Love Death & Robots torna con il suo, assai fascinoso, secondo volume di 8 episodi. E il futuro che ci racconta è, rispetto alla prima stagione, ancora più dark, più aspro, più disperato – e insieme meno poetico. Impoverimento espressivo o scelta filosofica?
Love Death & Robots: finger food sull’animazione mondiale.
Intanto, un po’ di inquadramento. Quando uscì il primo capitolo, esattamente due anni fa, fu una folgorazione. Lo show Netflix si ritagliò immediatamente uno spazio prezioso, come un prodotto per molti aspetti del tutto unico. Una serie animata antologica per adulti, di ambientazione fantascientifica, che era in grado di piacere ben al di là del recinto degli appassionati del genere, riuscendo ad avvicinare nuovi pubblici all’animazione.
Grazie a una formula brillante e al contempo furba. Intanto il formato antologico: con ogni breve puntata (dai 6 ai 17 minuti) del tutto autonoma, si possono proporre allo spettatore medio (e occidentale) storie e visioni molto diverse, senza imporgli il prezzo di un impegno narrativo da decine o centinaia di episodi. Quasi degli assaggi, o meglio: degli appetizer.
Coerentemente, tutte le puntate sono affidate a registi e case di produzione differenti: ciascuna portando uno sguardo, una poetica, una tecnica diversi. E così consentendo, sempre in quella logica da finger food che si diceva, una piccola abbuffata: utile anche ai non esperti per farsi un’idea delle tendenze dell’animazione mondiale.
Amore, morte e robot. E poi, David Fincher.
Terzo elemento di forza: una scelta tematica di sicura presa, attorno al trinomio Amore, Morte, Robot. Ogni puntata esplora così uno o più dei tre temi. Tanta violenza e tanto sesso, assieme alla rappresentazione distopica del mondo futuro che ormai è la cifra dominante della fantascienza e di buona parte della narrazione d’oggi.
Ultimi elementi di contesto prima di venire al dunque. Love, Death & Robots è stata creata da Tim Miller e David Fincher come ripresa dell’universo concettuale di Heavy Metal, il film (1981) e la rivista di fumetti omonima (a sua volta ispirata dalla francese Métal Hurlant, metallo urlante). Fincher, vabbè, è il signore che ha fatto Seven, Fight Club, Zodiac, The Social Network. Di Miller, che viene dagli effetti visivi, ricordiamo il divertente Deadpool (2016); cosa ben più interessante, è in predicato per dirigere l’adattamento cinematografico (mille volte sfumato) del leggendario Neuromante (1984), primo romanzo di William Gibson e manifesto del genere cyberpunk.
Il nuovo capitolo: le puntate imperdibili e quelle evitabili.
Com’è, dunque, questo secondo volume? Anche in relazione alla prima stagione pubblicata a maggio 2019? La libertà visiva e narrativa resta, ovviamente, il vero punto di forza dell’animazione: e questa serie ne fa ottimo uso, consentendosi una gran varietà di registri e una forza espressiva spesso eccezionali.
Le otto puntate nuove spaziano dai 7 ai 18 minuti di durata. Siccome è una serie antologica potete guardarne anche solo alcune: ecco la graduatoria. Imperdibili: “Pop Squad” e “Snow nel deserto”. La prima, con il suo affresco di un mondo in cui gli esseri umani hanno barattato l’immortalità con la rinuncia ad avere figli, è la più bella ed emozionante. E offre il ritratto di un personaggio complesso e dolente. Un moderno blade runner, che però non deve “ritirare androidi” come nel romanzo del 1968 di Philip Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (così il titolo originale) e poi nell’adattamento cinematografico di Ridley Scott (1982), ma piuttosto eliminare bambini: generati contro la legge, cresciuti in clandestinità dai genitori.
Molto belli sono poi “Il gigante annegato” e “L’erba alta”, entrambi fascinosi sia nella storia che nello stile visivo, anche se un po’ appesantiti da un andamento forse eccessivamente letterario. Specie il primo, che traduce in immagini il racconto del grande James Ballard (La mostra delle atrocità, Crash, L’impero del sole), e che però compensa ampiamente con immagini di sofferta e raggelante bellezza.
Se avete ancora voglia, meritano la visione anche “Servizio clienti automatico” (in un mondo in cui gli elettrodomestici intelligenti sono ovunque, un’anziana pensionata e il suo cane cercano di sopravvivere a un aspirapolvere divenuto omicida) ed “Era la notte prima di Natale”, fulminante racconto orrorifico para-natalizio. Mentre si possono evitare senza rimpianti “Ghiaccio” e “La cabina di sopravvivenza”.
Il raffronto tra i due volumi di Love, Death & Robots.
In attesa di un terzo volume annunciato per il 2022, viene naturale però paragonare gli 8 episodi appena usciti ai 18 della prima stagione. Anche lì vi erano, è chiaro, elementi di forte discontinuità. Ma è come se in questa vi sia, nonostante puntate di assoluta qualità, una sorta di freno a mano emozionale.
Ripenso, nel primo volume, alla meravigliosa favola d’amore steampunk di “Buona Caccia”. O a quella che per me è la vetta filosofica della serie, una raffinata riflessione sull’identità dell’artista e la differenza tra uomo e macchina (“Zima Blue”). O a episodi toccanti e visivamente magnifici come “Il vantaggio di Sonnie”, “La testimone”, “Guerra Segreta”.
E ripenso anche alle incursioni comiche: il mondo post apocalittico visto attraverso gli occhi di tre androidi che, come turisti, cercano di decifrare la perduta cultura umana in “Tre Robot”; le mille possibili morti di Hitler in “Alternative Storiche”; la follia geniale de “Il dominio dello yogurt”, un latticino che diventa autocosciente e conquista il mondo.
Ripenso a quelle vette e mi pare che questo secondo volume risulti, rispetto al primo, non inferiore ma: meno divertente nei momenti comici, meno poetico in quelli lirici, e in generale più dark, più freddo, più disperato. O forse: con più morte, più macchine, meno amore.
Se sia una deriva produttiva o un segno dei tempi, non so dirlo.
Giudizio: still cool.
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