Mindhunter è una serie televisiva statunitense (Netflix 2017-19) creata da Joe Penhall e prodotta da Charlize Theron e David Fincher (già regista di Fight Club, Seven e The Social Network). La serie, interrotta dopo 2 stagioni (19 episodi dai 35 ai 75 minuti) è liberamente ispirata al libro di memorie scritto da John Douglas e Mark Olshaker – Mindhunter: Inside the F.B.I.’s Elite Serial Crime Unit (in it. La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano). La cancellazione è dovuta ai costi di produzione per una terza stagione, che sarebbero stati troppo elevati. Con buona pace, purtroppo, di chi si era appassionato a questa raffinata serie, che abbiamo discusso anche in questa puntata del podcast.
Se a Charlize Theron pare si debba l’intuizione originaria per la creazione di Mindhunter, molto della sua realizzazione di deve invece a David Fincher, che come regista firma anche quattro dei dieci episodi della prima stagione. Fincher, che è anche dietro House of Cards – la prima grande serie firmata Netflix -, si era già cimentato in un film su un serial killer. Mi riferisco a Zodiac (2007), crime thriller dall’approccio rigorosamente inedito, poiché incentrato sulle indagini e sugli investigatori, invece che sugli omicidi e sull’azione.
Il pluripremiato regista si affianca quindi a nomi come Soderbergh (The Knick), Scorsese (Vinyl) e altri cineasti che si sono cimentati con il formato seriale. Continuando così a dare sempre più autorialità alle serie televisive – fenomeno iniziato in tempi di certo non sospetti con la mitica Twin Peaks del compianto David Lynch (alla cui scomparsa Mondoserie ha dedicato questo pezzo).
Le origini del serial killer
La figura del serial killer, divenuta centrale nelle produzioni filmiche (su tutti Il silenzio degli innocenti) e seriali (Dexter, Hannibal, The Fall – solo per citarne alcuni) degli ultimi decenni, risale agli anni ’70. Il merito è essenzialmente di pochi audaci e abili studiosi di scienze comportamentali all’interno del Federal Bureau of Investigation. Furono proprio questi a coniare la stessa espressione di ‘serial killer’ (tecnicamente chi uccide almeno due persone in due momenti distinti).
Nella realtà i loro nomi erano John E. Douglas, Robert Ressler e Ann Wolbert Burgess. Assieme pubblicarono Sexual Homicide – Patterns and Motives, libro fondamentale per la storia della criminologia investigativa. Nella serie hanno i nomi, nell’ordine, di Holden Ford (Jonathan Groff – Looking), giovane negoziatore di ostaggi, Bill Tench (Holt McCallany – Law & Order: Criminal Intent), navigato agente speciale, e della professoressa universitaria Wendy Carr (Anna Torv – Fringe).
Nel 1977 l’intuizione che li riunisce in un unico team: quella di intervistare psicopatici pluriomicidi, ospiti delle diverse carceri statunitensi. L’obiettivo è individuare le diverse dinamiche comportamentali, per poter in seguito costruire un nuovo modello d’indagine. La profilazione (da cui la figura del profiler, vedi serie come Criminal Minds) o meglio, come diciamo anche noi – il profiling -, si avvale della psicologia per identificare le diverse motivazioni e le diverse metodiche dei maniaci omicidi. Attraverso la conoscenza delle diverse tipologie di serial killer si può compilare un identikit, in base alle caratteristiche degli omicidi compiuti, in grado di facilitare così la cattura dell’assassino seriale in questione.
Mindhunter – i cacciatori della mente
I nostri ricercatori hanno poche risorse e devono vedersela con l’ostilità dei colleghi della vecchia scuola. I quali credono che approfondire questo tipo di materiale sia un lavoro da pervertiti. In effetti i tre si muovono in un mondo di violenza apparentemente irrazionale, i cui meccanismi di funzionamento sono avvolti nell’oscurità più totale. Ma i ricercatori sono fortemente determinati a fare luce in questo nuovo territorio. Eccoli allora seguire un rigoroso piano d’azione, che va dalle interviste programmate nelle prigioni ai brainstorming effettuati in seguito sulle informazioni così ottenute. Che vengono infine analiticamente catalogate e schedate.
Questa serie non indugia visivamente con la mostruosa e sanguinaria follia di questi assassini, piuttosto la racconta. Il titolo stesso – Mindhunter (letteralmente ‘cacciatore della mente’) indica che la ricerca avviene a livello psicologico, non fattuale. Si tratta di scovare le ragioni profonde, spesso inconsapevoli, che stanno dietro i macabri rituali di questi criminali deviati. I serial killer vengono qui totalmente privati del morboso fascino di cui sono di solito ammantati, almeno dai tempi di Hannibal Lecter. I dialoghi di Mindhunter riproducono fedelmente le conversazioni che i ricercatori ebbero negli anni ’70 con Kemper & company.
Tutta la serie è talmente basata su resoconti reali, da avere quasi un taglio di tipo documentaristico. Anche la rappresentazione dei serial killer è estremamente curata. Il lavoro degli attori su voce, gesti e portamento è semplicemente impressionante. I loro resoconti non lesinano sui particolari più scabrosi. Del resto, conosciamo questi delitti solo attraverso le parole di questi maniaci e le disturbanti foto di repertorio. Nonostante l’assenza di azione adrenalinica, inseguimenti all’ultimo respiro e sparatorie all’ultimo sangue, la tensione narrativa rimane comunque sempre molto alta. E si deve proprio ai racconti effettuati con nonchalance da questi psicopatici.
L’abisso, come sempre, ricambia
Ma in Mindhunter non ci sono solo i serial killer. Molto spazio viene infatti dato alla psicologia dei protagonisti e a come le loro vite vengano condizionate dal loro sguardo fissato, per così dire, sull’abisso. L’abisso, come sempre, ricambia – e chi si avvicina al fuoco corre il rischio di bruciarsi. Holden, il più intuitivo ma anche il più damerino tra i tre, viene completamente suggestionato dalla sua stessa ricerca. Abbandonandosi sempre più, anche sessualmente, al suo lato oscuro, il giovane comprende non essere poi così grande la distanza tra maniaci psicopatici e persone normali.
Dalle sue indagini sembra sorgere un concetto chiave, che sarà assai inviso al Bureau del tempo. Già nel primo episodio, citando Durkheim, si dice: “se c’è qualcosa di sbagliato nella società, la criminalità ne è una diretta conseguenza”. Dietro ogni serial killer sembra nascondersi un trauma vissuto nell’infanzia, spesso da ricercarsi nel rapporto con la madre. Non si è mostri per nascita insomma, ma lo si diventa per terribili infanzie negate.
Holden deve confrontarsi con il veterano Bill, che ha problemi di relazione con l’autistico figlio adottato. E con Wendy, poco incline a credere nell’intuizione e costretta a nascondere la propria omosessualità. I tre si troveranno non di rado a litigare tra loro, attraverso interessanti confronti dialogici sull’etica e sulla psicologia. Tra i vari assassini intervistati – David Berkowitz, Charles Manson, Richard Speck, Jerry Brudos, Montie Rissel – spicca la figura di Edmund Kemper (Cameron Britton – Barry), l’assassino di studentesse che aveva ucciso anche la madre. Il suo abbraccio finale ad un tremante Holden è incredibilmente dolce e terrificante al contempo.
Mindhunter, stagione 2 (purtroppo non 3)
Nella seconda stagione di Mindhunter, tra i momenti più interessanti vi è l’intervista con Charles Manson (Damon Herriman – Justified), anche se non ha mai ucciso nessuno. Secondo Manson il male era già insito nei giovani di buona famiglia che è riuscito a corrompere. Lui si è limitato a facilitarne l’epifania. Il male e l’oscurità sono già dentro ognuno di noi. Altrettanto significativo è anche l’incontro con David Berkowitz (Oliver Cooper – Californication), meglio noto come Son of Sam (vedi il nostro pezzo sul documentario The Sons of Sam)
Nella seconda stagione inoltre Holden, Bill e Wendy avranno l’occasione di testare la validità delle proprie teorie, affiancando la polizia nelle indagini relative agli omicidi di Atlanta. Nella capitale della Georgia, tra il 1979 e il 1981, vennero infatti ritrovati morti quasi trenta ragazzini, tutti afroamericani. Il pregiudizio delle stesse forze dell’ordine incolpava aprioristicamente il Ku Klux Klan. I nostri questa volta sembrano avere l’appoggio dell’FBI, che vorrebbe mostrare i nuovi metodi all’avanguardia. Ma tra i tre le intuizioni brillanti si alternano a buchi nell’acqua e a visioni spesso discordanti. E talvolta pensare in modo trasversale può rivelarsi pericoloso. La testarda superbia di Holden rischia qui addirittura di sabotare l’intero caso. Bill deve anche affrontare il coinvolgimento del figlio in un caso di omicidio. Wendy infine realizza la propria infelice inclinazione a psicanalizzare tutto e tutti.
L’algida dottoressa Wendy, lo scettico Bill, l’esaltato bravo ragazzo Holden sono le tre prospettive da cui guardiamo di volta in volta l’uno o l’altro serial killer. Immergendoci assieme a loro nei territori incerti e oscuri di queste menti malate e maniacali. Che appartengono però a narcisisti infantili e bisognosi di attenzioni. Capaci di affermazioni come: “Non è facile, massacrare la gente. È un lavoro duro…” Più duro ancora, probabilmente, il lavoro di cercare di capirne il per come e il perché. La profilazione. Una profilazione purtroppo incompiuta, data la terza stagione negata…
Su Mindhunter ascolta anche il nostro podcast a due voci!
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