Satoshi Kon? Quando parliamo di lungometraggi animati giapponesi, un nutrito numero di lettori penserà istintivamente a Hayao Miyazaki e al celeberrimo Studio Ghibli, mentre gli appassionati di cult movies ricorderanno Katsuhiro Otomo, il creatore dell’anime Akira. Forse qualcun altro magari si ricorderà di Ghost in The Shell, di Mamoru Oshi, soprattutto per un remake con Scarlett Johannson di qualche anno fa.
Pochi però conoscono la figura e le opere di Satoshi Kon, di cui ha quindi molto senso parlare per due motivi. In primis la grandissima qualità sia dal punto di vista della forma che dei contenuti delle sue opere. Secondariamente perché ho notato con sgomento che, nonostante le piattaforme di streaming abbondino di offerte legate al mondo anime, questo autore poetico e visionario è quasi del tutto assente.
Un libro che racconta l’influenza di Satoshi Kon
Perché pochissimi lo conoscono e la sua filmografia affonda nei bassifondi della rete, sovrastata da centinaia di prodotti mediocri e pretenziosi?
Paradossalmente, la sua scomparsa prematura, avvenuta nel 2010 per un tumore al pancreas, invece di portarlo al grande pubblico, lo ha relegato come autore di nicchia, amato dalla critica e dai registi, ma non dal grande pubblico che si è sempre mostrato diffidente.
Eppure, basta una semplice ricerca in rete per notare di quanta stima questo autore tuttora goda tra tra gli appassionati di animazione. Recentemente la casa editrice Mimesis ha deciso di pubblicare una edizione ampliata e aggiornata della monografia a lui dedicata nel 2009 da Andrea Fontana ed Enrico Azzano: “Satoshi Kon, il cinema visionario di uno dei più eccentrici protagonisti dell’animazione giapponese”.
Con l’aggiunta di numerosi interventi di addetti ai lavori che, oltre all’analisi delle sue opere dal punto di vista critico, indicano come montatori e animatori di tutto il mondo ne siano stati potentemente influenzati.
Cerchiamo quindi di tracciare una linea poetica, attraverso temi e figure ricorrenti. Se vorrete cercare la sua filmografia non vi ci vorrà molto tempo, visto che consta di soli 4 film, una serie e un cortometraggio.
Satoshi Kon e il rapporto con Otomo
Iniziamo collocandolo temporalmente: Satoshi Kon esordisce negli anni 80 come disegnatore, “Mangaka”, come vengono chiamati in Giappone gli autori di fumetti.
Negli anni 90 diviene anche sceneggiatore e animatore al fianco proprio di Katsuhiro Otomo, il creatore del capolavoro Akira, con cui realizza il disturbante World Apartment Horror e per cui scrive una sceneggiatura per Memories, film del 1995 in tre parti, altra perla dell’animazione e ad oggi colpevolmente assente dalle piattaforme streaming.
L’episodio trattato da Satoshi Kon, Magnetic Rose, narra di 2 astronauti che, rispondendo ad un SOS, dovranno vedersela con i ricordi di una cantante lirica vissuta un secolo prima e contiene in nuce quelli che sono alcuni dei tratti tipici della sua filmografia: il confine labile tra realtà e subconscio in tutte le sue forme, l’amore per l’arte occidentale, la stratificazione dei significati, un immaginario femminile complesso e profondo.
Il primo lungometraggio: Perfect Blue
La sua prima opera totalmente compiuta è di qualche anno più tardi, risponde al nome Perfect Blue e rappresenta un unicum nel suo genere.
La storia parla sostanzialmente di una Idol (per chi non sapesse cosa sono, le Idol sono in genere le componenti di girl band adolescenti che si vestono da lolite, cantano canzoncine pop commerciali e che soprattutto in quegli anni rappresentavano una miniera d’oro per l’industria discografica e del merchandise). La Idol di Perfect Blue, Mima, decide di abbandonare il mondo della musica leggera per intraprendere una seria carriera di attrice, incontrando il disappunto di un suo fan Stalker che ora per questo motivo la ritiene sporca. Di qui iniziano una serie di delitti efferati, in una narrazione che sempre di più si confonde tra le riprese di un film e la realtà della storia, i ricordi di Mima e le sue fantasie.
Kon ama mescolare sogno e realtà, giocare con lo spettatore proponendogli un thriller dentro ad un altro thriller, in una costruzione a scatole cinesi che diventerà un suo marchio di fabbrica.
La risoluzione del caso, pur essendo comunque interessante, passa quasi in secondo piano rispetto a l’enigmaticità della protagonista, la rappresentazione spietata del cinismo del mondo dello spettacolo e la coraggiosa denuncia della pericolosità della cultura Otaku, termine che indica le persone appassionate a tal punto della cultura dei manga e degli anime da vivere in una vera propria realtà parallela.
Pur se ancora agli albori, Kon intuisce e dipinge anche l’inquietante dicotomia tra l’io reale e l’io virtuale del mondo di Internet (l’opera è del 1997, ovvero ad almeno 10 anni dall’avvento dei social network).In questa sua opera prima emerge già tutto il valore del regista nella creazione di scene evocative al punto che uno dei suoi massimi ammiratori, il regista Darren Aronofsky, ne copierà intere scene di sana pianta in Requiem for a Dream e Il Cigno Nero.
Satoshi Kon e il sogno del cinema totale: Millennium Actress
Nel 2001, Satoshi prende quello che era in nuce nell’episodio di Memories da lui curato e lo estende fino a diventare un lungometraggio animato compiuto e intrigante: Millennium Actress.
Dietro a quello che pare essere a tutti gli effetti un biopic movie, ovvero un film che ripercorre la vita e i successi di un personaggio pubblico, si nasconde una dichiarazione d’amore al mondo del cinema, in particolare a quello giapponese.
In questo film la trama sembra essere più semplice: un critico cinematografico e il suo assistente cameraman incontrano una ex diva del cinema ormai ritirata a vita privata per rievocare tutta la sua carriera.
Se in Perfect Blue la fusione tra finzione, realtà e sogno veniva vissuta adoperando il trauma del risveglio per separarne i confini, qui la tecnica di Kon ha raggiunto tali livelli da creare un unico flusso di immagini che partono dai ricordi della vita reale dell’attrice ancora fanciulla, per poi catapultarsi all’interno dei suoi film, alcuni girati, altri invece solo immaginati. Ricordo e sogno si fondono in un mix perfetto, alternando i generi cinematografici senza soluzione di continuità, dimostrando una tecnica e una conoscenza dell’arte cinematografica senza pari.
A commento del proprio lavoro, Kon dice più volte che quello che lui cerca di fare non può essere raggiunto se non attraverso l’anime. La gestione dei disegni e dei fotogrammi permette di guidare in un meccanismo ad orologeria le percezioni dello spettatore. Quello che stupisce è il fatto che l’alternarsi di registri diversi non intacca minimamente la forza della storia, né il messaggio di fondo, così caro al regista: è più bello inseguire un sogno, piuttosto che raggiungerlo.
Tokyo Godfathers
Nel 2003 a Satoshi Kon viene quasi imposto di creare un film blockbuster da fare uscire a Natale.
Pur piegandosi alla richiesta, il risultato è una storia anomala, forse neppure totalmente riuscita ma che ancora una volta si stacca completamente da tutte le altre proposte animate del tempo. Tokyo Godfathers parte da uno spunto della cultura occidentale (un film di John Wayne con 3 pistoleri che si prendono cura di una neonata) e lo trasforma in una favola alla Frank Capra con tre protagonisti fuori dagli schemi.
Nella Tokyo esclusa dalle mappe turistiche tre senzatetto (un vecchio alcolizzato, una drag queen caduta in disgrazia e una adolescente scappata di casa) trovano una bambina tra cataste di vecchi giornali. A partire da questa premessa si dipana una storia che alterna momenti amari con vere e proprie gag comiche. Se nei film precedenti la forza della narrazione stava nel flusso di coscienza libero che seguivano gli eventi, qui Satoshi Kon vuole focalizzarsi sulla recitazione e l’espressività dei personaggi animati, passando da uno stile naturalista ad uno più cartoonesco.
Non mancano i momenti puramente favolistici ma tutto sommato, proprio per la sensazione di fondo di un’opera che ha dovuto accettare dei compromessi, il film non convince in pieno – pur essendo estremamente raffinato per disegni e animazione e originale nella scelta dei protagonisti.
L’unica serie di Satoshi Kon: Paranoia Agent
Nell’anno successivo, ovvero il 2004, arriva l’unica opera seriale, in tredici episodi.
Paranoia Agent (cui abbiamo dedicato anche questa puntata del podcast), pur presentando una storia profonda e perturbante, risente delle ristrettezze economiche di un progetto che deve produrre 7 ore di materiale con un budget appena sufficiente per 2 e che, nel rispetto della poetica di questo regista, parla del subconscio, del sogno, dell’immaginazione come potenziali vie di fuga salvifiche, ma anche come trappole mortali.
Intendiamoci, si tratta sempre di un prodotto di grandissima qualità, ma che non può reggere il confronto con la gioia per gli occhi rappresentata dai suoi lungometraggi.
A grandi linee la storia segue l’ascesa dell’ipotetico teppista Shonen Bat al ruolo di perno centrale di una paranoia collettiva fino a diventare la personificazione mostruosa del burn out, dell’esaurimento nervoso, dell’ansia da prestazione tipici della società nipponica.
Allo stesso tempo Kon mette in guardia dall’escapismo dal mondo reale attraverso i sogni e la fantasia, strumenti pericolosi e potenti, da maneggiare con cura.
A tal riguardo il regista disse:
“La paranoia possiede un’immagine, un significato più forte rispetto alla fantasia. Sì. Delirante, direi. La parola dà l’impressione di una persona che vuole consapevolmente essere folle. Beh, per poter sopravvivere ognuno di noi ha bisogno di qualcosa che sia lontano dalla realtà … come la fantasia, i sogni, e forse anche la paranoia. Altrimenti, la vita può dimostrarsi incredibilmente difficile. Credo che ogni persona percepisca la realtà filtrandola, processandola attraverso la propria fantasia o la propria paranoia. Vista in questo modo, non penso che la fantasia, o la paranoia, siano veramente dannose.”
Paprika, il sogno prima dei sogni di Inception
Realizzato nel 2006, Paprika è uno dei film più noti, e forse quello che rappresenta al meglio le capacità tecniche del regista: una fusione perfetta delle sue opere precedenti.
In una Tokyo contemporanea una nuova macchina sperimentale permette di curare le patologie di natura psichiatrica introducendo degli agenti speciali nei sogni dei pazienti. Alcune di queste macchine vengono rubate e la dottoressa Atsuko, coadiuvata dal suo alter ego del mondo dei sogni, per l’appunto Paprika, parte alla ricerca di queste macchine. Spingendosi in una serie di sogni posizionati a scatole cinesi, tutto questo mentre il mondo attorno a lei inizia letteralmente a impazzire.
Ancora una volta la protagonista è una donna, come in tutti i suoi precedenti film: che si tratti di giovani innocenti o anziane attrici o donne intrappolate in un corpo di uomo. Satoshi Kon della donna ama la maturità e la complessità e spiega questa sua predilezione dicendo che, in quanto uomo, conosce bene la propria natura bestiale ed egoista, quindi diviene molto naturale per lui proiettare nei personaggi femminili ogni aspirazione idealistica.
Questo film è il manifesto finale dei suoi primi dieci anni di carriera e presenta la maturità di tutte le linee della sua poetica. Il confine tra vita e sogno è un drappo che cela un’altra realtà sotto di esso, l’assurdità del mondo dei sogni non ha bisogno di chiaroscuri che celano le immagini ma possono esporsi in tutta la loro luce e nel loro alienante colore, i corpi sono sempre più plastici e si deformano come in un quadro di Dalì.
I richiami simbolici si fanno più evidenti e diviene anche manifesto ormai il suo omaggio al cinema, parlando apertamente di stili di ripresa, omaggiando Fellini, Kubrick, Cronenberg ma anche il cinema di genere.
In questo film, dietro il pretesto di un thriller onirico, si nasconde una dichiarazione d’amore a cuore aperto per la settima arte.
Non stupitevi infine se guardandolo avrete la sensazione di averlo già visto: nel 2010 Inception di Christopher Nolan ne riprende in parte le tematiche e in toto più di una inquadratura.
Ohayo, l’ultimo lavoro di Satoshi Kon
Infine nel 2008 per l’iniziativa Ani*Kuri 15 – ovvero una serie di 15 cortometraggi della durata di un minuto ciascuno – Satoshi Kon realizza la sua ultima opera, Ohayo. Che diventa a tutti gli effetti il suo involontario testamento, ma che raccoglie come una perla rarissima tutta la sua poetica.
Ironia del destino, l’ultima opera del regista dei sogni, spiega, in sessanta secondi di pura perfezione stilistica, cosa sia il risveglio.
Di lì a due anni, nel 2010, mentre lavorava a The Dreaming Machine, un film on the road con protagonisti dei robot giocattolo, un tumore fulminante al pancreas lo porta altrove a soli 46 anni.
Prima di morire scrive una lunga straziante lettera. Qui ne citerò solo le ultime righe, a testimonianza di un artista dotato di una sensibilità fuori dal comune, un sognatore che ci ha disegnato della stessa sostanza di cui i sogni son fatti.
“Con il cuore colmo di gratitudine verso tutto ciò che esiste di buono a questo mondo, poso la penna. Vogliate scusarmi, ora devo andare”.
Ascolta la puntata del podcast dedicata a “I sogni di Satoshi Kon”