Per chi la vide allora, o negli anni successivi, ci sono momenti che ancora oggi danno i brividi. Come il grido disperato che chiudeva – in uno dei più bei season finale di sempre – la stagione 3: “We have to go back”. Da qui il nostro titolo, che è anche un appello: dobbiamo tornare indietro. Anzi: vogliamo tornare indietro. Per raccontare, a vent’anni dal suo debutto, il 22 settembre 2004, quel grandioso show televisivo: Lost.
Molto più di una semplice avventura su un’isola deserta, la serie creata da J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber è una delle opere televisive più complesse e ambiziose del XXI secolo. Capace di segnare in profondità l’immaginario collettivo. Capace di fondere mistero, avventura, filosofia in un racconto che ha tenuto il mondo incollato allo schermo per sei anni.
E che oggi, questa la nostra scommessa, ha ancora molto da dire. Anche alle nuove generazioni di spettatori, pure cresciute con un modello di racconto seriale diverso. Non è un caso che, in occasione del ventennale, la serie sia ricomparsa in tutte le sue 6 stagioni (121 episodi) su ben tre delle piattaforme maggiori attive in Italia: Netflix, Prime Video, Disney+.
Tornare, oggi, sull’isola dei misteri di Lost significa per noi fare almeno tre cose. Raccontare cos’è stata, e perché è diventata un fenomeno. Raccontare l’impatto e l’influenza che ha avuto sulla tv, e sul ruolo stesso del pubblico. Ma forse soprattutto spingervi a guardarla, se non lo avete mai fatto – o a rivederla, se già la conoscete.
A questa serie epocale abbiamo dedicato anche un podcast recentissimo e, qualche anno fa, un altro più introduttivo. Nei prossimi capitoli la racconteremo in profondità. A differenza degli episodi di Lost, potete saltare quello che vi interessa di meno. L’importante è abbracciare il sentimento della meraviglia.
Disclaimer: una dichiarazione d’amore
Passerò i prossimi capitoli a provare a raccontare l’incredibile complessità del fenomeno-Lost. Scandagliando le ragioni che ne resero l’impatto socio-culturale potente, le innovazioni, le scelte radicali, l’influenza e l’eredità.
Ma prima, in poche righe, lasciatemi fare una confessione personale, che è anche una dichiarazione d’amore. In fondo è giusto che lo sappiate: di questa serie non posso parlare in modo obiettivo. Posso fare, e farò, tutti gli sforzi del mondo per razionalizzare le tante buone ragioni per cui, anche a distanza di 20 anni, Lost rimane un caposaldo. Ma la verità è che prima di ogni razionalizzazione qui (e forse sempre) c’è la forza di un sentimento.
Lost fu, in quegli anni ormai lontani, il primo vero grande amore seriale. In fondo persino Twin Peaks, che l’aveva preceduta, non aveva fatto lo stesso effetto: forse anche perché in fondo assimilabile, grazie al nome del suo demiurgo, David Lynch, più al cinema che alla tv dell’epoca. Lost è stato lo show che ha spostato il fulcro del mio desiderio di spettatore dal grande schermo, di cui ero avido consumatore, al piccolo. Introducendomi ai piaceri di una dilatazione temporale in cui l’enorme spazio di un racconto infinito non si perdeva nelle ripetizioni formulaiche della soap, o nell’episodicità dei telefilm, ma si traduceva in un arco narrativo gigantesco, immenso, folle e grandioso. Come le erano stati, prima, solo i grandi poemi epici.
Ancora oggi, rivedere certe scene su YouTube – o anche solo ripensare a certi momenti, o riascoltare poche note della colonna sonora così avvolgente escogitata da Michael Giacchino – non produce solo curiosità o piacere intellettuale. Ma pelle d’oca, brividi, illanguidimento nostalgico.
Fine del disclaimer!
Cos’è Lost. Qualche coordinata
Lost è nata come un progetto ambizioso e sperimentale, creato da J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, e prodotto da ABC. La serie ha debuttato il 22 settembre 2004 e ha proseguito per sei stagioni, con un totale di 121 episodi, chiudendo nel 2010. Ambientata primariamente su un’isola misteriosa nell’Oceano Pacifico, la trama segue i sopravvissuti del volo Oceanic 815, caduto durante il viaggio da Sydney a Los Angeles. Questi sopravvissuti si ritrovano a dover fare i conti con la natura ostile dell’isola, ma soprattutto con i misteri e i pericoli che essa nasconde.
La serie è stata concepita come una storia corale, con un vasto gruppo di personaggi che evolvono nel corso del tempo. Attraverso una narrazione densa e stratificata, costantemente innervata di misteri, colpi di scena, rivelazioni, nuovi enigmi. Ogni episodio accende i riflettori su uno o più personaggi, che vengono raccontati – attraverso estesi e ripetuti flashback – con una ricchezza e una profondità inedite in tv.
Primo ideatore dello show, J.J. Abrams (Alias, Fringe) ha gettato le basi della mitologia dell’isola nella prima stagione, per poi lasciare le redini a Damon Lindelof (futuro autore dei capolavori The Leftovers e Watchmen) e Carlton Cuse (The Strain, Jack Ryan), i veri artefici della visione complessiva di Lost. Il successo di critica e pubblico è stato immediato. La serie ha ricevuto parecchi premi, tra cui 11 Emmy e 1 Golden Globe (in entrambi i casi per la miglior serie drama, rispettivamente nel 2005 e nel 2006), oltre a riconoscimenti per la regia, la sceneggiatura e le interpretazioni degli attori. Ma enorme è stato il suo impatto nella cultura pop, contribuendo a ridefinire il concetto di narrazione serializzata in televisione.
Lost: sei stagioni, tante trame
Lost si sviluppa attraverso sei stagioni, ciascuna caratterizzata da un intreccio narrativo complesso e una forte evoluzione dei temi. La serie inizia con lo schianto del volo Oceanic 815 su un’isola apparentemente deserta e inospitale, dove i sopravvissuti lottano per rimanere in vita e cercare un modo per tornare a casa. La prima stagione si concentra sulla loro lotta per la sopravvivenza e sull’esplorazione dei misteri dell’isola. Introducendo elementi misteriosi o addirittura soprannaturali, come il fumo nero, i numeri e il bunker sotterraneo.
Con il progredire della serie, la narrazione si espande. Mentre sempre di più, attraverso il ricorso a uno strumento all’epoca considerato “obsoleto” come il flashback, scaviamo nel passato di ogni carattere. E sul misterioso legame che sembra connetterli. La seconda e terza stagione si concentrano sulle tensioni tra i sopravvissuti e un gruppo già presente sull’isola, conosciuto come “gli altri”, guidato dal misterioso e spietato Benjamin Linus. Gli autori aumentano i livelli di complessità, introducendo la Dharma Initiative, un’organizzazione scientifica che in passato ha condotto esperimenti sull’isola.
Le stagioni successive portano alcuni dei protagonisti fuori dall’isola – prima attraverso i flashforward, che mostrano come alcuni sopravvissuti siano riusciti a tornare alla vita normale. L’introduzione di sconcertanti flash-sideways nella sesta e ultima stagione apre una nuova dimensione narrativa, che sposta il racconto su un piano parallelo dove i personaggi vivono vite alternative, e infine porta alla risoluzione finale del destino di ciascuno.
La trama di Lost mescola elementi di fantascienza, sopravvivenza e persino di riflessione filosofica. La sua capacità di intrecciare presente, passato e futuro dei personaggi ha segnato un punto di svolta nella narrazione serializzata. Mantenendo però sempre il pubblico incollato grazie a continui colpi di scena e scoperte: un ritmo incalzante accompagna lo show dall’episodio pilota fino alla conclusione.
Personaggi iconici in una storia corale
Lost si distingue fin da subito per il cast enorme, la proliferazione di personaggi e per la sua natura corale. Cosa più unica che rara, ogni figura ha il proprio spazio e la propria evoluzione. Sebbene alcuni personaggi come Jack Shephard (Matthew Fox), John Locke (Terry O’Quinn), Kate Austen (Evangeline Lilly) e Sawyer (Josh Holloway) abbiano un ruolo più centrale, la forza della serie sta nel dare profondità e spazio a una moltitudine di storie personali. Tutte collegate da un tema comune: il mistero su cosa li abbia portati sull’isola, e perché.
Ogni sopravvissuto del volo Oceanic 815 porta con sé un bagaglio di traumi e segreti che emergono lentamente attraverso i flashback. Jack, il chirurgo carismatico, lotta con il peso delle aspettative e un rapporto complesso con il padre. Kate è una fuggitiva tormentata dal suo passato criminale. Locke, paralizzato prima dello schianto, trova sull’isola una nuova speranza e una seconda possibilità. Sawyer, inizialmente un truffatore cinico e opportunista, evolve in un personaggio profondamente umano e complesso. Ma dovremmo dedicare un capitolo solo alle altre figure primarie, tra cui veri beniamini del pubblico come Hurley (Jorge Garcia), Sayid (Naveen Andrews), Desmond (Henry Ian Cusick).
Uno degli aspetti più amati di Lost è proprio questa capacità di far affezionare il pubblico a personaggi diversi, ognuno con le proprie vulnerabilità e punti di forza. Dando pienezza e credibilità non solo agli “eroi” ma anche ai “cattivi” (le virgolette non sono casuali). Pensiamo a Michael Emerson, la cui interpretazione di Benjamin Linus è diventata una delle più iconiche della televisione moderna. Facendone una figura temibile, e insieme degna di empatia.
L’aspetto corale dello show non è solo uno dei suoi punti di forza drammaturgici. Ne riflette anche il messaggio centrale: ogni individuo ha un percorso unico, ma tutti sono interconnessi. E nessuno può trovare la redenzione o la salvezza da solo – idea variamente espressa nel corso delle stagioni.
La narrazione complessa e innovativa di Lost
Uno dei tratti distintivi di Lost è la sua struttura narrativa frammentata e innovativa, ma al contempo ultra-unitaria. Se serie precedenti come Twin Peaks e I Soprano avevano introdotto con forza un modello di narrazione orizzontale, che si sviluppa lungo tutta la serie, non più fatta di episodi auto-conclusi, Lost ha spinto questo concetto ancora oltre. Alternando – in un unico straordinario racconto lungo sei stagioni – diversi piani temporali. E persino dimensioni parallele.
La narrazione si divide tra flashback che rivelano il passato dei personaggi, flashforward che anticipano eventi futuri (inizialmente senza essere chiaramente distinguibili dai primi) e flash-sideways che esplorano, nella stagione finale, una realtà alternativa. Questo approccio non lineare ha reso la serie un vero puzzle da decifrare per il pubblico, mantenendo alta l’attenzione e il coinvolgimento degli spettatori. Le domande lasciate aperte episodio dopo episodio (distribuiti uno a settimana) hanno alimentato infinite teorie e discussioni tra i fan, che cercavano di risolvere i misteri della trama.
L’introduzione di questi strumenti narrativi ha segnato un punto di svolta nella televisione serializzata. E si può dire tranquillamente che abbia aperto la strada a serie successive che hanno adottato strutture non convenzionali, come Westworld, The Leftovers e Dark.
Qua c’è anche un altro punto interessante da notare. All’epoca, la capacità di giocare con il tempo e con i piani narrativi fece di Lost un’opera rivoluzionaria, con un’esperienza di visione certo complessa ma altrettanto gratificante per il pubblico. Oggi, a 20 anni di distanza, con lo show tornato in auge grazie alla ripubblicazione su alcune delle maggiori piattaforme, qualcosa sembra cambiato. Si registrano, nei commenti online, difficoltà inedite da parte del pubblico a seguire trama e andirivieni temporali. Invecchiamento, uno potrebbe dire. O forse abbiamo un problema a gestire la complessità…
La mitologia di Lost: misteri (e teorie dei fan)
E pensare che, all’epoca, uno degli elementi che resero Lost un fenomeno globale fu, per rimanere in tema, la sua intricata mitologia. L’isola su cui i sopravvissuti si trovano, lo abbiamo detto, è un luogo ricco di misteri. Si potrebbe dire che sia essa stessa una incarnazione del mistero. Alcuni di questi interrogativi sono stati risolti nel corso della serie. Altri sono rimasti, più o meno volutamente, ambigui. O persino irrisolti. Il mistero del fumo nero, le proprietà soprannaturali dell’isola, i numeri ricorrenti, la lotta tra Jacob e l’Uomo in Nero, l’oscura storia della Dharma Initiative – sono solo alcuni degli elementi che hanno generato infinite speculazioni e teorie tra i fan.
Questa dimensione enigmatica ha dato vita a una delle prime grandi comunità di fan online, con forum e blog dedicati alla decodifica di ogni dettaglio della serie. La nascita di Lostpedia, una wiki interamente dedicata alla serie, è un esempio di quanto profondamente i fan si siano immersi nell’universo di Lost, contribuendo a creare una mitologia che si estende oltre i confini dello schermo.
Ed è uno sforzo ermeneutico tutt’altro che immeritato. Perché il nostro show è una di quelle opere (tipo Alice nel paese delle meraviglie, per capirsi) che si prestano a una lettura multilivello. In superficie sono una cosa, ma se scavi… Basti pensare all’infinito gioco citazionistico che vede numerosi personaggi prendere il nome di filosofi o pensatori della tradizione occidentale, dal ‘600 al ‘900: Locke, Hume, Rousseau, Faraday, Bakunin, Burke, C.S. Lewis, Jeremy Bentham, Richard Alpert…
Forse nessun altro show ha saputo coinvolgere il pubblico in un modo così intenso e appassionato, facendo di Lost un modello per la moderna creazione di fandom. Vediamo alcuni esempi della sua mitologia – solo la punta dell’iceberg…
Bene e male, luce e oscurità
Uno dei temi cardine di Lost è la dicotomia tra il bene e il male, tra luce e oscurità. I riferimenti – fisici, allegorici, simbolici – sono numerosi. E d’altra parte è uno dei personaggi maggiori, John Locke, a esplicitarlo. Fin da subito. Nella seconda parte del pilot (1×02) e nel successivo terzo episodio, Locke spiega a Walt le regole del backgammon. Inquadrandolo come un cruento conflitto cosmologico: “Una parte è la luce, l’altra l’oscurità”.
Questo conflitto sarà poi incarnato, nelle ultime stagioni, dalla lotta metafisica tra Jacob e l’Uomo in Nero. Jacob rappresenta la luce, la speranza e la possibilità di redenzione, mentre l’Uomo in Nero incarna l’oscurità, il caos e la distruzione. Questo dualismo non è – va considerato – mai completamente netto, poiché i personaggi di Lost mostrano complessità morale, oscillando tra questi poli. E non è un caso che l’incarnazione del male non sia data da un personaggio in carne ed ossa (neppure dal leader degli Others, Ben), ma da un principio appunto metafisico.
Il concetto di luce e oscurità si riflette anche fisicamente nell’isola stessa, con luoghi che rappresentano la vita e la morte, la creazione e la distruzione. Questo contrasto si sviluppa lungo tutta la serie, culminando in un finale in cui i sopravvissuti devono scegliere, in un certo senso, da che parte stare. Non solo a livello morale ma anche filosofico.
Si può dire che a partire da questa grande polarità derivino altre contrapposizioni, ma anche una parte importante della ricca mitologia dello show.
Fede contro scienza: John vs Jack
Il conflitto tra fede e scienza è incarnato principalmente – ma non esclusivamente – da John Locke e Jack Shephard. I due personaggi maschili più carismatici, che poi finiranno anche per guidare diverse anime del gruppo dei sopravvissuti, si scontrano quasi ininterrottamente su come interpretare i misteri dell’isola.
Locke, invalido tornato a camminare sulla spiaggia del naufragio, crede che l’isola sia portatrice di uno scopo più grande e che tutto accada per una ragione. Jack, chirurgo iper-razionale e col complesso del salvatore, cerca spiegazioni scientifiche agli eventi che li circondano. Questa contrapposizione è una delle dinamiche narrative e drammaturgiche più potenti della serie e si manifesta attraverso numerosi eventi simbolici.
Ma anche qui, la bellezza di Lost è nella sua scelta di abbracciare la complessità e il dinamismo in ogni aspetto. Nulla rimane immobile, immutabile. Con il progredire del racconto, entrambi i personaggi subiscono un’evoluzione. Finendo per mettere in discussione le loro certezze. La serie esplora così l’idea che scienza e fede non siano necessariamente in conflitto, ma possano coesistere come modi complementari di interpretare il mondo. Il controverso ma struggente finale “mistico” dello show, di cui diremo qualcosa di più dopo, aggiunge un altro tassello a questa evoluzione dinamica. Rinunciando a sciogliere in un senso o nell’altro l’ambiguità. Offrendo allo spettatore l’idea che la condizione umana sia definita proprio dalle contraddizioni – e dalla loro accettazione, più che da una soluzione.
Scelta contro destino: Desmond
Un altro tema chiave di Lost è la tensione tra il libero arbitrio e la predestinazione. I personaggi sono costantemente posti di fronte a scelte che sembrano influenzare il loro futuro – ma sono anche costretti a interrogarsi sul ruolo del destino nelle loro vite. Lo stesso accadimento centrale di tutta la narrazione – lo schianto del volo – assomma questa contraddizione. Un evento apparentemente casuale, ma le cui cause via via comprenderemo. Così come insieme casuali e non casuali sono stati i percorsi esistenziali che hanno visto intrecciarsi il fato dei diversi personaggi – prima, durante, dopo l’arrivo sull’isola.
Questo dilemma è rappresentato in modo potente, e del tutto eccezionale, da uno dei personaggi più belli dell’intera narrazione: quello di Desmond Hume. Che entra in scena all’inizio della seconda stagione, e solo nella terza viene promosso a “regular”, ma che fin da subito conquista il favore del pubblico. Il suo percorso, accidentato e apparentemente sospinto dai capricci del caso, è punteggiato di eventi che sembrano predeterminati. E che, una volta compresi, potranno rendere più gestibile la caotica instabilità che sembra affliggerlo. Questo dualismo – anche qui, apertamente e volutamente contraddittorio – ha alimentato molte delle discussioni tra i fan. E rappresenta uno dei motivi per cui Lost è stata e continua ad essere una serie dal grande portato filosofico.
La storia di Desmond e il tema “libera scelta contro destino” vengono magnificamente esplorati in una delle puntate più emozionanti e indimenticabili dello show: The Constant (4×05). Da molti critici considerato il vertice dell’intera serie – o comunque nel novero ristretto degli episodi perfetti che comprendono il pilota (1×01, 1×02), il finale della terza stagione (3×22, 3×23), per chi l’ha amato il finale di serie (6×17, 6×18), certamente il finale della quarta stagione (con i tre episodi 4×12,13,14).
I numeri di Lost – enigma o provocazione?
E a proposito di numeri, uno degli enigmi più celebri – e a lungo discussi – di Lost è rappresentato proprio da una serie di cifre. 4, 8, 15, 16, 23, 42. Chi seguì la serie negli anni della sua prima messa in onda lo ricorda bene: era difficile resistere alla tentazione di speculare sul loro significato. Fin da quando apparvero (Numbers, 1×18). Hurley, scopriamo nel flashback di puntata, li aveva giocati – vincendo una cifra record alla lotteria. Ma subito dopo era iniziata la sfortuna, che aveva colpito chiunque gli stava attorno e avvelenato la vincita. Un altro esempio, se ci pensiamo, della tendenza dello show a procedere per contraddizioni interne.
Ma i numeri ricorrono in modo costante e apparentemente casuale nel corso della serie, assumendo significati diversi per i personaggi e la trama. A volte minori, a livello di easter egg. A volte centrali: nella seconda stagione scopriamo che rappresentano la sequenza che deve essere inserita nel computer del bunker sotterraneo. Più avanti li ritroviamo collegati alla mitologia dell’isola. Assumendo un valore più profondo quando si rivelano collegati a Jacob e al destino dei sopravvissuti. Ciascuno dei numeri corrisponde infatti, scopriremo nella sesta stagione, a uno dei “candidati” al ruolo di protettore dell’isola… Un elemento che si riconnette al tema del destino contro il libero arbitrio.
Una curiosità che aiuta a capire la portata del fenomeno Lost: poco dopo la messa in onda del summenzionato episodio, i numeri furono giocati – migliaia di volte – in diverse lotterie. Nel mondo, per così dire, reale. Ed è difficile non pensare che, tra i molti enigmi e significati nascosti dagli autori nelle sei stagioni, quello numerologico sia anche uno dei più ironici e critici: quasi una punzecchiatura nei confronti di una mania sovra-interpretativa da parte del pubblico…
“Dobbiamo riguardarlo”: fandom spontaneo (e astuzia autoriale)
L’esempio dei numeri è solo uno dei moltissimi che potremmo fare. Fin da subito, Lost generò un seguito non solo passivo. Moltissimi spettatori iniziarono a interrogarsi, e confrontarsi, sugli enigmi e i misteri dell’isola. Provando a collegare elementi, o ad anticipare la soluzione, come se fosse un giallo. La già citata Lostpedia nasce con l’avvio della seconda stagione: basta dire che è ricca, ancora oggi, di oltre 7 mila voci per capire la quantità di analisi e speculazione lo show abbia attivato.
Un vero e proprio esempio, originale nell’intensità e tutt’ora rilevante, di fandom. Del tipo che oggi ogni produzione sogna di notte di riuscire a generare, e spende milioni di dollari per provare a replicare. All’epoca nacque da una felice combinazione tra entusiasmo spontaneo e sapiente astuzia autoriale. Alimentati da un panorama socio-tecnologico mutato in pochi anni: gli anni della messa in onda, tra 2004 e 2010, sono quelli della definitiva esplosione della cultura digitale. Nascono i primi social network di massa. Le communities online si moltiplicano esponenzialmente. Nuovi strumenti domestici, e l’esplosione dello sharing, consentono di disporre degli episodi in formato digitale: rivedibili, segmentabili, analizzabili all’infinito.
Damon Lindelof e Carlton Cuse, i due showrunner principali, assecondano attivamente questa disposizione. Innervando la serie di giochi, enigmi, citazioni. Disseminando ovunque indizi, pezzi di un ipotetico e folle puzzle. Arrivando persino a sollecitare, seppur con una punta di ironia, esattamente questa risposta del pubblico. Come nell’episodio 2×03, non per caso intitolato Orientation, in cui John Locke guarda per la prima volta il video trovato nel bunker sotto la botola. Finita la visione, si volta verso Jack e gli dice: “We are gonna need to watch it again!”. Lo dobbiamo rivedere daccapo.
Qual è il significato di Lost? Teorie, speculazioni, fantasie
Il vero fandom, è chiaro, non è passivo. Così, durante la messa in onda di Lost, i fan non si limitarono a seguire appassionatamente la serie, ma svilupparono una serie impressionante di teorie per spiegare i numerosi misteri dell’isola. Alcune davvero folli. Una delle più popolari, nonostante la smentita che a un certo punto gli autori si sentirono in dovere di dare, era che i sopravvissuti al disastro aereo fossero in realtà morti. E che l’isola fosse una sorta di Purgatorio, o di limbo. Seppur affascinante, questa teoria sottovalutava drasticamente la complessità della trama e l’evoluzione dei personaggi. Eppure catturò l’immaginazione del pubblico, anche grazie ai numerosi indizi ambigui lasciati a bella posta dagli sceneggiatori.
Altre teorie si spingevano persino oltre. Teorizzando che l’isola fosse una simulazione olografica, creata per studiare i sopravvissuti. Oppure che i personaggi fossero cloni coinvolti in esperimenti genetici segreti. Un’ipotesi che conobbe una certa trazione suggeriva che la statua gigante a quattro dita rappresentasse nientemeno che una civiltà aliena scomparsa. Non solo. Il tema dei viaggi nel tempo ispirò la cosiddetta teoria del Loop temporale, secondo cui gli eventi sull’isola si ripetevano ciclicamente, con i personaggi intrappolati in un ciclo infinito.
Queste teorie, per quanto folli, mostrarono l’intensità e la profondità del coinvolgimento dei fan nella narrazione. C’era chi si gettava sui dettagli più minuti, e li collegava con arditi voli di fantasia, per arrivare a decifrare il “vero significato” della serie, creando forum, articoli, mappe, codici, video esplicativi. La dedizione dei fan contribuì a rendere Lost un fenomeno culturale globale e dimostrò il potere dell’immaginario collettivo nella creazione di miti moderni. La forza delle teorie non risiedeva tanto nella loro plausibilità, quanto nella capacità di alimentare la discussione e l’entusiasmo attorno alla serie.
Il rapporto biunivoco con il pubblico, e l’atroce fine di Nikki e Paulo
Lost trasformò il rapporto tra creatori e pubblico anche in forme più dirette. Con l’inedita cassa di risonanza globale offerta da Internet e la nascita di vere e diffuse comunità, la fandom globale assunse la statura di un’entità attiva e critica. Capace di influenzare direttamente le decisioni degli sceneggiatori. Un esempio lampante è quello dei personaggi di Nikki e Paulo, introdotti nella terza stagione (3×03) come sopravvissuti “secondari” per esplorare nuove dinamiche. Fin da subito, però, il pubblico trovò i due insopportabili. Le reazioni furono così negative che gli sceneggiatori decisero di eliminarli nella medesima stagione, nell’episodio Exposé (3×14). E brutalmente: i due vengono sepolti vivi. Una morte particolarmente “crudele”, quasi una sorta di “penitenza” offerta dagli autori in risposta alle critiche. Un segno evidente di come i creatori fossero in ascolto attivo del feedback dei fan.
Ma il caso di Nikki e Paulo non fu l’unico. Numerose scelte narrative furono influenzate dalla percezione e dalle reazioni del pubblico. Damon Lindelof e Carlton Cuse, gli showrunner, seguirono attentamente le discussioni online e i forum per capire cosa funzionava e cosa no, facendo di Lost uno dei primi esempi di televisione partecipativa. Questa interazione diretta tra fan e autori contribuì a rendere Lost un’esperienza coinvolgente e condivisa, non solo sullo schermo ma anche nelle conversazioni globali che ne seguirono.
Il fenomeno inaugurato da Lost ha aperto la strada a una nuova era di serialità televisiva, in cui il pubblico ha assunto un peso maggiore nelle scelte creative. Oggi, l’interazione tra fan e creatori è quasi scontata grazie alle piattaforme di streaming e ai social media, ma Lost fu pioniera in questo tipo di dialogo. Dimostrando quanto l’opinione collettiva potesse plasmare una narrazione.
Il finale di Lost (senza spoiler) e una faida mai sopita
Il finale di Lost è uno dei più discussi nella storia della televisione. L’episodio conclusivo, che risolve alcuni misteri lasciandone altri aperti, ha diviso i fan e la critica. Alcuni hanno apprezzato la decisione di lasciare spazio all’interpretazione personale. Altri hanno lamentato che non tutte le domande avevano ricevuto risposte soddisfacenti. Vabbé, è un eufemismo: un bel po’ di gente l’ha odiato, e lo odia tuttora. Noi non siamo tra questi: come argomentiamo anche nelle due puntate del podcast che abbiamo dedicato alla serie (questa, del 2021, e quella registrata per il ventennale, qui), riteniamo che un finale mistico fosse l’unico modo per dare una qualche forma di chiusura possibile a una serie la cui complessità narrativa era cresciuta oltre l’umana possibilità di esaurire ogni percorso e chiarire ogni dubbio. Lo consideriamo un finale giusto – oltre che profondamente emozionante.
In ogni caso, ha segnato un punto di riferimento per il modo in cui le serie successive hanno affrontato il dilemma della conclusione. Ha cioè confermato, con la forza che solo un grande successo commerciale (e però anche critico) poteva avere, la legittimità di un finale aperto. Proprio come avevano già fatto due serie classiche, e seminali: le già citate Twin Peaks e I Soprano. Entrambe caratterizzate da ending volutamente, e genialmente, ambigui.
Ancora oggi, a vent’anni di distanza, le discussioni sul finale della serie continuano a dividere gli spettatori. Sia quelli storici che le nuove generazioni avvicinatesi allo show. Per quanto possa piacere a noi, è chiaro che si tratta di una faida che non potrà mai essere sopita. Tra pubblici che hanno preferenze, e attese, inconciliabili. Ma va bene così: in fondo, è la miglior testimonianza della passione duratura che Lost ha saputo generare.
Influenza ed eredità
Si potrebbe dedicare un intero articolo all’analisi dell’impatto di questa serie sulla televisione moderna e in generale sul racconto serializzato. Non parliamo, sia chiaro, delle imitazioni più o meno parassitarie (come l’inutile Manifest o la brutta The Wilds), o addirittura involontariamente parodistiche (come la raccapricciante The i-land). Ma di influenza strutturale. Alcuni elementi li abbiamo visti fin qui. Altri li abbiamo discussi estesamente in questa già citata puntata del podcast.
In un certo senso, Lost è anche stata la serie che ha compiutamente riappacificato il pubblico con i piaceri del racconto lungo: non a caso ambientando la sua storia infinita attorno a un’isola, ai tentativi di tornare a casa, ai misteri e alle insidie che ostacolano gli eroi… Proprio come aveva fatto, oltre 2500 anni prima, l’Odissea.
Ma possiamo citare almeno quattro fronti che la rendono un caposaldo delle produzioni del nuovo millennio. Partiamo proprio dagli aspetti produttivi. Con il suo budget elevato e una confezione di qualità cinematografica, Lost ha alzato gli standard per le serie televisive. Le spettacolari riprese nelle Hawaii e gli effetti visivi di alta qualità hanno contribuito a creare un’esperienza visiva immersiva, aprendo la strada a produzioni enormemente ambiziose (una per tutte: Game of Thrones).
Parallelamente, il nostro show mostrò (con una radicalità ancora maggiore di Twin Peaks) che una coesistenza di generi era possibile. In un unico racconto si intrecciano dramma, mistero, fantascienza, thriller, survival, elementi soprannaturali, e persino cospicue vicende romantiche, creando un’esperienza di visione unica.
Terzo motivo: così come per i generi, anche sul fronte tematico ci si poteva allargare. La serie esplora temi profondi e universali come la fede, la scienza, la redenzione, il libero arbitrio, il determinismo, la moralità, la colpa, la relazione umana. Una complessità di sguardo che la rende una serie coraggiosamente filosofica. Pur senza perdere mai il ritmo e il divertimento di un grande racconto d’avventura.
L’ambizione tematica si sposa, ed è la quarta eredità, a quella narrativa: Lost dimostrò che una serie lunghissima, di massa, popolare, poteva permettersi modalità di racconto straordinariamente complesse. Notevolmente sfidanti per lo spettatore. Lontane anni luce dalla gratificazione immediata del vecchio modello telefilmico “un episodio, una storia conclusa”. Confermando l’esistenza di un pubblico paziente, disposto a investire tempo e a intraprendere un viaggio il cui scopo non era la rassicurazione ma la meraviglia. In cui si parte non per trovare qualcosa ma, in un certo senso, per perdersi.
Perché tornare, vent’anni dopo, sull’isola di Lost
Lo abbiamo detto all’inizio. Ci piaceva, preparando questo articolone, l’idea di stimolarvi. Di tentarvi. Alla visione, se Lost l’avevate persa e mai recuperata. Alla re-visione, se siete, come noi, tra coloro che ebbero la fortuna di vivere quell’emozionante e lunghissima stagione in diretta, per così dire. Godendo del piacere aggiuntivo di un’esperienza collettiva, globale.
Se ci siamo riusciti, ricordate un paio di cose. Lost nasce in un’epoca diversa della tv, e con un modello distributivo oggi incomprensibile. Le prime tre stagioni (rispettivamente da 25, 24 e 23 episodi) iniziavano a fine settembre e finivano a maggio dell’anno dopo. Prendetevi un momento per assimilare questa idea: una singola stagione te la dovevi distillare lungo 7-8 mesi. Ciononostante, la serie può benissimo reggere anche a una visione più voracemente bulimica come quella dell’odierno binge-watching. Magari imponendosi un minimo di tempo per digerire, tra una puntata e l’altra.
Il mondo in questi 20 anni è cambiato. È cambiata, e profondamente, anche la tv. Eppure, tornare sull’isola di Lost non ha un valore meramente archeologico. Non significa solo riscoprire uno dei primi esperimenti televisivi di massa davvero innovativi e moderni. Vederla o rivederla oggi significa immergersi nuovamente in una storia ricchissima e feconda. Che trabocca di misteri, stupore, meraviglia. E che continua a toccare corde emotive profonde.
Alla fine, ad almeno una persona questo articolo la voglia l’ha fatta tornare. A qualche anno dall’ultima visione, ho di nuovo desiderio di mescolarmi ai sopravvissuti dell’Oceanic 815. A qualche anno di distanza, lo sento, we have to go back.
Lost, 20 anni dopo: ascolta il nuovo podcast
Ascolta la nostra puntata introduttiva a Lost