La Casa di Carta si è afflosciata su se stessa. Nel Volume 1 della quinta e ultima stagione della popolarissima serie spagnola, pubblicato il 3 settembre 2021, Netflix ha lasciato che la squadra di sceneggiatori capeggiata da Alex Pina rinunciasse a sceneggiare, limitandosi a qualche fuoco fatuo di residua immaginazione in mezzo a un campo di battaglia dove si spara, si spara e si spara ancora. D’altronde, come l’Hollywood più deteriore insegna, quando a venire meno è l’ispirazione non resta che l’azione, intesa come pura violenza.
Se nelle quattro stagioni precedenti un filo continuo di una sempre più sfilacciata trama resisteva ancora, adesso il giocattolo è letteralmente scoppiato nelle mani degli autori, che dovendo, evidentemente per ragioni commerciali, tirare in lungo un indubbio successo mondiale, lo hanno ridotto, in questo scorcio prima della parola “fine” (il 3 dicembre andranno in onda le cinque puntate del Volume 2), a un’altra cosa.
Più precisamente, a un videogame.
La Casa di Carta: a che punto siamo
Caduto nelle mani della perfida ispettrice Alicia Sierra, il Professore, vertiginosa mente del gruppo di rapinatori della Banca di Spagna, non guida più la banda di “delinquenti buoni” in tuta rossa e maschera di Salvador Dalì, e gli effetti si vedono: la raffinatezza da thriller psicologico, che era stata la chiave vincente di questo prodotto che tecnicamente potremmo definire di livello medio-alto, va a farsi benedire. L’anarchia regna sovrana.
Il che non sarebbe neanche un male in sè, a riprova che non tutto può dominare un intelletto superiore, vulnerabile alle sortite dell’Imprevedibile (un tempo si chiamava Destino, o Fato, ma lasciamo perdere) e soprattutto ai colpi del sentimento, quel cuore che si agita nel petto degli esseri umani, giocando i suoi più bei scherzi proprio a chi pretende di non udirne il battito.
Ma mentre l’innamoramento imprevisto dell’apparentemente glaciale prof con l’ex poliziotta, convertita al saccheggio e ribattezzata poi Lisbona, era appunto consequenziale, per contrasto, alla sua stessa regola iniziale (nessun rapporto sentimentale durante le operazioni: sì, come no), ora le effrazioni riguardano l’intero svolgersi della vicenda.
In sostanza, ne La Casa di Carta ogni logica è saltata e furoreggia a suon di pallottole il primordiale istinto di sopravvivenza. Un po’ pochino, come esito trionfale di una serie partita trionfalmente.
Delusione n.1: la riduzione dell’indagine psicologica
L’indagine sull’interiorità, che prima si compenetrava armonicamente con gli eventi, è circoscritta a due sole isole, non esattamente felici: l’umanizzarsi della Sierra, che dovendo fronteggiare il momento supremo dell’esistenza di una donna (il parto), è costretta ad ammettere di aver bisogno di aiuto, e il flashback sul fratello dandy del Professore, il compianto Berlino, alla prese con l’educazione criminale del figlio, odiosissimo nerd, per indurlo a scoprire la bellezza estetica del furto.
Nel primo caso, un bozzetto troppo poco sviluppato; nel secondo, un filler piazzato qua e là un po’ per recuperare il personaggio oggettivamente più affascinante, il Ladro per antonomasia in stretto commercio con la Morte, e un po’ per spezzare con un riempitivo il ritmo da polpettone bellico, presumibilmente venuto a noia perfino al regista.
Oltre all’aspetto psicologico, La Casa di Carta risultava interessante anche per l’afflato idealistico, piacionissimo ma simpatico, dei Robin Hood che non rubavano tanto ai ricchi per dare ai poveri, ma addirittura intendevano fregare il Sistema (l’apparato finanziario, signore e padrone delle nostre vite) svelando la truffa istituzionalizzata su cui è fondato, ovvero il valore puramente virtuale del denaro, che in fondo è solo carta.
Delusione n.2: il tradimento dello spirito “Robin Hood”
L’intuizione degli esordi non era niente male, anzi – a questo proposito, si veda alla voce “signoraggio“. Poi, però, la delusione: le milionate finiscono nelle tasche degli eroi amati dal pueblo, che si maschera come loro e si assiepa davanti al palazzo per fare il tifo, e il colpo alla Zecca di Stato terminava in spiagge paradisiache, come dei capitalisti qualunque.
Quel che sta per concludersi è invece il secondo colpo, alla banca centrale, per mettere le mani sull’oro. Come dei ladri qualunque. L’oro non è il fiat money grazie al quale la piovra di banksters e poteri collaterali crea ricchezza dal nulla: è la riserva aurea, la base tangibile e concreta su cui si basa la solidità patrimoniale di uno Stato.
La canzone dei partigiani italiani “Bella ciao”, svettata a hit internazionale con vera alzata d’ingegno di marketing, copre la più vecchia e banale delle aspirazioni: nuotare, è proprio il caso di dirlo, nell’oro. Da ogni lato lo si guardi, il messaggio è sballato e sbagliato.
A maggior ragione se per infondergli un’aura epica, di sfida del Bene contro il Male, lo si carica di emotività insurrezionale, di rivincita dei deboli sui forti, di sollevazione degli umiliati e offesi sul Potere ricolmo di segreti inconfessabili (altra idea di per se stessa indovinata ma appena accennata, che avrebbe potuto indirizzare il dramma sulla spy story politica; ma troppo faticoso, e forse troppo rischioso, ce ne rendiamo conto).
Insomma, La Casa di Carta: miracoli e pallottole per nascondere il declino
E sorvoliamo per magnanimità su certuni scivoloni grotteschi, tipici di quando si deve allungare un brodo che ormai non sa più di niente. Ci riferiamo alla guardia più bastarda del creato, Gandia, che sopravvive miracolisticamente (ci vorrà un sacrificio eccellente, e smielatissimo, per accopparlo), o al patetico Arturito che si improvvisa carrista mitragliatore, in una scena comicamente demenziale.
Per tacere del macchiettisco team di spostati e psicopatici assoldati suo malgrado dal cagasotto Colonnello Tamayo per venire a capo di una riconquista della banca che nè polizia nè esercito riescono ad espugnare.
In sintesi: non ne hanno imbroccata una, stavolta, i finti compagni del reparto creatività de La Casa di Carta. Da fan in verità già a suo tempo disillusi, ci aspettavamo quanto meno che la tensione salvasse un’opera che nonostante tutto era stata in grado di appassionare. Ma la tensione qua è collassata sotto una gragnuola di proiettili, i pieni e i vuoti non si accordano più, i personaggi non conoscono più evoluzione (nè si può più ricorrere all’escamotage di farne saltare fuori di nuovi, cosa abbastanza riuscita con Palermo, l’altro fratello, omosessuale e figlio di buona donna, del Professore).
E noi assistiamo al declino di una serie come quando, per cazzeggio, ci capita di guardare certi video di Diego Fusaro, il disco rotto degli anti-sistema con cachet incorporato.
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