L’americana Paradise, da noi distribuita da Disney+ in parallelo all’uscita statunitense (tra gennaio e marzo 2025), è stata per me una piccola sorpresa e una doppia conferma. La sorpresa deriva dal sussiego con cui ne avevo occhieggiato il trailer, liquidandola in fretta come un prodotto minore. Quando poi ho provato a guardarla, giusto per, ho scoperto che sì, era un prodotto minore, e con un bel po’ dei difetti che avevo immaginato: ma godibile al punto da essere quasi irresistibile.
E le conferme? La prima viene dall’albero genealogico: creata da Dan Fogelman, ha come star Sterling K. Brown. Cioè l’autore e uno dei protagonisti di una delle serie più amate degli ultimi dieci anni, This is Us. Roba seria: pathos e melodramma assicurati, emozioni e colpi di scena pure.
La seconda conferma è in un trend. Quello di prodotti magari imperfetti, anche pesantemente imperfetti, ma che sanno ritagliarsi uno spazio potente nell’immaginario collettivo. Perché la loro rilevanza (socio-culturale) conta più di una resa senza difetti. Un discorso che abbiamo fatto, di recente, con Zero Day. Miniserie che condivide con Paradise non solo il genere, una sorta di fanta-thriller politico, ma anche l’ispirazione: una traduzione spettacolare e melodrammatica della crisi verticale di fiducia nelle istituzioni governative. E l’emergere sempre più forte della tentazione del complottismo come lente attraverso cui leggere la realtà.
In Paradise c’è tutto questo. Ma c’è pure di più. C’è The Truman Show, e forse persino un pezzetto di Velluto Blu. C’è un giallo, c’è azione, ci sono conflitti. Troviamo il cambiamento climatico con i suoi effetti devastanti – e, come in 2012, o in Elysium, o in Snowpiercer, o in Don’t Look Up, solo ad alcuni è dato sopravvivere. C’è persino, a tirarla un poco, la Repubblica di Platone!
Troppo?
Dan Fogelman / Sterling K. Brown: si rinnova il sodalizio di This is Us
Partiamo dai fondamentali. Paradise è una serie televisiva statunitense creata da Dan Fogelman, distribuita da Hulu negli Stati Uniti (2025). Sull’onda del successo, sia critico che di pubblico, la serie è già stata rinnovata per una seconda stagione. Fogelman, autore, sceneggiatore, creatore di un bel po’ di cose tra cinema e tv, ha conquistato uno status notevole con il trionfo internazionale di This is Us (2016-2022). Cioè la fluviale storia di una famiglia attraverso i decenni e le generazioni, costruita sapientemente con un intreccio costante dei piani temporali, mostrando tutte le abilità manipolatorie e psicagogiche che Fogelman sfodera anche qui. A partire dal gusto per quei colpi di scena che stravolgono la prospettiva.
Fogelman si confronta, in Paradise, con dinamiche diverse da quelle della serie che gli ha dato fama e successo. Resta l’interesse per l’incrocio di piani temporali e per l’esplorazione delle dinamiche personali, familiari, sentimentali dei personaggi, ma il racconto si fa più cupo e inquietante. In un progetto che combina tensione politica ed elementi di distopia sociale, ponendo interrogativi sul potere, l’informazione e la sua manipolazione, il dietro le quinte della politica.
Dal trionfo di This is Us viene anche il protagonista Sterling K. Brown, che per il ruolo di Randall ha vinto un Emmy (uno dei tre che ha in bacheca) e un Golden Globe. Brown qui conferma la sua capacità di portare sullo schermo personaggi complessi e sfaccettati, veicolando una gamma di emozioni che non ti aspetteresti in un classico thriller fanta-politico. Una rabbia sommersa, trattenuta, profonda, di cui piano piano capiamo la genesi. Gli tengono bene testa il sorprendente James Marsden (Westworld, la divertente Il giurato) e Julianne Nicholson (già vincitrice dell’Emmy come non protagionista di Omicidio a Easttown).
Di cosa parla Paradise (SPOILER solo sul primo episodio)
L’agente dei servizi segreti Xavier Collins (Brown) prende servizio per quella che sembra una mattina di routine. Finché non scopre il corpo senza vita dell’uomo che è incaricato di proteggere: il presidente degli Stati Uniti, Cal Bradford (Marsden). Manca un tablet, pieno di informazioni riservate. Analizzando le registrazioni di sicurezza, scopre che i filmati si sono bloccati per diverse ore la notte precedente. Non solo: prima del blocco, le registrazioni mostrano che prima di morire il presidente aveva visto due persone: lo stesso Collins e la sua capa, un’agente con cui Bradford aveva una relazione clandestina. La rete di dubbi si allarga rapidamente.
Se l’inizio può sembrare molto classico, non fatevi ingannare. Lo spettatore attento noterà subito delle apparenti incongruenze. Il presidente sembra vivere una vita assai poco frenetica. La sua residenza non è la Casa Bianca ma una ben più ordinaria villetta con giardino, collocata in una cittadina ridente, ordinata, da zona residenziale americana. Il dispositivo di sicurezza è minimo, per non dire rilassato.
Attraverso una serie di flashback, apprendiamo il passato di Xavier Collins: fu personalmente scelto dal presidente per guidare la sua sicurezza, e si è preso un proiettile per salvargli la vita in un attentato sul prato della Casa Bianca. Bradford, riconoscente, dopo la convalescenza gli rivela l’esistenza di un progetto segreto in sviluppo nel cuore delle montagne del Colorado: un piano destinato a salvare l’élite del paese da una catastrofe imminente.
L’episodio si chiude con una rivelazione scioccante: un cartello digitale annuncia che l’alba è stata ritardata di due ore per manutenzione, e un’inquadratura mostra che l’amena cittadina è un’enorme struttura sotterranea governata da una cabala di potenti, con una fonte di luce artificiale che simula il sole.
Il mito della caverna, Platone e Paradise
Altro, sulla trama, non diremo. Se non parlare, più avanti, di un episodio cruciale e clamoroso. Proviamo invece ad affrontare il tema pomposamente evocato nel titolo di questo capitolo. Che c’entra Platone, forse il più importante filosofo della storia umana, con Paradise? In un certo senso, niente. E probabilmente gli autori sarebbero i primi a stupirsi del parallelismo. Ma se mi permettete la licenza, proviamo a vedere perché il richiamo non è forse blasfemo.
In curiosa assonanza con la fantascientifica Silo, che ha già all’attivo due stagioni (2023-2024) e un fervido culto, Paradise racconta di una comunità ridotta, di poche migliaia di persone, sopravvissute a una catastrofe planetaria grazie alla costruzione di una vasta città sotterranea. In ambo i casi, chi tira le fila del governo fa ricorso a ogni strumento, e a una costante manipolazione, per mantenere tranquilli i cittadini in cattività – a partire dal rafforzamento della convinzione che fuori dallo spazio protetto ci sia solo morte. E in entrambe un coraggioso e onesto tutore dell’ordine decide di sfidare l’oppressivo regime, uscendo dalla caverna.
Il mito della caverna, che Platone mette al centro della sua Repubblica, parla di un milione di altre cose, e assai più complesse. E però c’è una somiglianza per me affascinante: gli uomini sono intrappolati sul fondo di una caverna; ignorano la luce del sole; conoscono solo una versione parziale, illusoria, manipolata della realtà (ombre proiettate); la realtà fuori dalla caverna è forse inconoscibile, anche da chi uscisse a contemplarla, e certo poi incomprensibile (e spaventosa) per chi ha scelto il relativo comfort di un’esistenza “protetta”.
Il filosofo ateniese riflette, nel suo celebre dialogo, sulla giustizia e la politica, e costruisce la prima utopia che prova a immaginare un governo “perfetto”. Che per essere tale deve essere ben ordinato, armonioso, severo, e retto da filosofi: un’oligarchia di cui le élite manipolatorie di Paradise (o di Silo, appunto) sono una volgarizzazione e una degenerazione, certo – ma nondimeno forse una lontana discendenza.
Il racconto oscuro del potere e della politica
In questo senso la nostra Paradise si colloca nel filone ormai sempre più massiccio del racconto pop sulla corruzione del potere (o sulla natura corruttiva del potere). Un tema a cui abbiamo dedicato un’ampia e articolata analisi qui, ricostruendo una storia dei modi in cui la politica è stata messa in scena dalcinema e televisione. E tracciando il percorso di un’evidente involuzione dark, paranoica, violenta, che dall’idealismo di The West Wing porta alla totale degenerazione di show più recenti. D’altra parte, già negli anni ‘90 una serie popolarissima come X-Files (in grado di distillare abilmente gli umori del tempo) aveva messo in scena la crisi di fiducia verso le istituzioni governative e, in un certo senso, legittimato la cultura della paranoia e del complotto.
In Paradise questo tema si incarna primariamente nella figura di “Sinatra” (Nicholson), l’ultramiliardaria del tech che, avendo finanziato e fatto costruire la città sotterranea, ora di fatto la governa, relegando ai rappresentanti politici democraticamente eletti (nel mondo pre-catastrofe) un ruolo largamente cerimoniale. Il racconto diventa allegoria di come la società moderna sia largamente prigioniera di narrazioni costruite e manipolate. Dove chi detiene il potere (un manipolo di ricconi e i loro alleati politici / industriali) può decidere cosa debba essere ritenuto vero – o proporre narrazioni controfattuali, verità alternative. Un tema di straordinaria rilevanza nel mondo attuale, che l’esplosione digitale ha reso straordinariamente vulnerabile alla disinformazione.
Esattamente come ha fatto, nello stesso momento storico, la già citata Zero Day, anche Paradise affronta le connessioni tra politica, grandi corporazioni tecnologiche e poteri economici occulti. Mostrando come le decisioni cruciali non vengano sempre prese alla luce del sole, ma in stanze chiuse, dove il destino di milioni di persone viene determinato da pochi individui.
Lo sconvolgente episodio 7: perfetta messa in scena della crisi
Non lo facciamo quasi mai, ma qui ci sta. Dedichiamo un po’ di righe a un episodio in particolare: il settimo, “The Day”, penultimo della prima stagione. Che rappresenta il momento più intenso, riuscito e sconvolgente della serie. Va da sé, ci sono spoiler, ma di scarso peso, visto che si tratta per lo più di un lungo flashback. Che non introduce particolari novità narrative. Ma getta luce sull’avvenimento che sappiamo fin dalla prima puntata essere successo: la catastrofe che ha spinto i personaggi a cercare salvezza nella città sotterranea.
Quello che è interessante non è quindi tanto il cosa viene raccontato, ma il come. Altre volte abbiamo visto rappresentazioni di apocalissi imminenti. O assistito alle decisioni delle istituzioni (tipicamente, il presidente degli Stati Uniti) su come affrontare l’impossibile sfida. Ma in Paradise, per la prima volta, una serie televisiva offre una rappresentazione così dettagliata e realistica del collasso dell’ordine in un momento di crisi estrema. Arrivati al giorno cruciale, che giunge molto prima di quanto gli scienziati avessero previsto, il caos che si scatena tra le mura della Casa Bianca travolge ogni forma di razionalità e gerarchia. Trasformando il luogo simbolo del potere in un’arena di disperazione e conflitti interni. Tra episodi di panico, rabbia, violenza.
Questo episodio ribalta la tradizionale rappresentazione dello staff presidenziale, che da The West Wing in poi è stato quasi sempre mostrato come un corpo efficiente, solido, solidale, razionale. Qui, invece, la perdita di controllo mostra in modo inedito e inquietante quanto sia fragile il confine tra ordine e caos quando il potere si trova di fronte alla propria impotenza.
Un episodio la cui forza narrativa, drammaturgica e visiva lascia lo spettatore attonito, sconvolto nel profondo. E che da solo varrebbe la visione.
Caotica, imprecisa, ambiziosa, fascinosa: perché Paradise ci è piaciuta
E appunto, alla fine: Paradise vale la visione? Come abbiamo visto, la serie affastella senza freni ambizioni, spunti, trame, riferimenti di ogni tipo. Si è detto della dimensione politica, persino filosofica. Si è alluso a quella estetico-esistenziale che richiama la città-set di The Truman Show, in cui il micro-mondo è appunto racchiuso in una cupola che simula i cicli del sole e le mutazioni del meteo.
Ma c’è ovviamente anche un discorso aggiuntivo che si potrebbe fare: quello dell’indagine sulle pieghe nascoste dei “suburbs” americani, le zone di residenzialità protetta della borghesia bene, o la provincia profonda con i suoi micro-cosmi apparentemente ridenti. Cioè il modello popolarizzato da David Lynch con la Lumberton di Velluto Blu (e poi con la successiva Twin Peaks): una quieta cittadina di provincia americana che dietro la superficie ordinata e scintillante cela segreti inconfessabili e oscure tensioni.
Tanta roba. Forse, troppa. Anche per più di una deficienza in sede sia di scrittura che di regia, con un discreto accumulo di inverosimiglianze, caoticità, indecisioni sui personaggi. Lo stesso era accaduto con Zero Day, come abbiamo raccontato, con la differenza data dalla regia unitaria, e molto efficace, della veterana Lesli Linka Glatter (mentre qui regia e scrittura sono a molte mani).
Eppure, nonostante i suoi (tanti) difetti, e alcuni pasticci che farebbero venir voglia di urlare, alla fine Paradise piace. E convince, persino, anche prima di quella magnifica settimana puntata di cui abbiamo parlato prima. Sarà per il cast eccellente, su tutti il magnifico Brown e il sorprendente Marsden. Sarà per le premesse narrative. O per la fascinazione di tema e sottotemi. Ma alla fine sì, vale la visione. Paradise non si fa solo guardare: a sorpresa, appassiona.
Temi simili, un’uscita simultanea: Zero Day.