Ray Donovan è una potente e originale serie drammatica americana, a foschissime tinte tra il crime e l’hard-boiled, composta di 7 stagioni (82 episodi, andata inizialmente in onda negli USA su Showtime dal 2013 al 2020, in Italia ora su Netflix).
A cui va aggiunto un lungometraggio conclusivo (Ray Donovan: The Movie, 2022), realizzato in fretta e furia in seguito alle numerose proteste degli aficionados per l’improvvisa cancellazione della serie, che era rimasta orfana di un adeguato finale.
La brillante autrice di Ray Donovan è Ann Biderman (Southland, NYPD Blue).
Protagonista indiscusso dello show è invece il carismatico Liev Schreiber (Scream, X-men le origini: Wolverine), attorniato da un cast davvero eccezionale. Nel quale spicca il mitico 80enne premio Oscar John Voight (Un uomo da marciapiede, Un tranquillo weekend di paura, A 30 secondi dalla fine), vincitore di un Golden Globe per il ruolo in questa serie di Mickey Donovan, il padre ex galeotto.
Los Angeles, California. Raymond ‘Ray’ Donovan è un faccendiere (fixer) in quel di Hollywood. È l’uomo che risolve i problemi, come il mitico Mister Wolf di Pulp Fiction, agendo nell’ombra con metodi poco ortodossi – se non sfacciatamente illegali (dalla corruzione alle minacce) – per conto di ricche e debosciate star e starlette del mondo del cinema, dello sport, degli affari e, successivamente, della politica e del crimine. Il tutto doverosamente in un’atmosfera di estrema violenza – fisica o psicologica che sia. Ricatti più o meno subdoli e pestaggi a morte (talvolta letteralmente) sono all’ordine del giorno nel mondo di Ray Donovan. Che viene generosamente ricompensato per i suoi servigi.
Traumi e famiglia
Un mondo, il suo, in cui tutto sembrava comunque filare per il verso giusto. Almeno fino a quando non si è trovato costretto ad affrontare, per la prima volta, i suoi stessi problemi personali, gravitanti per lo più intorno alla figura paterna.
Ray Donovan: un uomo tanto abile ed efficace nel destreggiarsi in situazioni complicate altrui, quanto invece fallimentare nella gestione del suo privato. Da una parte vi è la sua amatissima famiglia – moglie e due figli adolescenti. Dall’altra i suoi due fratelli, trasferitisi – per suo affettuoso e premuroso volere – dalla natia Boston in California, più un fratellastro di colore. Perché Ray, sin da quando era ancora un ragazzino, si prende cura della famiglia in maniera ossessiva e compulsiva, quasi patologica.
In questa sua idea allargata di famiglia trovano posto anche i soci in ambito lavorativo, ovvero i collaboratori / sottoposti della sua agenzia – Avi (Steven Bauer: Scarface, Breaking Bad) e Lena (Katherine Moennig: The L World) – e il suo boss / principale datore di lavoro,
Ezra Goldman (il mitico Elliott Gould, anch’egli 80enne), l’avvocato di celebrità e pezzi grossi di L.A. cui Ray deve la sua peculiare carriera e il suo sfarzoso tenore di vita.
Senza infine dimenticare i suoi stessi demoni interiori, con cui silenziosamente convive da troppi anni, dovuti ai terribili traumi subiti in giovane età. La lunga cancerosa agonia della madre, gli abusi del prete pedofilo, il suicidio della sorella. E soprattutto il rapporto con colui che Ray considera il peggiore dei padri possibili: Michael Donovan.
Ray Donovan: padri e figli
Mickey, dagli stessi figli sempre chiamato con distacco Mick – quasi mai padre né tantomeno papà -, era un rinomato sbruffone mezza sega criminale di South Boston. Un uomo che ha abbandonato i tre figli nella miseria e nella malattia della madre morente per Claudette, l’amante di colore del tempo, madre del fratellastro Daryll. Un uomo che Ray non ha mai perdonato. E che aveva anzi deciso di castigare in modo terribile, vent’anni prima.
Perché è proprio l’inaspettata uscita dal carcere di Walpole del padre dopo 20 anni su 25, da scontare per l’unico crimine che non aveva commesso, a complicare irrimediabilmente la vita – già di suo assai complicata – di Ray Donovan e dei suoi cari. Con la drammatica premessa, fin da subito chiara, che al tempo fu lo stesso Ray ad incastrarlo per omicidio.
Eppure Mick non sembra cercare vendetta: sembra piuttosto cercare redenzione.
Figura cinica e controversa, perennemente animata dalle migliori intenzioni paterne e al contempo criminali, le cui conseguenze castigano fatalmente chiunque sia stato da lui – quasi sempre in buona fede – coinvolto. In altri termini, qualsiasi suo colpo o progetto è destinato ad andare a puttane, trascinando a fondo chiunque gli sia vicino.
L’arrivo di Mick in L.A. e il suo ritorno nella vita di Ray Donovan innesca uno sconvolgimento di tutte le relazioni di quest’ultimo. A cominciare da quella con la moglie Abby (Paula Malcomson, Sons of Anarchy), e con gli stessi figli – fatidicamente giunti nell’età della ribellione – che non hanno mai avuto modo di conoscere il pittoresco nonno galeotto.
Il mondo dei fratelli e gli sbandamenti tra realismo e finzione
Ogni fratello di Ray è poi un allucinante ed irresistibile mondo a sé, destinato ad evolversi intensamente nel corso delle stagioni. Ognuno di loro percorre una strada che finisce spesso per intersecarsi con le strade degli altri, in una complicazione esponenziale a catena degli eventi in cui i Donovan si ritrovano coinvolti. Il maggiore, Terry (un incredibile Eddie Marsan), è un ex pugile alle prese con il morbo di Parkinson. Il minore è Brendan (Dash Mihok, non da meno), detto Bunchy, eterno immaturo irrimediabilmente segnato dagli abusi sessuali subiti nell’ambiente diocesano di Boston. Il loro più giovane fratellastro, nero con sangue irlandese, figlio di Claudette, è l’eclettico Daryll (Pooch Hall). L’unico che ancora crede in Mick come padre, cercando al contempo l’affetto dei propri fratellastri.
Questa famiglia è incredibilmente attraversata da svariati milioni di dollari, senza che questi riescano mai a restare nelle loro tasche, o anche solo in una cassaforte. La facilità con cui fanno e disfanno montagne di soldi è semplicemente sconcertante. Perché se è vero che i soldi non fanno la felicità, forse non lo è altrettanto che non facciano nemmeno il contrario…
La sceneggiatura di Ray Donovan, sempre sopra le righe e pur notevole nell’approfondimento psicologico di questi tormentati caratteri, presenta altresì diverse sbavature e sbandamenti narrativi, soprattutto nel film. Scritto come si diceva di fretta e furia per chiudere un’epopea che era stata ampiamente sviluppata durante le sette stagioni. Alcuni esempi? Il problematico alcolismo di Bunchy, che non sarà poi più tale. La sorella tossica – essendo la droga la ragione principale del suo suicidio, ragione che verrà opportunamente dimenticata anni dopo. Il mezzo milione di dollari rubato da Mick a Sally in S1, figura che scompare letteralmente in The Movie…
Ray Donovan: the dark side of the human kind
Ma la potenza di Ray Donovan non è certo da cercarsi nella consequenzialità del suo realismo: è uno show che fin dal principio ci trascina in un meandro di situazioni drammatiche al limite del paradossale e dell’improbabile – talvolta anche dell’impossibile. Un intreccio però narrativamente coinvolgente come pochi. Perché le complicate azioni e motivazioni di Ray, Mick e compagnia bella, compongono un affascinante e surreale mosaico fatto di violente epifanie, alcool, sangue e collisioni. Con qualche singolare incursione nell’onirico.
Un mosaico che ci permette di esplorare the dark side of the human kind, ovvero l’altra faccia del sogno americano. Ray guadagna molti soldi con il suo lavoro – quello che preserva le persone molto ricche dal dover affrontare le conseguenze delle loro malefatte. Mick è alla perenne ricerca di soldi facili. Ma, come già accennato, per i Donovan in fondo è sempre eppure non è mai una questione di soldi.
I legami affettivi. I sensi di colpa. Realizzazione. Espiazione. Redenzione. Terry, Bunchy, Daryll, Mick, Ray: ognuno di loro è mosso da profonde ed enigmatiche motivazioni, ognuno di loro tende, volente o nolente, al suo stesso male. Dall’assolata e artificiale Los Angeles alla cupa e soffocante New York delle ultime stagioni. Con qualche viaggio tra Messico, Texas e Las Vegas. Per finire – in The Movie – a Boston, dove la storia dei Donovan ebbe inizio.
Ray Donovan è un eroe di poche e ricorrenti parole (ad es. yeah / what? / sure / gotta go), costretto ogni giorno a confrontarsi con un’assurda sequela di problematiche situazioni – che dal mondo dei suoi clienti passano sempre più al suo -, tra minacce di morte e ricatti milionari, malavita e federali, sordidi segreti e rivelazioni sconvolgenti.
Edipo e Ray Donovan
Così è la storia di Ray Donovan, dalle malfamate strade di South Boston ai benestanti quartieri di Los Angeles. Un’esistenza all’insegna della protezione dei suoi cari: Ray è l’uomo che si prende cura di tutti gli altri: dai fratelli al boss, dai clienti alla moglie, dai figli ai soci…
E queste cure la maggior parte delle volte necessitano, oltre che dell’astuzia – se non di una pistola – per lo meno di una mazza da baseball (che Ray porta sempre con sé nel bagagliaio della sua lussuosa macchina).
L’unico di cui non può e non vuole prendersi cura è proprio il padre, che preferirebbe vedere morto, pur non avendo la forza di ucciderlo da solo. Anche se talvolta le sue azioni sembrano contraddire quanto va ossessivamente ripetendo a tutti. Segno di un intricato ed irrisolto rapporto di amore e odio verso la figura paterna. Rapporto che lo costringe ad interrogarsi spesso sul suo stesso problematico ruolo di padre. Un padre che cerca il meglio per i suoi figli, non potendo però esimersi dall’offrire l’esempio che incarna. Ovvero un uomo che agisce sempre violentemente ed immoralmente.
L’elegante e possente Liev Schreiber, con il suo sguardo glaciale, è perfetto nei panni dell’instancabile risolutore di grovigli apparentemente impossibili da districare, nell’abisso etico che è lo show business hollywoodiano.
Un mondo che, in questa serie, è rappresentato come frivolo e patinato all’ennesima potenza, in una paradossale mise en abyme che si manifesta a partire dagli stessi fittizi titoli di film e serie tv in cui sono coinvolti attrici, attori e produttori clienti di Donovan.
Il Cristo di Hollywood e il peso dei fantasmi
Un mondo che ha bisogno del lavoro sporco che Ray ha dovuto e deve ancora fare – occultamento di prove, pulizia di scene compromettenti, messinscene per sviare le indagini e così via – per conto del potentissimo Ezra, di cui per decenni è stato il braccio destro. Il mondo hollywoodiano di Ezra finirà per saturare – addirittura nauseare – il protagonista, che spesso beve smisuratamente con una sorta di malcelata disperazione, data dal dover portare cristologicamente il peso dei suoi traumi e delle nefandezze con cui è costretto a convivere.
Il passaggio dal mondo hollywoodiano a quello in senso più stretto affaristico, fino a quello corrotto della politica e ancor più – forse – del malaffare criminale, non fa che rendere sempre più insopportabile il peso portato da Ray. Complicando, come in uno specchio grottesco della vita di suo padre, l’esistenza di tutti i suoi famigliari. In più, l’orrore degli ambienti in cui Ray opera da risolutore sembra sempre più incontenibilmente contaminare il suo stesso sacro spazio domestico. E quindi: quanto peso può portare un essere umano, tra i suoi fantasmi e quelli delle persone a lui in qualche modo legate? E quanto può arrivare a pesare un fantasma – soprattutto se è quello di tuo padre dopo 20 anni di prigione fatti a causa tua?
Mickey Donovan vive, al contrario del figlio, senza pesi o rimorsi: ama l’alcol, la coca ed il didietro delle donne. Tanto taciturno è Ray quanto fanfaronescamente affabulatore è Mick, la cui caratteristica principale è però mettere suo malgrado nei guai chiunque lo circondi, finendo ogni volta con lo scatenare una grottesca serie di reazioni collaterali a catena. John Voight è strepitoso nell’incarnare la contraddizione vivente di questo vecchio bullo e delinquente di strada: candido e innocente, e al contempo bastardo figlio di puttana…
Ray Donovan e l’infamia trasmessa da padre in figlio
Tanto Ray risolve i problemi di tutti, quanto il padre a tutti li crea: eppure entrambi finiscono sempre con il minacciare, senza volerlo, le persone a loro care… Ciò detto, le numerose e nervose avventure di Ray Donovan e fratelli ci immergono nell’immaginario parossismo del violento mondo delle capitali americane di vizi e peccati, traumi e crisi esistenziali. Su tutte quella del protagonista, che cerca di aggiustare le vite di tutti senza mai riuscire ad aggiustare la propria. Crisi che gli farà mettere in dubbio il suo ruolo di marito, padre, fratello e, alla fine, anche di figlio…
E quindi, paradossalmente, il grande viaggio di Ray dentro i suoi stessi traumi – su tutti la presenza di quel padre maledetto nella sua infanzia – lo porterà infine a chiedersi quanto sia maledetto lui stesso, e che conseguenza questo possa avere sui suoi stessi figli: è forse una maledizione che si trasmette inevitabilmente di generazione in generazione?
Non è quindi un caso che l’intera narrazione del lungometraggio conclusivo sia fondamentalmente una lunga telefonata che Ray fa ad uno psichiatra, per raccontare il finale della sua potente, originale, emozionante ed oscura storia esistenziale.
Il tentativo di Ray Donovan di distaccarsi il più possibile dalle sue origini – e da suo padre -, per assicurare un diverso futuro alla sua famiglia – e ai suoi figli -, dovrà necessariamente fare i conti con chi è lui, a prescindere da quanto cerchi di nasconderlo agli altri – e soprattutto a sé stesso. E con la maledizione – l’infamia – che porta con sé e in sé.
“Dottore, ora so che l’infamia si trasmette di padre in figlio.” (Ray Donovan: The Movie).
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