Detective Monk (Monk, 2002-2009), è un giallo seriale a tinte comedy di tipo episodico. La serie americana, creata da Andy Breckman, è composta da 8 stagioni, per un totale di ben 125 puntate. Monk ha vinto la bellezza di otto Emmy. Il suo ultimo episodio è stato il più seguito nella storia della televisione via cavo statunitense (record poi battuto da The Walking Dead e quindi da Game of Thrones). In Italia è ora su Netflix e, fino a fine giugno 2024, su Sky e Now.
Protagonista assoluto di questo originale poliziesco è il detective privato Adrian Monk (Tony Shalhoub – La fantastica signora Maisel), vincitore di 3 Emmy e un Golden Globe per la sua interpretazione. Un tempo apparteneva al corpo di polizia di San Francisco – dove la serie è ambientata – per cui ora fa spesso il consulente investigativo della Omicidi. Il capitano della Omicidi Stottlemeyer (Ted Levine – L’alienista, ma anche Ray Donovan) è anche il suo migliore (e unico) amico.
La peculiarità di questo investigatore – e dunque dello show – è il suo disturbo ossessivo compulsivo. Al limite della schizofrenia, Monk possiede la maggior parte delle fobie identificate dalla psichiatria contemporanea. Ha paura ad esempio dei germi, della folla, del vuoto, dell’altezza, del contatto. E del latte (sic). A questa enciclopedica fobia di ogni cosa, si accompagna in Adrian il bisogno assoluto di ordine e simmetria. Ciò che in Poirot è per lo più un vezzo estetico, in Monk è una disperata necessità. Un impulso che lo spinge a cercare di sistemare tutto ciò che lo circonda, in modo da poter appaiare, livellare, quasi inquadrare la stessa realtà.
L’origine delle fobie di Monk
Ad accompagnarlo vi è sempre l’immancabile assistente / infermiera / colf, ovvero Sharona (Bitty Schram), a cui si avvicenderà a metà serie circa Natalie (Traylor Howard). Questo personaggio femminile indossa all’occasione i panni di Watson ed è al contempo il suo pragmatico contatto con la realtà. Il nostro detective è infatti tanto acuto nelle deduzioni quanto incapace di relazionarsi al prossimo. Totalmente incapace: ricorrente è la salvietta che lei deve dargli dopo qualsiasi suo contatto con un essere umano (ad esempio una stretta di mano). Sharona e Natalie devono spesso anche agire per conto di Monk, che tende a bloccarsi e paralizzarsi di fronte a qualsiasi innocua (per gli altri) variabile. Ad esempio, una strada che egli abbia ritenuto essere troppo polverosa, diventa un ostacolo insormontabile. Va da sé che la sua realtà è piena di pericolose insidie e ostacoli insormontabili.
Senza la paziente mediazione della sua assistente, Adrian sarebbe semplicemente perduto. La sua condizione, che lo ha costretto a lasciare la polizia, si deve ad un crollo psicotico avvenuto tre anni prima, in seguito al misterioso omicidio della moglie Trudy. Questo è il caso che naturalmente lo perseguita nel corso delle stagioni, fino alla sua risoluzione nel finale della serie.
Un incrocio tra Holmes e Clouseau…
Adrian Monk è un incrocio tra Sherlock Holmes (qui la puntata del podcast “Holmes e dintorni”) e l’ispettore Clouseau (entrambi, in particolare Clouseau, riferimenti per l’ideazione della serie). In questa inedita sintesi di personaggi, la naturale antipatia che solitamente ispira il primo è neutralizzata dall’estrema goffaggine del secondo. La sindrome sociopatica di Monk non ha risvolti drammatici, tende anzi ad ispirare una profonda e segreta simpatia. In fondo rappresenta una parte, più o meno nascosta, in ciascuno di noi: quella che non sopporta l’insensato caos del mondo e l’assillante fastidiosa presenza degli esseri umani.
Adrian Monk sogna un mondo in cui tutto sia perfettamente ordinato secondo precise progressioni numeriche (niente di complicato, basta andare dall’uno al dieci). E in cui tutto sia pulito e disinfettato. Un mondo in cui ogni parola, pronunciata correttamente, con un tono gentile e pacato e con buona dizione, abbia sempre un senso compiuto. Un mondo in cui causa ed effetto dovrebbero susseguirsi in modo lineare e, nel caso si presentasse una qualche variabile, questa venga regolata da una sorta di semaforo ontologico. Non potendo vivere in un tal paradiso cartesiano, Adrian è il tipo che ogni giorno passa l’aspirapolvere, poi usa una spazzola per pulire l’aspirapolvere, e un’ultima per pulire la spazzola con cui ha pulito l’aspirapolvere.
In un certo senso Monk è l’uomo più ordinario della terra (nel senso pieno del termine). Ed è proprio questa sua maniacale attenzione al dettaglio, a ciò che non quadra o non è al suo posto, a renderlo un genio deduttivo senza pari. Ovvero a permettergli di risolvere qualsiasi rebus delittuoso. Perché in questa serie, come in tante altre del genere (su tutte Colombo), ogni omicidio è il frutto di un (più o meno) elaborato ingegno.
… con una nota di Colombo e Poirot.
“Ecco cosa è accaduto…” queste le parole con cui, alla fine di ogni episodio, ricostruisce la corretta dinamica degli avvenimenti – altra cosa che ricorda molto Colombo. Come il fatto che l’assassino sia chiaro sin da subito: smascherare il colpevole (whodunnit) non è il focus della narrazione. Del resto, altra cosa fortemente colombiana, la morte in Monk è totalmente sdrammatizzata, priva di qualsiasi pathos. Ha la stessa valenza che ha nel Cluedo.
Un’ultima caratteristica colombiana (comune invero a tutti gli investigatori classici e squisitamente deduttivi, come Poirot): Monk non usa pistole o coltelli, né tantomeno le arti marziali. Non c’è azione adrenalinica, tipo sparatorie, inseguimenti e compagnia bella. Ma ci sono tante situazioni surreali e grottesche. Talvolta potenziate dalla presenza di guest star come Snoop Dogg e John Turturro (nei panni del fratello di Adrian).
In sostanza Monk è uno dei detective più improbabili che vi siano: le sue manie e le sue fobie da un lato sono il motore risolutivo del giallo, dall’altro sono anche il motore comico della storia. Non si tratta semplicemente di vedere come troverà il colpevole, ma come lo troverà nonostante il fatto che è Adrian Monk. Un tizio il cui istinto sarebbe quello di pulire la scena del crimine da impronte e macchie di sangue, semplicemente perché la sporcizia è intollerabile.
Monk e noi: le sue idiosincrasie, le nostre.
“It’s a jungle out there” canta Randy Newman nella bella sigla iniziale. Fuori è una giungla. Non è vero per tutti? Monk, dicevamo, è un idiota geniale. Noi siamo tutti idioti. Nel senso in cui ognuno resta chiuso, più o meno consapevolmente, nel suo particolare mondo di idiosincrasie. Monk riesce a decifrare genialmente la realtà proprio in virtù delle sue idiosincrasie. Per questo è, fino ad un certo punto, tollerato. Addirittura protetto.
Come spettatori è quindi facile empatizzare con questo bizzarro e disastrato caso umano. Nella segreta speranza che anche ognuno di noi, nonostante le paure e le intolleranze, nonostante l’inadeguatezza nei confronti degli altri e della realtà, sia in qualche modo giustificato ad essere quello che è.
Finché c’è Monk, il monaco che fugge da tutto e a cui niente può sfuggire, c’è speranza per la mediocrità di tutti.
Poirot e il (nostro) bisogno di rimettere in ordine il mondo