Nel luglio 2022 una piccola serie si è affacciata tra le nuove proposte Netflix, facendosi notare: Keep Breathing. Si tratta anzi, per la precisione, di una miniserie che dovremmo immaginare conclusa con i suoi 6 episodi da 30-40 minuti ciascuno. E di cui è interessante parlare, come vedremo, per ragioni che esulano le sue qualità intrinseche.
La trama: un piccolo aereo da turismo si schianta nel bel mezzo delle sconfinate foreste del Canada, inabissandosi in un laghetto. Era un volo non registrato, che nessuno verrà a cercare, e che lascia una sola superstite. Liv, una giovane e spigolosa avvocato americana, in viaggio per cercare di riconnettersi con la madre perduta da decenni. Dovrà dar fondo a tutte le proprie risorse – fisiche, mentali, spirituali – per riuscire a sopravvivere all’ostile natura selvaggia. Cercando con ogni mezzo un modo per tornare a casa.
Dicevamo che la miniserie ha saputo farsi notare. Pur senza particolare promozione, e sbucando fuori un po’ dal nulla proprio come nel nulla si ritrova la sua protagonista, Keep Breathing si è trovata a scalare rapidamente le classifiche della piattaforma streaming. In Italia e non solo. Conquistando posizioni di vetta che hanno a loro volta generato più attenzione mediatica e critica di quella che il piccolo show avrebbe ottenuto da sé. Ma, diciamo così, per le ragioni sbagliate. La maggior parte degli articoli che trovate si ferma infatti alla discussione sulla qualità della serie: merita davvero il successo che ha avuto? È giusto che sia arrivata al primo posto, o ai primi posti?
Liquideremo la questione nei prossimi due capitoletti. Per poi arrivare a ciò che ci interessa: perché Keep Breathing ha avuto più successo del previsto? Perché se ne è parlato più di quanto “meritasse”? La risposta è semplice: ed è nel suo genere.
Keep Breathing: come funziona…
Partiamo proprio da qui. Se non si è capito dalla sinossi della trama, Keep Breathing è un survival drama. Un dramma, insomma, con al centro una lotta per la sopravvivenza. A creare lo show sono stati Martin Gero e Brendan Gall. Il primo è associato ad alcuni prodotti di un certo rilievo: Blindspot, Stargate Atlantis, Bored to Death. Il secondo, che qui è lo sceneggiatore e co-sceneggiatore principale, lavora spesso con lui pur provenendo da una formazione più teatrale.
Dopo un breve setting, ci troviamo nel cuore del discorso: l’aereo, schiantatosi su un laghetto, affonda. Il pilota muore subito, l’altro passeggero poco dopo. Liv (l’attrice messicana Melissa Barrera, di recente cimentatasi nel quinto e sesto capitolo del franchise horror di Scream) approda a riva, e l’acqua gelida del lago è il primo assaggio della sfida principale che dovrà affrontare: sopravvivere al freddo che inizia a minacciare l’estate canadese. Serve un fuoco. E poi c’è il problema dell’acqua, e quello del cibo. Ci sono gli animali selvatici, tra cui un grande grizzly. E ovviamente l’orientamento: come fare a cercare di salvarsi, visto che nessuno verrà a salvare te.
In aggiunta alle sfide della sopravvivenza, Keep Breathing costruisce una dimensione personale, intima. Liv è in lotta contro la natura selvaggia e le sue insidie, certo: ma anche coi propri demoni. È una giovane donna tutta casa e carriera, al limite e forse oltre il limite della patologia nella sua difficoltà di rapportarsi in modo normale ad altri esseri umani. È sulle tracce di una madre mentalmente disturbata e artista, andatasene di casa tanti anni prima. E ha da poco sepolto il padre, con cui è cresciuta.
…e fino a che punto funziona
I ricordi che costantemente riaffiorano non sono elementi che svolgono una funzione solo emozionale. Al proprio passato Liv attinge per darsi forza, ma nel proprio passato cerca anche gli insegnamenti che le serviranno a vincere la “sfida del giorno”. Perché poi è appunto così: ogni episodio pone al proprio centro una sfida. Provare a salvare la vita dell’altro passeggero, sopravvissuto allo schianto iniziale ma gravemente ferito. Affrontare la fauna ostile. Accendere un fuoco e poi alimentarlo e tenerlo vivo. Rendere l’acqua potabile. Capire cosa si può mangiare, di quel che cresce nel bosco, e cosa no. Provare ad orientarsi. Elaborare un piano di fuga, e attuarlo.
Il costante dialogo tra presente e passato, tra le sfide che la protagonista ha di fronte e i tormentati ricordi della vita di prima, è quindi un elemento non accessorio ma strutturale. Che gli autori hanno scelto di usare per dare profondità emotiva alla vicenda. E magari anche per semplificarsi la vita rispetto alle difficoltà di reggere altrimenti 6 episodi con una sola attrice e nessun dialogo. Anche perché la Barrera si impegna ma, insomma, non è il Tom Hanks di Cast Away. Al contempo, si tratta di un elemento che episodio dopo episodio diventa meccanico. Sappiamo che in ogni puntata scopriremo qualcosa di più del suo passato: un passato, però, non certo interessante come quello che i flashback di Lost svelavano per ogni personaggio, via via, come abbiamo raccontato in questo articolo dedicato al mitico show.
In ogni caso, l’artificio è non solo un po’ ripetitivo ma anche, ahinoi, semplificatorio. C’è sempre, nel passato di Liv, qualcosa che la aiuterà a superare una sfida molto specifica. Una dinamica da videogame un po’ vecchio stile. E il riferimento ai videogiochi è qui cruciale, come ora vedremo.
La forza del genere survival
Dicevamo: più delle qualità intrinseche di un’opera che è comunque più che guardabile, nonostante qualche calo di tensione e una certa qual piattezza, in Keep Breathing a fare premio è il genere. Il survival, cioè il racconto di sopravvivenza. Diventato negli ultimi decenni – da sottogenere del filone d’avventura – caposaldo autonomo specie nella produzione cinematografica. Di che parla? Di individui, o a volte gruppi, che devono sopravvivere in condizioni estreme. C’è stato un incidente e ti trovi in mezzo al nulla. C’è stata una catastrofe locale o globale che rende ostile un ambiente un tempo familiare. Ti trovi alle prese con le insidie della natura selvaggia. È arrivata l’apocalisse sotto forma di zombie, di eventi atmosferici o climatici globali, di terremoti, di carestia e siccità.
Insomma, l’enfasi è sulle sfide – durissime – che si devono affrontare per fare ciò che facciamo ogni giorno senza darci pensiero: arrivare al giorno dopo. Poi è chiaro: se il protagonista è uno solo, il racconto prenderà una piega. L’individuo in lotta contro un mondo che gli è nemico. Se al centro del racconto c’è un gruppo, anche le dinamiche cambiano: assisteremo allora al tentativo più o meno riuscito di ricostruire un ordine, una sembianza della società perduta, un sistema. Spesso vedendoli poi collassare.
E tanti sono i modi in cui il genere mostra la sua popolarità. In letteratura, da Robinson Crusoe (capostipite del romanzo d’avventura vecchio di 3 secoli) in giù. Nella saggistica, con la proliferazione di guide di sopravvivenza per diversi scenari. Da quelle che insegnano a cacciare a quelle per riconoscere le piante commestibili. Dai manuali per imparare a costruirsi un rifugio nella foresta alle guide tattiche al survival urbano. Con associato merchandising, in fiorente ascesa.
Keep Breathing e i suoi antesignani: da Cast Away a The Martian
E ovviamente, al cinema e in tv. Solo per restare al nuovo millennio citiamo alcuni popolari esempi, interessanti per illustrare dinamiche diverse del genere. Partiamo da tre film d’autore: tutti hanno analogie con Keep Breathing.
Del 2000 è il già menzionato Cast Away, di Robert Zemeckis: un uomo (Tom Hanks) naufraga su un’isola deserta, deve sopravvivere e fuggire. Sempre la natura selvaggia ma una logica diversa in un film assai amato del 2007: Into the Wild, di Sean Penn, che racconta la storia vera di un americano che si addentra volontariamente nelle selvagge terre del gelido Nord. In cerca di se stesso e di una vita semplice e solitaria, per ritrovarsi – o forse per perdersi. Del 2015 è invece il fantascientifico The Martian, di Ridley Scott: ritorno al survival puro, ma nell’aliena ambientazione marziana da cui l’astronauta Matt Damon, rimasto solo sul pianeta rosso, deve fuggire. E gli esempi sarebbero infiniti.
Il mondo seriale non è da meno, anche se più recente nelle sue produzioni. Pensiamo anche solo a una delle serie iconiche del millennio, quella che reinventa il racconto d’avventura portandolo in una nuova epoca: Lost. Il punto d’inizio è il classico “naufragio”. E l’isola deserta, con le sue insidie, le sue sfide, la sua gabbia, resterà al centro delle sue 6 stagioni, come abbiamo raccontato nel podcast. Una logica scimmiottata da numeroso cloni, tra cui il recente e piuttosto orrendo The Wilds. Ma attenzione: survival è anche l’horror, per esempio quello del grande franchise di The Walking Dead, cui abbiamo dedicato articoli e podcast.
Il survival nei videogame
Ma persino più di cinema e tv è un altro medium ad aver glorificato il survival, sfruttandone magistralmente l’attrattiva e la popolarità. Il videogame. Cioè l’industria dell’intrattenimento più forte del nostro tempo, almeno in termini economici.
Sottogenere dei videogame d’azione, i survival vedono ambienti ostili e open world (cioè mondi esplorabili liberamente). I giocatori iniziano con un equipaggiamento minimo e devono sopravvivere il più a lungo possibile. Come? Raccogliendo risorse, eliminando le minacce, creando strumenti, armi, rifugi. I giochi survival negli ultimi anni hanno preso frequentemente la forma dell’horror: la sfida della sopravvivenza assume tinte soprannaturali, come un’apocalisse zombi.
Alcuni esempi di titoli degli ultimi anni aiutano a inquadrare le coordinate, e ci riportano a Keep Breathing. Il titolo più popolare di tutti è certamente Minecraft, divenuto dalla sua nascita (2009) uno dei giochi più amati da diverse generazioni di utenti. Minecraft in realtà è meglio definibile come un sandbox (per il grande grado di libertà creativa che si ha nella manipolazione del mondo), ma è spesso giocato nella modalità sopravvivenza.
Il survival può incrociare l’horror puro: in 7 days to die bisogna sopravvivere in un mondo post-apocalittico dominato dagli zombi. In The Forest la minaccia sono dei feroci cannibali, in un’isola deserta piena di foreste. Siamo nel cuore della giungla, ma con un’ambientazione più realistica, anche in Green Hell. Ovunque il mantra è lo stesso: cerca o costruisci un rifugio, procurati cibo, raccogli risorse, crea armi e utensili, trova medicine. Ambientazione marina invece per altri due titoli. Nel divertente Raft la chiave è la zattera del titolo, mezzo per esplorare un mondo in larga parte sommerso. Nel fascinoso e molto amato Subnautica, ci troviamo nel coloratissimo e minaccioso oceano di un pianeta alieno, dopo lo schianto della grande astronave che ci trasportava.
The Long Dark e Keep Breathing
La lista sarebbe infinita, come si diceva. Per tornare al tema da cui siamo partiti, vale la pena citare uno dei giochi più belli del genere: The Long Dark. Titolo del 2017 che presenta analogie non banali con la nostra serie tv.
Il gioco è ambientato in una vasta zona del Canada perennemente ricoperta da neve e ghiaccio, nella quale il giocatore si ritrova dopo lo schianto del proprio aereo. Nella modalità survival l’obiettivo del giocatore è quello di sopravvivere, il più a lungo possibile, al freddo e ai pericoli della natura (come ad esempio animali selvatici). Cercando di rimanere sufficientemente caldi, nutriti e idratati. In un ambiente ostile in cui anche solo procurarsi dell’acqua, o del cibo, è un compito sfidante.
I punti in comune con Keep Breathing sono così tanti da rendere legittimo interrogarsi sulla possibile ispirazione del videogame sulla serie. Come nello show, ogni cosa in The Long Dark può rappresentare una minaccia: la fauna, le malattie o i traumi fisici, le condizioni meteo. Fino ai terreni scoscesi, che da soli rappresentano un’ardua sfida. C’è persino, magica e sottilmente inquietante, l’aurora boreale che trasforma il cielo notturno.
Al di là di certe somiglianze, il discorso serviva a spiegare meglio la natura della serie. Che, come già avevamo osservato, proprio come un videogame struttura la materia narrativa e la tensione drammatica attorno a una serie di sfide. Certo, quello che è il bello della dimensione videoludica qua mostra i propri limiti: con una forma che, per una certa meccanicità di scrittura, è fin troppo lineare. Mentre per i giocatori la vera angoscia risiede proprio nella piena – paralizzante – libertà. E nella connessa paura di sbagliare.
L’arte di sopravvivere e la minaccia permanente del nostro tempo
Abbiamo detto: più che alle proprie qualità, Keep Breathing deve il successo che ha conosciuto alla popolarità del suo genere. E la carrellata tra cinema, tv e videogame serviva a rafforzare il concetto. Ma non si tratta solo di una forma di intrattenimento che funziona. Sapete come la pensiamo qui a Mondoserie: dove c’è fumo c’è arrosto. O almeno fuoco. Se un fenomeno è così popolare nei media culturali del nostro tempo significa che sta intercettando una tensione diffusa, una tendenza profonda.
Qui è il crescente impatto sociale del survivalism come movimento individuale e collettivo. I survivalisti (anche detti “prepper”) sono quelli tra noi che di fronte al rischio di emergenze si preparano in modo proattivo. Disastri naturali, crisi dell’ordine sociale, politico o economico, guerre, carenza improvvisa di risorse: il buon survivalista si prepara per una varietà di scenari. A breve o a lungo termine, su scala personale o locale o perfino globale. Come? Lavora sull’autosufficienza, sull’accumulo di scorte e sull’acquisizione di conoscenze e abilità di sopravvivenza, sull’individuazione o addirittura la costruzione di possibili rifugi.
Se pensate che si tratti di pochi lunatici sbagliate grosso. La recente pandemia ha solo accelerato un fenomeno che era in forte crescita da tempo. E che oggi vede linee di prodotti dedicati, un profluvio di popolarissimi format televisivi e online, dai reality alle guide, addestramenti e formazione. Basta farsi un giro su YouTube per rendersene conto.
E non è che in fondo la cosa debba stupirci. Non serve lo spettro del conflitto atomico per farci pianificare possibili vie di fuga, o per tenerci svegli nel cuore della notte. Nel mondo globalizzato e interconnesso di oggi, tutto è una minaccia potenziale. E l’apocalisse è, più che mai, dietro l’angolo.
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