo tempo faceva Top of the Pops. Allora come ora la qualità del brano andava di pari passo con la carismatica presenza del cantante e/o del gruppo. Addirittura l’eventuale scandalo legato al testo o alla mise fa parte del gioco. Tanto il tutto, per quanto provocatorio e pittoresco, viene normalizzato dal medium televisivo. Non occorre sempre far scattare la censura per essere artistici.
Una breve storia della serie di Sanremo svela che nacque per incrementare il turismo nella stagione morta del comune ligure balneare – e floreale. Non a caso la prima a vincere fu Grazie dei fiori di Nilla Pizzi. Seguono gli anni ’50 e le canzoni tradizionali italiane di stampo ancora vagamente fascista, con testi Dio Patria Famiglia e l’Amore che fa male fa male fa male… Senza farla troppo lunga ad un certo punto ecco il blu che si tinge di blu con Modugno. Nel 1963 (sic… già allora!) si inaugura l’era Mike Bongiorno, e con lui arriva la rivoluzione di Mina, Celentano, Gino Paoli, Bobby Solo. Poi ci scappa il morto – Luigi Tenco, 1967 – e da lì a Pippo Baudo il passo è stato breve. Siamo a Fausto Leali, Al Bano e Massimo Ranieri (Massimo Ranieri fa la sua prima apparizione nel 1968!).
Time seems 2 pass, il tempo sembra passare – perché quindi stare a rovistare tra gli elenchi cercando vincitori e vinti fino ai nostri anni? Diciamo soltanto che con l’arrivo di X Factor, Amici di Maria de Filippi e compagnia bella (2009 o giù di lì), il palco di Sanremo smette i panni dei Ricchi e Poveri, Ramazzotti, Anna Oxa, Pooh, Riccardo Cocciante, per vestire – nel bene e nel male – quelli di Marco Carta, Valerio Scanu, Marco Mengoni, Emma Marrone. But that was then, this is now. E vai con Amadeus e i pochi meravigliosi dinosauri in gara, a confronto con un’allucinante pletora di supergiovani esponenti dell’attuale glam pop neomelodico trap.
Fiori e normalità
Sanremo è una fantastica vetrina di cosa le maggiori etichette discografiche abbiano da proporre sul mercato. Avviene spettacolarmente in televisione, seguendo le peculiari regole del mezzo. E di questo gli spettatori sono consapevoli. Il paese che segue la kermesse è sufficientemente maturo per goderne pienamente, senza remore e senza idiotismi. Magari di tanto in tanto canticchiando qualche orecchiabile motivetto presentatosi nel corso delle serate. In totale salottifera tranquillità, perché niente di realmente sconvolgente o grandioso può accadere sul palco dell’Ariston. Palco che è molto più piccolo dal vero di quello che si vede in televisione (cosa che fa un poco riflettere).
Per quanto talento abbiano gli artisti in gara, per quanto potenti possano essere le loro esibizioni, per quanto ricercati e innovativi i loro brani musicali, il piccolo grande palco dell’Ariston, fagocitato dal piccolo grande schermo che brilla nelle nostre case, ha il sacro compito di normalizzare e di rendere popolare – nel senso più becero che qui pop possa avere – qualsiasi cosa lo attraversi, nel tempo e nello spazio.
Ma perché tutto questo astio, tutta questa rabbia nei confronti di un fantastico festival floreale (per la sede e per le metafore), che è addirittura diventato specchio seriale della nostra società? Nell’arco di una settantina di stagioni, pur non comprendendone per intero la trama, abbiamo però – come in una tra le più longeve e magnificenti soap – potuto seguire la metamorfosi canora, estetica e addirittura sociale del nostro beneamato paese. E scusate se è poco. Perché, si dica quel che si voglia, ma fuck me! Sanremo è Sanremo.
In calce all’edizione 2023 del festival
In calce all’edizione 2022