“Don’t try this at home”, non provatelo a casa, è l’avvertimento posto in esergo a Panic, teen drama pubblicato nel 2021 su Prime Video. Il motto si vorrebbe ironico, visto che al centro dello show è un gioco crudele e pericoloso, i cui partecipanti rischiano la vita in varie insidiosissime prove. Ma potrebbe benissimo riferirsi alla serie stessa e all’atto di guardarla: non provatela a casa. Non fatelo. Dedicatevi ad altro. Che so, una serie sul giardinaggio inglese. O un bello show di cucina sulle tradizioni gastronomiche regionali italiane.
Potrei davvero fermarmi anche qui. In fondo, la regola aurea che più o meno ispira Mondoserie è quella di offrire una guida per non perdere tempo: tra troppi show, e soprattutto tra troppi show orrendi o mediocri. Cercando di capire su cosa valga la pena investire ore, e giorni, e da cosa stare alla larga.
Ma l’altra bussola di questa testata è quella di provare a indagare un po’ più in profondità le serie, cercando di svelare che cosa le storie grandi e piccole che ci vengono proposte possano mostrare del mondo reale, delle sue reali pulsioni e tensioni e paure e speranze. E, in questo senso, un brutto show è altrettanto significativo di uno show bello. Può aiutarci allo stesso modo a leggere la realtà in filigrana. A volte persino meglio, senza una storia e un racconto di qualità a distrarci.
Panic: perché non vale la pena vederla, ma parlarne.
Vale la pena vedere Panic? Assolutamente no. Ma vale la pena parlarne brevemente per alcune verità che ci indica. Idee e tendenze a dir poco inquietanti.
Creata e sceneggiata dall’autrice per adolescenti e young adult (brrr) Lauren Oliver e basata sul suo omonimo romanzo del 2014, la serie parla di ragazzi che hanno appena finito il liceo. Il sogno, per tutti, è quello di poter fuggire dall’opprimente cittadina texana in cui vivono. Ma, con una povertà sempre più diffusa, l’unico modo per molti di loro è partecipare alla spietata competizione chiamata Panic, da loro stessi organizzata. 50 mila dollari, cioè un biglietto per tentare una vita migliore, al vincitore di una serie di prove micidiali: che hanno già reclamato vite in passato.
Due elementi di giudizio produttivo. Solita messa in scena professionale. E solito cast più che decente, con i giovani Olivia Welch, Mike Faist, Jessica Sula, Ray Nicholson e Camron Jones. Ma la serie è irrimediabilmente stupida, sciatta, stucchevole, tirata per le lunghe, ammorbata da sottotrame prive di qualsiasi interesse, scritta in modo grossolano. Soprattutto, pretende dallo spettatore un assegno in bianco: altro che sospensione dell’incredulità.
E allora, perché parlarne?
Tema n.1: il sogno di volare via. Friday Night Lights
Il primo tema non è tanto o solo il tema portante di Panic. Cioè il desiderio adolescenziale di fuggire, volare via dal nido, andare a farsi una vita altrove. Cosa che in America ha sempre avuto più senso che da noi: almeno prima della crisi e dell’impoverimento crescente del ceto medio, era fortissima l’abitudine ad allontanarsi di molto da casa per frequentare l’Università. Quasi un rito di iniziazione verso una mobilità (geografica ma anche sociale e lavorativa) fino a ieri idolatrata come sorella del grande “ascensore” capitalistico, scopertosi negli ultimi anni bloccato tra piani diversi del non più così sfavillante grattacielo americano.
Il tema vero è il modo con cui questo desiderio viene raccontato, cosa si è disposti a fare per andarsene, e che cosa ci dice dell’autorappresentazione della società USA.
Il pensiero non può che correre a una serie poco conosciuta in Italia ma leggendaria oltreoceano, e di cui dovremo presto parlare: Friday Night Lights. Pluripremiato e amatissimo dalla critica (più ancora che dal pubblico) nelle sue cinque stagioni tra il 2006 e il 2011, lo show di Peter Berg racconta, proprio come Panic, degli abitanti di una cittadina texana. Anch’essa drammaticamente impoverita. Anche qui, il tema è: come faranno i ragazzi a costruirsi un futuro che li porti lontano dalle miserie di ogni giorno?
Crescere vs. vincere alla lotteria: la sindrome di Peter Panic.
In Friday Night Lights, la risposta è il football. Che a Dillon, Texas, è come la religione. Pur sempre un gioco, direte. E anche piuttosto violento (la serie si apre con un drammatico infortunio). Vero. Ma gli esiti non potrebbero essere più diversi. Lasciamo perdere la complessità sideralmente lontana delle due serie. Friday Night Lights usa lo scenario di una cittadina di provincia per affrontare temi giganteschi della cultura americana, dalla famiglia al razzismo, dalla droga all’aborto, dalle politiche scolastiche alla mancanza di opportunità lavorative ed economiche. Mentre Panic non parla di niente se non dei suoi irritanti e petulanti protagonisti e delle loro ombelicali vicende.
A impressionare è proprio la degenerazione dell’idea di crescita (a cui abbiamo dedicato anche questa puntata del podcast). Da un lato, la necessità del sacrificio, la fatica di accettare i colpi del destino e del mondo, il tentativo di costruire legami che possano reggere alle sfide e alla più grande di tutte, quella di diventare adulti. Dall’altra, l’idea di una sorta di lotteria nichilista: che mi frega di crepare se ho 1 chance su 50 di mettere le mani su un bel gruzzoletto. In realtà, come è chiaro, solo per gli eroi di Friday Night Lights si può parlare di crescita. I debosciati di Panic sono imprigionati in un delirio peterpaniano: ma in cui non sognano neppure di essere i Lost Boys, i bambini sperduti, ma – ahinoi – gli avidi pirati della ciurma di Capitan Uncino.
Nessuno vuole crescere, solo volare sull’isola che non c’è. Chiamatela sindrome di Peter Panic.
Tema n.2: giochi gladiatori e potere. Hunger Games, Rollerball, The Running Man.
C’è poi un secondo tema, che solo brevemente accenno. Ricorrendo a tre esempi di film, a diverso titolo popolari. Il tema è quello delle forme attualizzate di quella vecchia idea che sono i giochi gladiatori: uno spettacolo popolare basato su una cruenta competizione in cui si accetta di mettere in palio la vita.
I tre esempi (ma se ne potrebbero fare altri) sono la recente saga libraria e filmica di Hunger Games (i cui film sono stato diffusi, per ora, tra il 2012 e il 2023) e, più indietro nel tempo, Rollerball (1975) e L’implacabile (1987).
Il primo titolo fa anche da ponte perfetto, perché al centro del racconto sono anche qui dei ragazzi che, in un futuro post-apocalittico, competono in un’arena televisiva da cui solo uno uscirà vivo, ricco, famoso. Differenza: sono costretti a farlo da un regime oppressivo e improntato (fin dal nome dello Stato) a una politica di Panem et Circenses. Contro cui i nostri giovani eroi si ribellano ed elaborano una pur rudimentale filosofia politica alternativa.
In Rollerball (1975) un regime plebiscitario offre al pubblico giochi sportivi sanguinosiIn Rollerball, il mondo del futuro vede un governo totalitario offrire a tutti i cittadini lo stesso irresistibile svago: uno sport incredibilmente violento, che assicura un’infinità di cadaveri ad ogni competizione.
Terzo esempio: L’implacabile (The Running Man), tratto dal romanzo di Stephen King L’uomo in fuga, con Arnold Schwarzenegger. Anche qui, un gioco gladiatorio in diretta tv promette la libertà a chi tra i partecipanti saprà sopravvivere.
Come si vede, in tutti e tre gli esempi ricorre una caratteristica: a organizzare i crudeli giochi è uno Stato totalitario, che compra l’acquiescenza dei cittadini offrendo loro dosi narcotizzanti di violenza. Contro cui i protagonisti possono solo lottare, maturando via via una coscienza sempre più forte del giogo che li opprime.
Panic: voyeurismo, indifferenza, avidità
Avete capito dove voglio andare a parare. I protagonisti dello show di Prime Video fanno ciò che per tutti gli altri eroi sarebbe impensabile: si costruiscono da soli l’arena, le regole, le sfide, la minaccia.
Al contempo, affrontano questa prova non come un rito di passaggio, cioè quel momento liminale in cui si evolve da uno stadio infantile all’età adulta; ma come un gratta e vinci, il cui costo non sia però di pochi spiccioli ma, potenzialmente, della vita. Ed è sbalorditiva la scioltezza con cui affrontano prove suicide, senz’altro pensiero che il miraggio del premio.
E non vi è neppure il voyeurismo altrui come scusa, o causa, o prospettiva: gli adolescenti di Panic mettono in scena lo spettacolo di questa gigantesca roulette russa solo per se stessi. Ma neppure in una forma perversa di piacere: come mero sottoprodotto di un appetito economico. Un quadro di un cinismo e di un’avidità da far tremare i polsi.
Ecco, succede sempre così: a furia di pensarci e di scriverne finisce per venire il sospetto che ciò di cui si è parlato forse, sotto sotto, sia meglio di come ci era sembrato. Più intelligente. Più sul pezzo. Magari perché ha qualcosa da dire su quei fenomeni terrificanti di “challenge” online per bambini e adolescenti che finiscono in tragedia (o in giornalismo sensazionalistico).
Ma no. Basterebbe un’altra mezza puntata di Panic a fugare questo dubbio. E in ogni caso: don’t try this at home, l’ho già fatto io per voi.
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