In the Name of God: A Holy Betrayal (Nel nome di Dio: un sacro tradimento) è una sconvolgente docuserie sudcoreana del 2023. Lo scandaloso contenuto dei suoi 8 episodi riguarda le condotte criminose dei leader religiosi di 4 sette cristiane. La Corea del Sud è un paese assai fertile per le produzioni di Netflix. Serie e film coreani sono regolarmente inseriti nella Top 10 globale degli spettacoli più visti, in oltre 90 paesi. Ma In the Name of God ha una storia un po’ diversa. Oggetto di controversie fin dalla sua lavorazione, Netflix e la rete televisiva pubblica sudcoreana MBC sono state a suo tempo diffidate dal mandare in onda il documentario.
Il primo dei soggetti presi in esame dalla docuserie è la Christian Gospel Mission, conosciuta anche come Jesus Morning Star – JMS, le stesse iniziali del suo controverso leader: Jeong Myeong-seok. Ed è proprio la JMS che per prima ha intimato lo stop alla docuserie, con le seguenti motivazioni: è tutta finzione, viola il principio della presunzione d’innocenza e anche quello della libertà di culto. Si ritiene poi che l’organizzazione abbia perso soldi al ritmo di più di 3 milioni di dollari per ogni episodio andato in onda. Ad ogni modo la corte del distretto ovest di Seoul ha stabilito che il documentario era per lo più basato su un considerevole numero di fatti oggettivi.
Poteva dunque andare in onda.
La depravazione di Jeong Myung-seok
Il disturbante incipit è la registrazione audio di una conversazione, per così dire, post coitale. Lui si complimenta con lei, lodando i suoi larghi fianchi e chiedendole insistentemente dei suoi orgasmi, prima di dichiarare l’incredibile numero di quelli da lui raggiunti… Maple, il nome dato a questa ex seguace di JMS, conferma di essere stata una delle vittime della depravazione del leader. Dice di aver pregato il Signore in quei momenti, non sapendo a chi altri potersi rivolgere.
Jeong Myung-seok, in un video, afferma candidamente davanti ad una folla esultante: “You say you can’t see God. Well, just look at me. Here’s God” (Dite di non riuscire a vedere Dio. Beh, guardatemi… ecco Dio). Segue una breve clip con cinque ragazze nude con una foto del loro Messia, mentre lo chiamano e lo invitano a fare un bagno con loro. Sono prostitute pagate per infangare il nostro leader – replica la JMS. Ma è stato appurato le ragazze essere invece membri effettivi dell’organizzazione.
Jeong aveva già trascorso 10 anni in carcere per aver violentato tre sue seguaci sudcoreane nel suo periodo ‘oltreoceano’, tra il 2003 e il 2006. Per la JMS il profeta stava diffondendo in altri paesi la volontà di Dio. In realtà aveva lasciato la Corea del Sud proprio a causa del mandato d’arresto pendente sul suo capo per le accuse di stupro. Venne in seguito forzatamente rimpatriato dalla Cina nel 2008. Per poi essere infine rilasciato nel 2018, e costretto ad indossare una cavigliera elettronica. I suoi ultimi capi d’imputazione – in ordine di tempo – riguardano stupri e tentati stupri (in totale ben 17!) tra il 2018 e il 2021. Quindi dopo essere uscito di prigione.
Un secondo Cristo (in fuga)
Il vecchio Jung Myung-seok nega tutto e minaccia querele a destra e a manca. Pare che altre donne – anche dal Giappone e da Taiwan – stiano pensando di denunciarlo. Lui, imperterrito, proseguiva le sue orge a prescindere dai capi d’imputazione in Sud Corea. A Taiwan sembra sia arrivato ad abusare di un centinaio di ragazze del college – il suo genere di vittime preferite. Quando la polizia taiwanese si interessa al suo caso, il vecchio è già ad Hong Kong. Volerà infine in Cina, nonostante i mandati di cattura internazionali. Senza mai frenare la sua scandalosa frenesia erotomane.
Né le sue rocambolesche fughe all’estero né la prigione hanno potuto fermare la libido di Jung Myung-seok. Con l’aiuto dei suoi fedelissimi, continuava a ricevere video e foto delle ragazze più piacenti della sua congrega. Dopo averle selezionate, queste venivano letteralmente recapitate in pasto alla belva. Senza sapere a cosa andavano incontro. Anzi, innocentemente eccitate all’idea di essere state convocate dal loro Messia.
Le agghiaccianti rivelazioni sul maniaco sessuale, per oltre 20 anni a capo di JMS – che sognava di arrivare a possedere 10.000 femmine (bambine comprese) – occupano i primi 3 episodi. Questo particolare culto, attivo tutt’oggi a partire dagli anni ’80, avrebbe la missione di diffondere la parola del Vangelo presso i college e le università. Divenuto subito celeberrimo, il culto in questione è arrivato a vantare decine e decine di migliaia di affiliati. I più esaltati tra i fedelissimi sarebbero pronti a sacrificarsi e persino ad uccidere pur di difendere il loro leader. Egli stesso si proclama un secondo Messia e un secondo Cristo. Non mancano nemmeno predizioni e miracoli vari.
In the Name of God: l’assoluta castità e la minaccia dell’inferno
A ricostruire la maggior parte delle malefatte di JMS è il professore Kim Do Hyung, che da più di 20 anni guida una battaglia contro l’organizzazione cristiana e il suo leader. Tanto da essere diventato, durante questo periodo, il nemico numero uno del profeta. Che lo ha marchiato come Satana. L’anziano padre del professore è stato per questo selvaggiamente aggredito e picchiato. Ne è uscito con la mascella distrutta e cieco da un occhio.
In pratica Jung Myung-seok è ritenuto la manifestazione di Dio in terra. E le fanciulle più graziose di JMS costituivano il gruppo delle ‘spose di Dio’. Per questo è sempre stato così facile per lui abusare di donne e anche bambine. Nessuno e nessuna poteva dirgli di no, perché sarebbe stato come dire no allo stesso Signore. E la ‘sposa di Dio’, dopo essere stata abusata da lui, non poteva più avere rapporti con altri uomini. Perché ciò l’avrebbe condotta all’inferno. Nel frattempo lui predicava sfacciatamente l’assoluta castità come condotta ideale a tutti i suoi seguaci.
“I could barely sleep at night thinking about the event, but I think I know why he did it…” dice Amy, una fedele australiana da lui abusata. “He was cleaning me, forgiving me and making me his. I thought about how Jesus did strange things when he made miracles…” (Faticavo a dormire la notte ripensando a quanto era successo, ma credevo di aver capito perché l’avesse fatto… Mi aveva purificato, perdonato e resa sua. Ho pensato anche a come Gesù avesse fatto cose strane durante il compimento dei miracoli…).
Lo schema Ponzi di Five Oceans
In the Name of God affronta il lato oscuro della fede in questi sedicenti messia. Una fede che non può mai essere messa in discussione. Perché questi manipolatori narcisisti e sociopatici convincono tranquillamente il prossimo di essere l’incarnazione di Dio in terra. Oltre alla JMS, divenuta in seguito agli scandali la Christian Gospel Mission, gli altri culti cristiani – tutti in odore di eresia – e i loro leader presi in esame sono: Five Oceans, Baby Garden, e Manmin Central Church. I testimoni sono sempre ex membri di queste congreghe, la cui identità viene protetta per timore di ritorsioni. Minacce e intimidazioni non sono una novità per questa gente. I cui membri sono arrivati a rapire e picchiare a sangue ex affiliati ribelli o chiunque cercasse in genere di smascherarli.
Il quarto episodio riguarda i Five Oceans, guidati da Park Soon-ja, che finiscono in un suicidio (omicidio?) di massa. Nel 1987 una trentina di seguaci – 28 donne e 4 uomini – vengono trovati impiccati nell’ampio soppalco di una fabbrica di proprietà della setta. Ma molte cose non tornano. Ci sono segni di violenza e costrizione. Anche sulla stessa leader.
La quale si era da giorni lì rifugiata, assieme ai suoi fedelissimi. La chiesa, nonostante avesse fatto sparire decine di miliardi di won, era infatti più o meno misteriosamente sprofondata in un mare di debiti. Nonostante Park Soon-ja, considerata un’imprenditrice di successo e una filantropa, avesse per anni letteralmente schiavizzato i suoi seguaci. Era chiamata anche Santa Madre. E costringeva i suoi adepti e i loro parenti a ‘prestare’ tutti i loro risparmi, promettendo altissimi tassi d’interesse (fino al 40%). Ma si trattava soltanto di un classico schema Ponzi. La congrega religiosa era un paravento. Con macabro finale.
In the Name of God: l’orrore del Baby Garden
Di orrore in orrore: stupri, sequestri, abusi. Sorvolando sull’uso improprio dei fondi della Chiesa. Fino ad arrivare all’omicidio. Il quinto e il sesto episodio raccontano la sconvolgente storia del Baby Garden di Kim Ki-Soon, nato nel 1982. E di Nak-Gwi, un bambino di 5 anni lasciato a marcire per giorni in un porcile, in piena estate. A digiuno e senz’acqua. Infine, picchiato a morte. Tra gli altri, dalla sua stessa zia.
Nome ingannevole Baby Garden: infatti quel Baby non è riferito ai bambini ma alla stessa leader, ‘Aga’, nata senza peccato. E tuttora senza peccato, come un’infante (aga in coreano). Nonostante sul finire degli anni ’90 ‘Aga’ venne incarcerata per 4 anni per evasione fiscale e sfruttamento di manodopera. Kim Ki-Soon, alias Aga, con i soldi della comunità religiosa aveva comprato un vasto terreno. Costruendovi anonimi capannoni che fungevano da fabbrica, mensa e dormitorio. Questo era l’Eden promesso, che sarebbe sopravvissuto alla vicina Apocalisse. E Aga era naturalmente la reincarnazione femminile di Gesù Cristo. Manifestazione del divino in terra.
Si doveva amare soltanto lei. E ripudiare la propria famiglia. Padri, madri, mogli e mariti. Figlie e figli. Soprattutto se in tenera età. Costretti ad andare in città a mendicare, in una situazione così delirante, spesso i bambini si ribellavano. Comportandosi come indemoniati. Per Kim Ki-Soon lo erano davvero. E il diavolo andava estirpato a suon di crudelissime privazioni. A forza di calci e pugni. Nel caso raccontato, il cadavere venne fatto sparire – con il consenso della madre. Che oggi racconta questi fatti strazianti, piangendo a gran voce, picchiandosi la testa e augurandosi la morte. Eppure allora fece assolvere la folle leader del Baby Garden.
Il guaritore della Manmin Central Church
Aga faceva quotidianamente sesso con tutti gli avvenenti giovanotti della sua comunità. Predicando l’astinenza a tutti gli altri. E arrivando ad eliminare fisicamente una più giovane e graziosa concorrente. Alla fine, le vennero imputati tre omicidi. Ma i corpi non vennero mai ritrovati. Così lei venne nuovamente assolta. E oggi denuncia bellamente Netflix e la rete MBC per calunnia e danni d’immagine. In the Name of God, of course.
Gli ultimi due episodi riguardano il culto della Manmin Central Church. Nel 1999 i suoi seguaci irruppero in una stazione televisiva (sempre la MBC) per interrompere la messa in onda di un’inchiesta giornalistica su Lee Jae-rock, il loro leader. Lee Jae-rock era ritenuto essere un santo dai magici poteri, capace di guarire da ogni male. Peccato che il tutto fosse solo una truffa, nemmeno tanto elaborata, con classica messinscena, complici, giochi di luce, effetti sonori ecc. Il tutto a solo scopo di lucro. E i soldi arrivavano a palate, grazie a donazioni varie e ad una sorta di ticket da versare per ricevere una sua benedizione (sic).
Dopo essersi dichiarato un secondo Cristo, ha deciso di inscenare per ogni suo compleanno la discesa in terra del Santo Padre. Così ogni anno Lee Jae-rock, davanti a centinaia e centinaia di fedeli, passeggia conversando amabilmente con una presenza invisibile. Per non farsi mancare nulla, ci sono anche accuse di varie violenze sessuali. E la Manmin Central Church è tuttora esistente e vanta migliaia di adepti.
In the Name of God Season 2
Nel XXI° secolo Jae-rock è persino riuscito ad esibirsi in uno dei suoi show spirituali e curativi al Madison Square Garden di NY. Da allora ha aperto vari negozi, dove vende articoli sacri di varia natura a caro prezzo. Su tutti la sua acqua miracolosa, rimedio per ogni malattia. Il profeta guaritore ha infatti convinto i suoi che recarsi in ospedale è un peccato mortale. E così gli si possono indirettamente addebitare decine di decessi assolutamente evitabili. Nel 2018 è stato finalmente condannato a 15 anni di prigione, per aver stuprato 9 sue seguaci. Ma, credendolo eternamente giovane e ovviamente immortale, in molti attendono ancora il suo ritorno.
Il produttore Cho Sung Hyun dice che in questa docuserie viene probabilmente mostrato solo il 10% del marcio sepolto in queste sette. Nonostante ciò, molti non riescono ad andare oltre i primi 10 minuti di visione. Cho Sung Hyun confessa di essersi appassionato all’argomento proprio perché alcuni suoi familiari erano stati vittime di queste sette. La faticosa lavorazione di In the Name of God è durata due anni, durante i quali sono state intervistate quasi 200 persone. E durante i quali lo stesso produttore ha ricevuto minacce e intimidazioni. Che, assieme al lavaggio del cervello, l’isolamento sociale e le connessioni altolocate, sono alcune delle più potenti armi a disposizione di una setta.
Con questa docuserie, Cho Sung Hyun auspica di contribuire ad una presa di coscienza generalizzata, tale da impedire in futuro il compiersi di tali orride nefandezze nel suo paese. Come in altri: documentari come Wild Wild Country, Keep Sweet: Pray and Obey o The Family raccontano gli oscuri retroscena dietro la facciata di gruppi e congreghe cristiane e non. Ma quasi sempre in nome di Dio. Per questo motivo potrebbe forse esserci in un prossimo futuro una seconda stagione di questa intensa e sconvolgente docuserie.
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