La virtù dei forti, notoriamente, è la pazienza, altrimenti conosciuta come capacità di sopportare la frustrazione – o la noia. Il criminal drama Mayans M.C. (uscita in Usa su FX nel settembre 2018 e distribuita in Italia da Fox via Sky, oggi in lavorazione per la quarta e ultima stagione) è come un diesel: parte a giri bassi, senza sprint, circospetto, come a voler accentuare anziché scacciare l’ombra della celebrata e rimpianta Sons of Anarchy, di cui è lo spin-off.
Mayans, spinoff di Sons of Anarchy.
L’ideatore della serie sul club di motociclisti con capitale l’immaginaria Charming, in California, il poliedrico testa calda Kurt Sutter, nello sceneggiare il gruppo di etnia latina originariamente rivale dei Samcro assieme a Elgin James (un altro che conosce anche meglio la vita delle gang di strada, avendone fondata una negli anni ’80, la Friends Stand United, contro il razzismo e lo spaccio di droghe nei concerti rock), che l’abbia scelto o no ha sfornato sulle prime una vicenda senz’altro ben congegnata, ma priva di quegli elementi coinvolgenti, a presa rapida, che avevano fatto fatto il successo dei figli dell’anarchia.
Ritmo spiazzante, efferatezze e soprattutto il contorno, che non è un contorno, di umanità bizzarra ed eccentrica e di devianza divertente, pittoresca, freak, nelle puntate d’esordio mancano pressoché completamente. A parte un volto “minore” ripescato quasi fosse un contentino, un fan devoto di Jax e Gemma Teller deve armarsi di fiducia e aspettare, magari con il conforto di qualche sano bicchierino ingollato come stazionasse al bancone della clubhouse, in attesa di eventi.
Verrà ripagato. L’intreccio si snoda in sordina dalle polverose sabbie della caliente zona di confine fra Usa e Messico, a Santo Padre, mettendo subito sul piatto una differenza di non poco conto nell’inevitabile confronto con SoA (Sons of Anarchy): lo sfondo politico, il tema dell’immigrazione, il muro rafforzato da Donald Trump. L’altra, che sviluppa come in una metonimia la presenza accennata dei traffici di eroina amati/odiati dai Teller, è l’onnipresenza dei cartelli di droga, quello dei Galindo in particolare.
Personaggi in lotta contro il destino.
Uno dei personaggi di prima linea è una ribelle che accudisce e organizza come un piccolo esercito gli orfani vittime degli spacciatori internazionali. È da Adelita (Carla Baratta), donna tragica senza sfumature, sorta di Medea esacerbata dall’odio mai stemperato da qualche pausa ironica, è da lei che prende l’abbrivio la concatenazione di fatti che aprirà letteralmente la strada al rombo delle Harley della coppia-fulcro di Mayans, i fratelli Ezechiel (Jorge Daniel Pardo) e Angel Reyes (Clayton Cardenas).
Ez (in inglese suona come “easy”, tipo facile, alla mano) si è fatto la sua brava galera gravosa di ricordi insanguinati per aver ucciso non intenzionalmente un poliziotto. La sua personale tragedia è dare un volto all’assassino e soprattutto al mandante dell’assassinio di sua madre, finendo per questo a collaborare con una vecchia conoscenza dei Sons, lo strambo procuratore Lincoln Potter (Ray McKinnon).
Assieme al fratello maggiore Angel, più immaturo e impulsivo, e al padre Felipe, impareggiabile maschera di cicatrizzato dolore (un monumentale Edward James Olmos), forma un triangolo familiare che torna sul conflitto psicologico che ossessiona il Sutter: l’inesorabilità del destino, ovvero quanto più si cerca di sfuggire alla fatalità del proprio demone interiore, tanto più ci si cade dentro. Chiaramente non uscendone vivi.
Mayans: un’epopea che parla di comunità.
La stagione iniziale di Mayans mette le carte in tavola, come una lunga (un po’ troppo lunga) introduzione. Dalla seconda, non solo l’azione prende il volo, ma finalmente i caratteri via via assumono contorni più marcati, aprendosi all’occhio di chi guarda nel ventaglio delle loro contraddizioni e peculiarità (uno su tutti, l’ex tiratore scelto Coco, il più disastrato ma anche più simpatico della compagnia, avviato a una discesa agli inferi che ammicca all’americanissimo topos libertario delle enclaves hippie di disadattati nel deserto); non senza il cameo piacione, a far da richiamo per il pubblico deluso dei SoA, di sostanziose apparizioni dei biker con l’angelo della morte sulla schiena.
Nella terza, poi, il gusto per la ritrovata leggerezza e per le singole personalità (non tutte ben riuscite, alcune sbozzate al minimo o addirittura abortite) esplode, riportando la vena creativa suppergiù agli antichi fasti. Spoilerando un po’, si potrebbe anticipare che uno dei filoni narrativi che erano stati appena citati nei SoA e che qui, invece, vengono approfonditi con un tocco di feroce sensibilità, è il ruolo dei prospect, gli aspiranti all’agognata toppa che sancisce l’appartenenza alla “famiglia” su due ruote. Il protagonista Ez inizia così, da obbediente factotum, e sarà la sua intelligenza e delicatezza a offrire la possibilità a un altro di scoprire drammaticamente il significato di sentirsi parte di “qualcosa di più grande di se stessi”, con un esito commovente ma anche problematico (gli altri membri non capiranno l’accaduto, che non riveliamo; lui sì).
Il messaggio di queste piccole epopee da gangster in giubbotto sta nel trasmettere un senso di comunità, perduto in quell’unica immensa metropoli anonima che è la civiltà del denaro
Perchè il messaggio di queste piccole epopee da gangster in giubbotto sta precisamente qui: nel trasmettere un senso di comunità perduto in quell’unica immensa metropoli anonima che è la civiltà del denaro e dell’individuo abbandonato a sè stesso. Appartenere a un gruppo, con le sue regole e la sua disciplina fino alla morte, in pratica diventa un atto di sedizione criminale, oggi.
Bikers che citano Jung, guerrieri, boss saggi.
Ez, pietra angolare del plot, è caratterialmente costruito per smentire il luogo comune del duro tutta violenza, istinto, vizio e poco cervello. Lui di cervello ne ha anche per gli altri e, in modo diametralmente opposto alla Grande Madre possessiva e crudele di Jax Teller, è all’influenza materna che deve il suo buon uso leggendo letteratura e poesia, allenando la mente. Sarà di certo raro trovare un aitante biker che sa menar le mani e sparar pistolettate capace pure di buttar lì, al momento opportuno, una citazione di Carl Gustav Jung; ma altrettanto certo è che la forza dell’immaginazione risiede proprio nell’inaspettato, nell’unicità che infrange gli idealtipi scontati.
Il suo alter ego, il capo del cartello Miguel Galindo (Danny Pino), conoscerà patendo la natura marcia e ingannatrice dell’unico vero amore della sua vita, la mamma, e se tanto ci dà tanto, nella quarta parte i due lati dello specchio verranno a incontrarsi, mostrando la coincidenza degli opposti che è il cuore del genere tragico.
Menzione d’onore va alla schiera dei guerrieri più navigati seduti al tavolo incastonato con il simbolo maya. Innanzitutto l’immortale Marcus Alvarez (un sublime Emilio Rivera), il fondatore e presidente nazionale (“El Padrino”, in gergo): già apprezzatissimo in Sons of Anarchy, il saggio boss tutto d’un pezzo dimostrerà quanto valga la fede che anima un club, quel senso di fratellanza che conduce fino al rischio estremo. La sorpresa, però, la regalano il presidente del chapter locale, Bishop (Michael Irby), che sfodera una grinta e delle pose d’acciaio che non hanno nulla da invidiare a quel ceffo di Clay Morrow (il mitico Ron Perlman, il patrigno di Jax in Sons), e forse, ancor più per la recitazione di un attore pregiato come Raoul Trujillo, il suo vice Taza, che racchiude un segreto che questo sì, c’era prima o poi da aspettarsi saltasse fuori, a far emergere una issue socialmente, ormai, obbligata (omissis, per non bruciarvi la scoperta). Niente male la sotto-storia di Hank detto El Pacificador, il ligio sergeant-at-arms che vive con la madre, un buono che ricorda con assoluta verosimiglianza tanti biker rocce fuori ma petalosi dentro.
Il confronto tra Mayans e Sons of Anarchy.
I Mayans scontano il limite del continuo raffronto con i Samcro, di cui sono una versione meno scoppiettante e meno trascinante, calata in un contesto più aspro ma anche, per certi versi, più suggestivo. Credendoci di più, come si dice in questi casi, la gemmazione avrebbe potuto dare di più. Ma se ci si mette buoni a seguire il filo, senza grandi aspettative su prodi stranezze e colpi di scena, alla lunga distanza ri-dona almeno il sentore di atmosfere di regolare sregolatezza. Che è quel che vogliamo vedere quando di mezzo ci sono tipacci con il ghigno beffardo del fuorilegge.