Il metodo Kominsky (The Kominsky Method) è un piccolo, delizioso, irresistibile show Netflix vincitore di due Golden Globe. Che ha avuto il coraggio, nelle sue tre stagioni (2018-2021), di affrontare di petto e raccontare alcuni dei tabù più forti della società contemporanea. Tra cui il più problematico di tutti: la vecchiaia. Con alcuni dei suoi derivati: la malattia, la solitudine, l’ombra della morte.
Beninteso: si tratta di una commedia, e i toni sono ovviamente da commedia. Per cui si ride, e di cuore: ma abbracciando al contempo, con coraggio, una vena malinconica che sarebbe disonesto – e puerile – nascondere.
Uno show piccolo e però cresciuto nel tempo, anche produttivamente (come vedremo meglio dopo parlando del cast di insieme). Fatto di 22 episodi da circa 25-30 minuti (8 nella prima e seconda stagione, solo 6 nella terza). Ma uno show intenso, intelligente, e difficile da non amare. Grazie soprattutto a due leggende del cinema come Michael Douglas e Alan Arkin: insieme, semplicemente sublimi.
Qui trovate il trailer originale della stagione 1. Qui invece trovate la versione italiana dello stesso trailer, per meglio apprezzare lo scempio del doppiaggio. Qua sotto, infine, il trailer della stagione 2.
Che cos’è Il metodo Kominsky e di che parla
La serie racconta la storia di Sandy Kominsky (Michael Douglas), un attore che anni addietro ha avuto un breve momento di successo. Il successo non è durato, e il vecchio Sandy è ora un apprezzato insegnante di recitazione per giovani aspiranti attori di Hollywood. Il “metodo” del titolo è appunto il suo metodo di insegnamento.
Ma anche, forse, il suo metodo per navigare la vita. Sandy è divorziato, lavora con la figlia Mindy (Sarah Baker) nella sua scuola di recitazione, si capisce che sarebbe ancora un donnaiolo ma sempre meno convinto. In parte per qualche guaio alla prostata che lo affligge, in parte forse per una non dichiarata ricerca di una qualche forma di stabilità affettiva.
Che ha poi in realtà nel suo migliore amico, Norman Newlander (Alan Arkin), di qualche anno più vecchio di lui, agente dei divi di grandissimo successo che si sta ritirando un po’ a malincuore dall’attività. Norman ha una figlia (Lisa Edelstein) che entra ed esce dalla riabilitazione, e nella prima puntata lo vediamo diventare vedovo: il rapporto con la moglie morta sarà una delle chiavi del suo personaggio.
La serie racconta, primariamente, l’amicizia tra queste due figure che sono o appena entrate (Sandy) o ormai stabilmente (Norman) nell’autunno della vita.
Se Il metodo Kominsky funziona è certamente merito del creatore e showrunner Chuck Lorre, il re della sitcom, che qui ha azzeccato un mix particolarmente riuscito. Tra i suoi grandi successi: The Big Bang Theory, Due uomini e mezzo, Dharma & Greg, Young Sheldon. Ma l’elenco sarebbe lungo.
E, ovviamente, è merito dell’azzeccatissimo cast.
Un cast formidabile anche tra i comprimari
Ovvio che uno show come questo non potrebbe funzionare senza due protagonisti eccezionali.
Michael Douglas, che durante la serie aveva, come il suo personaggio, 75 anni (ho dovuto controllare due volte), è una delle icone del cinema degli ultimi decenni. Con sugli scaffali due Oscar, quattro Golden Globe (di cui uno proprio per Il metodo Kominsky), un Emmy. E così tanti film di successo che sarebbe inutile citarli.
Alan Arkin (che di anni ne ha 10 di più) ha attraversato nella sua lunghissima carriera tutti i generi del cinema americano dagli anni ‘60 ad oggi, arrivando infine a vincere un Oscar nel 2006 con Little Miss Sunshine.
Ma è tutto il cast d’insieme di questa commedia ricca di personaggi e riuscite caratterizzazioni a funzionare. Oltre ai nomi già citati è impossibile non menzionare tre attori che entrano nella seconda stagione e poi si stabilizzano nella terza, diventando centrali. In primis Kathleen Turner nei panni della ex moglie di Sandy, poi Paul Reiser come fidanzato della figlia di Sandy, quindi Haley Joel Osment (il nipote di Norman).
I temi de Il metodo Kominsky e la scelta di attori iconici
Il cast riflette in modo magistrale i temi della serie, a partire dall’invecchiamento: anzi, li incarna. Scegliendo attori che sono stati, a vario titolo, iconici di alcuni momenti o decenni: gli anni ‘80, i ‘90, il passaggio di millennio. E mostrandoceli oggi, senza nessun tentativo di nascondere i segni del tempo.
Osment è stato, 20 anni fa, il bambino prodigio de Il sesto senso e subito dopo di A.I. (Intelligenza Artificiale). Reiser è la star maschile della popolare sitcom anni ‘90 Innamorati pazzi. La Turner…. beh, la Turner è stata una delle icone sexy degli anni ‘80. Dando vita, proprio con Michael Douglas, alla coppia da grande schermo più forte e attraente del decennio: All’inseguimento della pietra verde, Il Gioiello del Nilo, La guerra dei Roses.
Gli anni si riflettono sul volto di tutti questi attori, con grande evidenza. Ma nel caso dell’attrice iconica di titoli come Brivido Caldo, dopo anni difficili per problemi di dipendenza e una sostanziale lontananza dallo schermo, è soprattutto la voce a riportarci indietro: calda, roca, sensuale come la ricordavamo.
Tutta un’altra serie di volti noti concorre a dare la stessa sensazione, e a rimarcare il tema di fondo de Il metodo Kominsky. Appaiono con ruoli significativi nella prima stagione Danny DeVito (un divertente urologo) e nell’ultima Morgan Freeman (nei panni di se stesso, e in un coraggioso sketch che mette in burla l’attuale ossessione americana per i pronomi legata alle politiche di gender).
Ma appaiono anche, come guest star, altri volti noti, e in alcuni casi iconici di interi decenni: Jay Leno, Elliot Gould, Bob Odenkirk, Allison Janney, il regista Barry Levinson.
Appunto, il tempo che passa.
Il coraggio di raccontare la vecchiaia – e la morte
Il metodo Kominsky ha, dicevamo, il coraggio di affrontare argomenti più o meno tabù (in particolare nella terza stagione di cui potete vedere il trailer qui: attenzione, contiene spoiler sulla serie!). Per esempio nelle numerose e incisive punzecchiature contro Scientology, cosa non da poco nei dintorni di Hollywood. O nella già menzionata tirata sui pronomi che irride, piuttosto bonariamente, l’attuale ossessione americana per il diritto a un’autodeterminazione sessuale che diventa anche linguistica.
Ma ovviamente, e soprattutto, mostra il suo coraggio nel raccontare la terza età, la vecchiaia, gli acciacchi, le malattie, l’ombra della morte. Facendoci comunque ridere (molto) perché in fondo è e resta una commedia leggera, seppur con venature drammatiche e più di un momento commovente. Ma scegliendo appunto di raccontare una fase della vita che è tanto importante quanto psicologicamente e prima ancora culturalmente rimossa. Nascosta alla vista.
Il che è ancora più paradossale se si pensa a quanto invece la terza età sia e sarà sempre più centrale, da tutti i punti di vista. La vecchiaia dura di più, perché l’aspettativa di vita si allunga (grazie a scienza, medicina, alimentazione). Insieme al calo della natalità, l’aumento dell’aspettativa di vita determina anche l’aumento percentuale della parte anziana di popolazione.
E il paradosso è questo: abbiamo una popolazione che è sempre più anziana e che ha sempre meno giovani (specie nel mondo occidentale, mercato ancora primario per serie e film). Eppure negli ultimi anni sono aumentati vertiginosamente non solo i prodotti specificamente pensati per un pubblico giovane o giovanissimo, ma soprattutto i prodotti che parlano di adolescenza e dintorni. Il filone del teen drama, come quello young adult, sono diventati produttivamente centrali: e non perché ci siano più spettatori giovani, ma perché di gioventù si vuole parlare. Forse solo di quella.
La morte (la morte come elemento dotato di significato, non i morti un tanto al chilo del cinema d’azione) è un tabù anche linguistico, come raccontavamo in una puntata del podcast parlando del capolavoro Six Feet Under. Ma anche la vecchiaia lo è.
Il metodo Kominsky colma questa lacuna, con garbo, intelligenza, ironia, e una non piccola capacità di commuovere. Specie nella terza stagione (qui il trailer, che contiene spoiler): tutta vissuta sotto l’ombra della mancanza e del lutto.
Il sottomondo dei corsi di teatro è al centro anche della splendida black comedy Barry, di cui abbiamo parlato qui.