Perché mi sento a disagio a scrivere che La storia di Lisey (Lisey’s Story, 2021) è la storia di un mezzo flop?
Un po’ perché ha, in fondo, moltissimi elementi fascinosi che la rendono più che guardabile. Un po’ perché speravo sarebbe stato un prodotto migliore, all’altezza della bella storia che racconta. Un po’ perché la miniserie Apple TV+, conclusasi a metà luglio nelle sue 8 puntate, arrivava stracarica di attese più che giustificate. Scritta da Stephen King in persona, a partire dal suo assai interessante romanzo del 2006. Diretta dal Pablo Larraín di No (2012) e Jackie (2016) e tanti altri film acclamati. Prodotta nientemeno che da J. J. Abrams (Alias, Lost, Fringe, la nuova trilogia di Star Wars). Con Darius Khondji come direttore della fotografia. Con protagonista un’attrice eccellente come Julianne Moore e, al suo fianco, il solitamente intenso Clive Owen. E come se non bastasse, con comprimari di lusso come Jennifer Jason Leigh, Dane DeHaan, Joan Allen.
Insomma, con tutti questi assi in mano, cosa poteva andare storto?
La storia di Lisey: di cosa parla
Ma facciamo un po’ di ordine. Chiusa in 8 episodi, La storia di Lisey è una miniserie horror – drama con elementi fantastici. La Lisey del titolo (Julianne Moore) è la vedova di Scott Landon (Clive Owen), scrittore di enorme successo morto un paio di anni prima. Ancora incapace di accettare la perdita precoce dell’uomo che ha amato per oltre un quarto di secolo, Lisey è spinta a far ripartire la propria vita da una serie di eventi concomitanti e, forse, concatenati in modo non casuale.
Mentre inizia il più volte rinviato e ovviamente doloroso riordino delle carte e degli scritti del defunto e prolifico marito, Lisey si imbatte nel primo di una serie di indizi. Scott le ha lasciato un bool hunt, una sorta di caccia al tesoro come quelle che lui faceva da piccolo con il fratello maggiore. La caccia si snoderà lungo tutta la serie, ogni indizio legato a un ricordo o a un momento simbolicamente forte della storia dei due amanti.
Nel frattempo, la sorella maggiore, Amanda (Joan Allen) sprofonda in una forma catatonica della malattia mentale che l’ha spesso portata a farsi male da sola. Catatonia da cui in passato solo Scott era riuscito a strapparla.
Infine, uno stalker violento e psicotico (Dane DeHaan) appare nella vita di Lisey: sguinzagliato da un professore universitario che brama mettere le mani sugli scritti inediti di Scott, l’uomo minaccia la vedova, con una serie di atti sempre più persecutori e inquietanti.
Mentre gli eventi maturano fino all’inevitabile confronto finale, Lisey inizia a sospettare che la risposta si nasconda in un altro mondo. Quello fantastico, alieno, misterioso, pericoloso e insieme magico in cui lo scrittore si rifugiava per alimentare la propria ispirazione o affrontare i propri demoni. La donna ha cercato a lungo di derubricarlo a mero frutto della contagiosa fantasia del carismatico marito, ma invece forse esiste davvero, e da lì qualcuno o qualcosa sta tentando di raggiungerla…
King e l’incidente che ha ispirato La storia di Lisey
Pubblicato nel 2006 con un ottimo successo specie di critica, il romanzo La storia di Lisey (Lisey’s Story) fa parte di un preciso e significativo filone della produzione letteraria di Stephen King. Quello che parla di scrittori e del loro rapporto, spesso conflittuale e problematico, tanto con la propria opera che con i propri fan.
Al tema meta-letterario del re dell’horror appartengono ovviamente Shining e Misery, con specie il secondo capace di mettere in scena con formidabile inventiva la prigionia che un autore finisce per sperimentare all’interno della propria produzione letteraria. Con le aspettative dei fan che si materializzano in veri e propri – e minacciosissimi – mostri. Ma anche opere un po’ meno note come i romanzi La metà oscura e Mucchio d’ossa, e poi il saggio On Writing: Autobiografia di un mestiere e il racconto Finestra segreta, giardino segreto.
King ha dichiarato in più di un’occasione che La storia di Lisey è il parto a cui è più affezionato. E si sa che ha voluto fortemente essere coinvolto nel suo adattamento, e specificamente nella forma seriale, che avrebbe consentito un maggiore tempo a disposizione rispetto a un film.
Con buone ragioni: il romanzo è il suo migliore di questo millennio, un racconto capace di tenerezza, di un tono intimo, di complessità di sguardo, e di costruire (come scrisse Janet Maslin sul New York Times all’uscita, nel 2006) “un epico viaggio interiore senza coprire un grande spazio fisico”.
D’altra parte, anche la sua genesi aiuta a capire perché il suo autore lo ami tanto. L’idea del romanzo giunge a King nel 1999 (o nel 2000, in un’altra versione sempre raccontata dall’autore), sotto forma di spaventosa profezia. Investito da un’automobile (colpito da polmonite), ricoverato in modo grave in ospedale, quando finalmente lo scrittore torna a casa trova il suo studio riordinato dall’amorevole moglie: ho immaginato in quel momento, dirà l’autore di It, Stagioni diverse, L’ombra dello scorpione, come sarebbe stato quel luogo a me tanto familiare dopo la mia morte.
L’eccesso di amore ha ucciso il bambino?
E veniamo a quella domanda che avevamo lasciato in sospeso all’inizio: con tutti questi assi in mano, cosa poteva andare storto? Perché davvero La storia di Lisey aveva tutte le carte in regola per essere uno degli show più belli dell’anno, e magari non solo. Ricordo gli elementi chiave perché quasi non ci si crede: a partire da un suo (bel) romanzo, una sceneggiatura di King; un regista di assoluta qualità come Larraín a firmare tutti gli episodi, con un direttore della fotografia leggendario come Khondji e un produttore del calibro di Abrams. In più, un cast di primissimo livello. E, aggiungo, la “garanzia” di Apple TV+, che nel suo anno e poco più di vita ha sbagliato poco o nulla.
E invece… e invece la serie per lunghi tratti arranca. Tra puntate esageratamente lunghe (ormai e in generale un problema frequente: è un po’ scappata di mano l’euforia per la “libertà” televisiva rispetto ai costi e alle dimensioni da film). Una certa qual stucchevolezza delle scene che raccontano il passato della coppia protagonista, specie negli anni più lontani: con 25 anni (narrativi) di meno, anche attori abili come la Moore e Owen finiscono per risultare posticci. E soprattutto una radicalità al limite della sgradevolezza nell’insistente rappresentazione visiva di scene di violenza: non facili da sopportare di per sé, ma incongrue nell’economia drammaturgica ed estetica del racconto.
Così, lo squilibrio complessivo finisce per impressionare più dell’indubbia qualità di singole componenti. C’è poco da dire su resa visiva e messa in scena: dai bellissimi titoli di testa, che pure un po’ richiamano quelli di Westworld; a regia e fotografia, capaci di costruire ponti credibili tra il mondo ordinario e l’altro mondo fantastico; fino alle presenze attorali, intense e convincenti specie nel comparto femminile (Julianne Moore, Joan Allen, Jennifer Jason Leigh).
E quindi? Basta andare per esclusione. Il problema è proprio Stephen King. L’eccesso di amore ha ucciso il bambino, soffocandolo in culla.
La storia di Lisey e i limiti cine-televisivi di King
Lo so che sembra ridicolo dire una cosa del genere. King non è solo un autore popolarissimo, che ha venduto centinaia di milioni di copie, ricevuto moltissimi premi, conosciuto un numero di adattamenti cine-televisivi probabilmente superiore a quello di Shakespeare. È anche un ottimo autore, capace di regalare pagine che emozionano a distanza di anni e alla prova della rilettura.
Il problema non è ovviamente con la sua scrittura letteraria, che è poi il cuore della sua identità. Ma con la traduzione di questa in scrittura “visiva”, per il cinema o la tv. Al netto delle moltissime schifezze tratte da sue opere, non è un caso che le cose migliori ispirate alle pagine di King abbiano visto altre mani produrne le sceneggiature. King NON ha sceneggiato nessuno dei migliori adattamenti dalla sua sconfinata produzione: lo Shining di Kubrick, La zona morta di Cronenberg, il possente Misery e il delicatissimo Stand by me di Reiner, L’ultima eclissi, la versione de L’allievo di Singer, o le due belle rese di altrettanti e diversissimi racconti curate da Darabont con Le ali della libertà (Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank) e The mist (La nebbia).
Ciò che in King funziona sulla pagina, lo possiamo ormai dire dopo numerosi tentativi falliti, non funziona o non funziona bene su schermo. Il suo amore per le descrizioni minuziose. Le sue digressioni narrative, funzionali alla costruzione di tensione o all’arricchimento psicologico. I suoi vezzi linguistici. Lo stesso immaginario orrorifico o fantastico che riesce così bene a evocare nello scritto. Il cinema e la tv sono, semplicemente, altri linguaggi; con diverse regole; con un differente ritmo e respiro.
La storia di Lisey è l’ultima, spettacolare, conferma di questa maledizione. King ha voluto tenere troppo stretto il figlio prediletto, riempiendolo delle sue attenzioni, provando a vestirlo a immagine e somiglianza del padre. Non permettendogli di vivere una propria vita autonoma, lo ha condannato a un destino di frustrazione e disagio. Gli stessi sentimenti che abbiamo provato noi per troppa parte di queste 8 puntate, pensando a come sarebbe potuta essere la serie se non fosse stata soffocata dall’amore paterno.