Modern Family (2009-2020), creata da Christopher Lloyd e Steven Levitan, è una delle sit comedy più popolari del nostro tempo; e a buon diritto. Purché non vi si cerchino dentro cose che non ha: tipo il coraggio. O l’anticonformismo. O, a dispetto del titolo, una vera “modernità”. A guardarla una puntata alla volta, ha persino un valore lievemente terapeutico: restituendo fiducia in un’idea del mondo stabile, immutabile, profondamente rassicurante.
Sul primo punto – il successo – parlano alcuni fatti. L’enorme seguito mondiale, culminato in alcuni momenti in una distribuzione su più piattaforme (oggi in Italia le 11 stagioni sono su Disney+, ma fino a poco tempo fa facevano capolino anche su Netflix e Prime Video). O i 22 Emmy raccolti durante la sua corsa sulla rete americana ABC. E, meglio ancora, il fatto che lo show abbia vinto l’Emmy per la miglior commedia in ognuno dei suoi primi 5 anni di messa in onda.
11 stagioni, 22 Emmy, miglior commedia in ognuno dei suoi primi 5 anni
O ancora, i remake esteri, o il recente cospicuo omaggio tributato da quel divertentissimo discorso meta-testuale costruito a inizio 2021 da WandaVision (vero viaggio domestico-paranoico attraverso 60 anni di show familiari a stelle e strisce, che non poteva che concludersi dalle parti di una serie come la nostra).
Di cosa parla Modern Family
Grande successo, quindi: ma perché a buon diritto? In parte, ma solo in parte, è per trama e ambientazione. La Modern Family del titolo è una famiglia allargata, fatta di tre gruppi assai diversi. C’è la famiglia nucleare tradizionale: madre, padre, tre figli di età e sessi differenti. C’è la famiglia omosessuale, composta da due uomini che presto decidono di adottare una bambina (vietnamita). E infine c’è la famiglia mista: coppia di seconde nozze, lui ultra yankee, lei sudamericana esplosiva con un figlio di primo letto; e, più avanti, una nuova nascita.
A legare i tre nuclei è il rapporto tra il patriarca Jay Pritchett (Ed O’Neill), la figlia Claire (Julie Bowen), il figlio Mitchell (Jesse Tyler Ferguson). Ciascuno, ovviamente, ha le proprie caratteristiche uniche: difetti, tic, abitudini. E ogni nucleo ha i propri problemi. Il patriarca, neo-pensionato in crisi di identità, con la procace e chiassosa giovane moglie colombiana (Sofia Vergara) e il di lei complessatissimo figlio (Rico Rodriguez). Claire e Phil Dunphy (Ty Burrell), genitori che vedono i figli via via diventare grandi e andarsene. Mitch e Cam (Eric Stonestreet), la coppia gay alle prese con le difficoltà del crescere una bimba, peraltro asiatica. Ma tutto, sia chiaro, con le dinamiche e nello stile appunto di una sitcom: ritmata, divertente, leggera. Anzi, leggerissima.
In questa leggerezza che sconfina con l’evanescenza risiedono sia il punto di forza che il limite dello show. Che è in realtà molto più conservatore, e assai meno moderno, di quanto possano far pensare il titolo e una lettura immediata del suo “elogio della diversità”, di spirito apparentemente inclusivo e progressista. Specie nella prima metà della sua corsa.
L’obiettivo dichiarato di dare rappresentazione alla mutevole, complessa e piuttosto fluida natura della famiglia occidentale d’oggi, è, appunto, solo apparente. A conti fatti è quasi più una giustificazione programmatica. O uno specchietto per le allodole.
Una famiglia moderna. O no?
Esempio: non c’è, in tutte le prime stagioni, una donna che lavori, autonoma, che riesca ad avere successo al di fuori della famiglia. La dimensione domestica è l’unico orizzonte femminile, a cui persino le figlie giovani faticano a sfuggire. La seconda metà di Modern Family vira in modo piuttosto brusco: tutte le figure femminili adulte trovano un proprio successo professionale, e ad arrancare sono i maschi. Una vistosa e quasi brutale correzione di rotta, considerando che la serie è iniziata ampiamente nel nuovo millennio, non nel secolo scorso.
Un secondo esempio: una coppia omosessuale sopra le righe in tutto e per tutto, e persino spesso macchiettistica, tranne che nelle effusioni, pudicamente (o opportunisticamente) assenti. Solo dopo la prima stagione, anche sull’onda delle proteste delle associazioni LGBT, sono stati introdotti correttivi. Peraltro solo parziali: qualche accennata manifestazione affettiva anche tra i due partner maschili, ben lungi comunque dalla più esplicita presenza della sfera erotica nelle coppie eterosessuali.
O, in termini ancora più radicali, il ritratto di relazioni di coppia davvero inossidabili, inscalfibili, capaci di reggere a tutto e a tutte e 11 le stagioni. Eterne e in fondo solide persino negli elementi più giovani e quindi teoricamente dinamici o aperti a mutamenti (il boyfriend ricorrente della figlia più grande dei Dunphy, che la accompagnerà, tra alti e bassi, per un bel po’ delle 11 stagioni, fino al più ovvio degli esiti).
Famiglia moderna? Fino a un certo punto.
Insomma: famiglia moderna? Fino a un certo punto. Quello tollerabile dal gusto del pubblico più largo, a cui non interessa prospettare scenari né troppo complessi né troppo delicati: giusto quel che serve per strappare una risata, e far scivolare i 22 minuti dell’episodio tipo. Con una messa alla berlina che non è mai, neppure per un momento, realmente graffiante, la famiglia finisce così per essere bonariamente e affettuosamente esaltata: baricentro immutabile della società umana, unica àncora di salvezza, sola certezza in un mondo altrimenti incomprensibile, faro acceso nel buio della notte (come sottolinea in modo poetico l’ultimissima sequenza dello show).
Le cose buone e le stagioni da evitare
Fa il resto il solito gran cast d’insieme della tv americana, fatto di eccellenti interpreti tanto tra gli adulti quanto tra i ragazzi. Con una menzione speciale per il Phil Dunphy di Ty Burrell e la Claire Dunphy di Julie Bowen, padre e madre della famiglia più “normale” della variegata e scoppiettante tribù. E per la Gloria di Sofia Vergara, debordante, chiassosa, furbissima, pressoché incomprensibile latina trapiantata a Los Angeles.
Così come qui è particolarmente azzeccata la scelta di ricorrere alla tecnica del mockumentary. Il falso documentario, che consente di intervallare le varie azioni e disavventure della vasta famiglia a frammenti di interviste in cui, seduti su un divano, uno o due dei personaggi offrono il proprio punto di vista su quanto abbiamo visto, con effetto contrappuntistico straniante ma soprattutto comico. O di far interagire occasionalmente i personaggi direttamente con la telecamera. Con sguardi in macchina che diventano in realtà sottolineature dirette e ironiche allo spettatore.
Un formato, in ambi i casi, popolarizzato pochi anni prima da The Office (versione inglese e americana). E che rende, di fatto, il montaggio vero protagonista strutturale dello show: lo strumento principe attraverso cui far interagire i personaggi con le aspettative e la curiosità del pubblico.
Divertimento scacciapensieri piuttosto godibile, e con ragionevole costanza – considerando che parliamo di 250 (duecentocinquanta) puntate. Se volete risparmiarvi qualche stagione, saltate senza rimpianti la 4, la 7, la 8, la 9, in larga parte sature di idee riciclate o stiracchiate, e letteralmente date in pasto ai personaggi. Apprezzerete ancora di più il sempre spiazzante effetto di invecchiamento di attori (e personaggi) nel corso delle molte stagioni, e percepibile al colpo d’occhio nell’evoluzione delle sigle di inizio nel corso degli anni.
Una reazione conservatrice alla crisi della famiglia tradizionale
Senza svelare nulla, il già citato finale chiarisce una volta per tutte la natura sostanzialmente conservatrice dello show: che non a caso fu salutato, nella sua stagione d’esordio, come “il ritorno trionfale della family comedy”. E di tutti i suoi valori tradizionali, messi fortemente in dubbio da quelle trasformazioni profonde della realtà che la tv ha come sempre tradotto, introducendo un topos che è presto divenuto di massa: la famiglia disfunzionale. Di cui qui non vi è pressoché traccia, nonostante sia oggi così onnipresente da aver invaso anche la sfera supereroica (ne abbiamo parlato qui a proposito di The Umbrella Academy e qui di Jupiter’s Legacy).
Modern Family è così una reazione conservatrice – chiara, ideologica, programmatica – alla messa in crisi dell’idea di famiglia come “nucleo sociale fondamentale”. La sua presunta “modernità”, scopertamente rivendicata fin dal titolo, è in realtà un puro atto di travestimento.
In fondo, resta una commedia sulle famiglie e per famiglie, rivestita di quante più possibili apparenti “novità”. Non per complessificare e problematizzare il tema familiare ma al contrario per renderlo appetibile (attualizzato, spolverato) per un pubblico che si considera, e si pensa con compiacimento, evoluto.
Modern Family, moderno Gattopardo?
Un pubblico che però cerca alla fine sempre la stessa cosa: un intrattenimento lieve, discreto, senza spigoli e senza tempo, per un mondo che non deve cambiare mai. In cui novità e trasformazioni sociali, purché non eccessive, vengono digerite senza mai intaccare la struttura profonda del totem familistico che gli autori – dietro l’apparente parodia – riconsacrano.
E in questa sorprendente, consolatoria, un po’ ossessiva e in fondo ben poco moderna idea di una fissità quasi sacrale della famiglia la serie finisce per diventare, per così dire, “italiana”.
Come si diceva ne Il Gattopardo, «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ma solo, sia chiaro, in superficie.
Giudizio: intrattenimento senza spigoli e senza tempo.
Una famiglia disfunzionale ben più radicale: Arrested Development
Arrested Development, la miglior sitcom di sempre? | PODCAST
Una disastrata famiglia comica: Shameless
https://www.mondoserie.it/shameless-lunga-magnifica-commedia-senza-filtri/