Scrivere di Obi-Wan Kenobi è una fatica ancora più grande di quanto sia stato guardarla. Cercherò quindi di farla breve. Più breve di quanto mi sia apparsa la miniserie Disney. Sole 6 puntate, neppure molto lunghe, ma che a più riprese hanno fatto pregare per una rapida conclusione. Una fine pietosa delle nostre sofferenze.
Chiariamoci. C’è un sacco di gente a cui lo show è piaciuto. Anche parecchio. E va bene così: i gusti sono gusti. Magari con una frattura tra spettatori più “generici” (cui puntava Disney per guadagnare abbonati?) e veri appassionati dell’universo Star Wars. Che hanno, quasi invariabilmente, masticato amaro. Nonostante le attese altissime, quasi spasmodiche.
Più che del prodotto di fiction Obi-Wan Kenobi, mi interesserà quindi toccare un paio di temi “reali” connessi allo show. Eccoli. I perché di un imprevisto eppure forse prevedibile fallimento. Lo sfruttamento intensivo dell’universo Star Wars. Le colpe del pubblico.
Ma prima, un paio di altri elementi curiosi. In Italia sembra essersi registrata (mi baso su una consultazione empirica di alcune centinaia tra commenti, post, reazioni) una risposta molto più favorevole nel pubblico che nella critica, assai negativa. Internazionalmente la musica sembra essere un po’ diversa. Rotten Tomatoes riporta un gradimento critico all’83%, e solo al 63% da parte del pubblico. Una divaricazione inconsueta per un prodotto di consumo.
Ed ecco un primo problema di “realtà”: la critica ha ormai la pessima abitudine di dare un giudizio basandosi sul primo paio di episodi. La smania di uscire sul pezzo porta a dover affrettare la valutazione. Di fronte alla stagione completa il giudizio sarebbe stato lo stesso? Ne dubito. Non a caso, la politica di Mondoserie è quella di scrivere di un prodotto solo a serie conclusa (o almeno a fine stagione).
Gli anni mancanti di Obi-Wan Kenobi
Intanto, un po’ di contesto. Obi-Wan Kenobi è una miniserie televisiva americana creata per Disney+, che dieci anni fa acquistò il franchise di Star Wars. Ewan McGregor torna a rivestire i panni del leggendario maestro Jedi Obi-Wan Kenobi, riprendendo il ruolo della trilogia prequel di Star Wars. Lo show infatti si colloca, cronologicamente, tra la seconda trilogia e quella classica.
Gli accadimenti prendono piede dieci anni dopo gli eventi di Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith (2005). I Jedi sono stati distrutti dall’Ordine 66 dell’Imperatore. L’apprendista di Obi-Wan Kenobi, Anakin Skywalker (Hayden Christensen), è divenuto il Signore dei Sith Darth Vader. Il malvagio Impero Galattico accresce il proprio potere di giorno in giorno, vessando interi sistemi solari e assoggettandoli alla tirannide.
Kenobi, distrutto per il passaggio al Lato Oscuro del suo apprendista, che considera un fallimento ineludibile, si nasconde sul pianeta Tatooine. Qui veglia sul figlio di Anakin, Luke, la cui nascita è stata nascosta al padre divenuto malvagio. Così come quella della sorella gemella, Leia. Quando la bambina viene rapita dagli Inquisitori che per conto dell’Impero danno la caccia ai Jedi superstiti, Obi-Wan è costretto a lasciare il suo nascondiglio. E a tornare a brandire, a malincuore, la sua vecchia spada laser. Finendo per incrociare nuovamente il suo percorso con quello di Anakin, divenuto ormai Vader.
La miniserie racconta quindi gli anni mancanti. Quelli che separano il giovane e aitante guerriero Jedi interpretato nella seconda trilogia da McGregor dal vecchio maestro quasi zen immortalato da Alec Guinness nella trilogia originaria. Il che sulla carta è fantastico. Ma al contempo è la causa prima dei problemi.
Perché è un fallimento necessario (critica oggettiva)
Il problema è di quelli irrisolvibili. Perché ha a che fare non tanto con la scrittura ma, nientemeno, con i rapporti causa-effetto e la direzione della freccia del tempo. Tanto per lo spettatore quanto nell’universo narrativo di Star Wars. Perché, che diavolo, un universo esiste. E, che lo si ami più o meno appassionatamente, lo si conosce. È dato.
È quello della prima trilogia, la canonica. Un universo in cui, tanti anni dopo la storia che qui si racconta, conosciamo tutti i personaggi: il vecchio Obi-Wan Kenobi, i giovani Luke Skywalker e Leila Organa. Persino il nemico, Vader, è lo stesso. E il discorso si estende alla terza trilogia: in cui i due fratelli Skywalker sono, decenni dopo, ancora vivi.
Discutendo di questo show con un altro dei collaboratori di Mondoserie, Untimoteo (che si è occupato dell’universo Star Wars registrando una puntata del podcast su Star Wars: Visions), è capitato di entrare proprio su questo tema. Riporto le sue eloquenti parole: “Come faccio ad entusiasmarmi per un duello all’ultimo sangue tra Obi e Darth quando so già che all’ultimo sangue non sarà? Come posso temere per le fragili vite dei piccoli Leila e Luke quando so che diventeranno due vecchiacci? Come si fa a partecipare emotivamente di una storia che so già che sarà pressoché ininfluente? Certo questa è solo una parte del disastro – però è un errore che parte dalla sorgente”.
Non è un argomento leggero. Né un giudizio soggettivo. È un problema gigantesco. L’esistenza di un pregresso universo narrativo non amplia di per sé le possibilità: le riduce. Quando poi i protagonisti della storia sono personaggi di cui conosciamo già il futuro, e lo conosciamo benissimo… quanto si può chiedere allo spettatore? Quanto si può far leva sulla sospensione dell’incredulità?
E perché è un fallimento accidentale (critica “soggettiva”)
Il problema oggettivo di Obi-Wan Kenobi è quello. Ma le ragioni per criticarla non si fermano qui, anche se si entra su terreni inevitabilmente più soggettivi. Ma in verità fino a un certo punto. Con un ostacolo così impegnativo da superare, la serie avrebbe dovuto avere qualità stellari per dare piena soddisfazione allo spettatore. Qualità almeno, che so, come quelle dispiegate per The Mandalorian. Invece è letteralmente infarcita di buchi, di errori di continuità, di personaggi che fanno cose che non potrebbero proprio fare, di scenacce scritte da cani. Se ne è parlato già così tanto che non vale la pena ripetere l’elenco delle bestialità, ma ci sono interi episodi che gridano vendetta davanti al dio degli sceneggiatori. Anche qui: non scelte discutibili, ma proprio sbagliate. Non perché non piacciano a me: perché contraddicono le regole dell’universo narrativo cui appartengono.
Una povertà di immaginazione e di scrittura ben esemplificata da uno dei pochi personaggi originali della serie (almeno rispetto ai film): Reva, la Terza Sorella, una degli Inquisitori. Un groviglio di implausibilità e contraddizioni in una confezione di nessun interesse. Così come, ahinoi, i confronti tra Vader e Kenobi. Dovrebbero essere il fulcro emotivo dello show, invece si fa fatica a guardarli senza farsi tormentare da tutto ciò che non torna.
La stessa “povertà” la si respira, ed è incredibile considerando i mezzi e la forza del franchise, nella messa in scena generale dello show. I ringiovanimenti in CGI sono molto sotto lo standard, le ambientazioni non sono mai coinvolgenti, le scenografie producono un effetto “fondalone” che riporta a certe eroiche produzioni di serie B degli anni che furono. La regia di Deborah Chow, che firma tutti e 6 gli episodi, non appare mai all’altezza della sfida. La scrittura di Joby Harold è ancora più deludente.
Obi-Wan Kenobi, l’avidità Disney e le colpe del pubblico
Emerge il sospetto di un’operazione di un cinismo raro. Mettere in campo un asset potente del franchise per conquistare una volta per tutte la legittimazione all’operazione di espansione seriale dell’universo Star Wars che Disney sta facendo ormai da anni. E magari per aumentare il numero degli abbonati. Ora, sia chiaro: neanche per un secondo mi metterò a polemizzare contro il “bieco sfruttamento commerciale”. Disney fa il suo business. Come tutti gli altri. Anche se in un certo senso è come se, comprando la Marvel, la Disney abbia finito per… marvelizzarsi. Ma in questo caso l’errore è stato, credo, di pesatura.
Obi-Wan Kenobi è un personaggio troppo grande, e troppo amato. Non è Boba Fett. Pretendeva, e meritava, più rispetto. E più amore. Più investimento nel lavoro di scrittura. E uno showrunner, e magari un regista, più autoriali – anche a costo di correre dei rischi. Più capaci di scavare nei tormenti di questa iconica e carismatica figura. Anche perché potevano contare, cosa tutt’altro che banale per il genere, su un attore vero come Ewan McGregor, che resta la ragione principale per guardare questo show. Si è costruita invece un’operazione a tutti gli effetti minore, che non resterà nella storia del ciclo – e neppure ne espanderà sensibilmente i significati. Sacrificando non una ma due figure gigantesche (Obi e Vader) per una miniserie deludente.
L’ultima considerazione è per il problema che dicevo all’inizio: il pubblico. O meglio, la sua esagerata, ormai smodata disponibilità. Non è una mera questione di gusti, ed è un problema enorme. Perché un pubblico troppo di bocca buona, disposto a perdonare qualsiasi cialtroneria di sceneggiatura e a ingoiare qualsivoglia contraddizione per il brivido momentaneo di un duello laser tra i due vecchi amici-nemici, è il peggior nemico di se stesso. Sta dando carta bianca agli studios.
E tutto serve concedere agli studios hollywoodiani che un succulento assegno in bianco.
Ancora l’universo Star Wars in due serie: Visions e The Book of Boba Fett