Il complotto contro l’America, 6 puntate, Sky.
«Ucronia» è una parola sempre più diffusa. L’ucronia è quella branca dell’arte fantastica che immagina una storia alternativa, motivo per cui qualcuno parla di «storia alternativa», «allostoria», etc.
L’ucronia, è, in pratica, una storia che avviene in universi paralleli.
L’ucronia, oramai, non pertiene più solo alla storia della letteratura e del cinema, ma sta diventando parte di credenze comuni: forse avete sentito parlare del Mandela Effect, l’idea per cui una parte significativa della popolazione è convinta di aver sentito con le proprie orecchie, negli anni Ottanta, la notizia della morte di Mandela in carcere. Essi sostengono quindi di trovarsi ora – con il sudafricano messo prima a capo del Sudafrica post-apartheid e poi santificato in mondovisione ai mondiali di calcio 2010 – in una realtà giustapposta alla nostra.
Mike Bongiorno e l’uccello ucronico
Non li biasimiamo. Per anni milioni di italiani, e non scherziamo, erano convinti di aver udito personalmente Mike Bongiorno dire alla partecipante del suo quiz Rischiatutto, l’indimenticabile signora Longari, di esserle «caduta sull’uccello» (aveva risposta in modo errato ad una domanda ornitologica).
Non era vero niente, ma lo si è appreso solo pochi lustri fa, quando i due comparvero insieme in una trasmissione TV e smentirono questa versione della storia che perdurava da decenni: quelle parole non furono mai pronunciate.
Si consultarono le Teche RAI, era vero: Bongiorno era innocente, nessuna signora Longari era precipitata su pennuti di chicchessia, la colpa probabilmente era di Renzo Arbore che aveva fatto una battuta nella trasmissione L’altra domenica.
Milioni di italiani hanno quindi vissuto in un universo parallelo?
Vabbè, stiamo divagando. Ma dai, ci stava: gli universi paralleli sono molto più vicini a noi di quanto sembra.
Prima de Il complotto contro l’America: Ucronia for dummies
Il genere dell’ucronia di per sé lo si considera come materia da Urania Mondadori (dimenticandosi, magari, che la collana fu diretta da Fruttero&Lucentini).
Tuttavia si cimentarono con questa idea autori del calibro di Vladimir Nabokov (che in Ada o ardore inventò un’America conquistata in parte dalla Russia dello Zar), Michael Chabon (che ne Il sindacato dei poliziotti yiddish immagina che lo Stato di Israele venga distrutto e che gli ebrei emigrino in grossa parte in Alaska), Guido Morselli (che in Contro-passato prossimo immagina l’Italia sconfitta nella I Guerra Mondiale).
Il caso più bizzarro di ucronia è forse quello offerto da Il signore della svastica (1972), un libro che finge di essere stato scritto in realtà da un Adolf Hitler che, fallite le sue ambizioni politiche in casa, emigra in USA (più precisamente, nella decadenza di Coney Island, luogo ideale per persone solitarie e fallite) e diventa un autore di libri fantasy, dove uomini di razza pura, dopo l’olocausto nucleare, devono vivere in Stati decadenti abitati da mutanti inferiori. Il libro in realtà lo scrive Norman Spinrad, e l’operazione, semioticamente innovativa (una storia nella storia, dove il racconto vale meno della sua cornice – Adolf Hitler scrittore in USA), vinse diversi premi, peraltro gli stessi vinti dall’Hitler ucronico: insomma, un’abissale satira delle tendenze fasciste della fantascienza coeva che risultavano, anche allora, evidenti.
“E se Hitler…”. L’ossessione ucronica per il nazismo
Già, l’Adolfo.
Per anni l’ucronia più evidente affrontata da letteratura e film è quella riguardante il più evidente trauma violento subito di recente dall’umanità: la Seconda Guerra Mondiale.
Vi sono numerosi film, passati e recenti, che hanno osato chiedersi cosa sarebbe successo se l’avanzata hitleriana non fosse stata fermata.
Sull’idea di una vittoria dei nazisti e la loro conquista del mondo hanno intinto le penne grandi autori come Robert Harris (Fatherland, poi divenuto film con Rutger Hauer) e Philip K. Dick, lo scrittore che prendeva più seriamente l’idea: perché di fatto, racconta Emmanuele Carrère nel suo Io sono vivo e voi siete morti, Dick credeva di vivere in una ucronia reale, di essere in un ramo di un multiverso dove nella timeline principale l’Impero romano era ancora vivo e comandava su tutto.
Se avete visto Loki, potete visualizzare di cosa stiamo parlano. Linee temporali che si frangono, e innumeri varianti di noi stessi ad abitare ogni universo.
The Man in the High Castle, in italiano La svastica sul sole, è forse il romanzo di Dick più riuscito, anche stilisticamente – e certo non si tratta di un autore che brilla per lo stile. La serie che Amazon ne ha tratto, con la bellissima Alexandra Davalos e l’eccezionale Rufus Sewell, divaga e non chiude bene, ma un mondo spartito tra la Germania nazista e il Giappone imperiale lo descrive con una certa efficacia.
Philip Roth e il «Grande Romanzo ucronico Americano»
Philip Roth, considerato sino alla sua morte tra i massimi narratori statunitensi – e uno dei papabili realizzatori del «Grande Romanzo Americano», chimera perennemente inseguita da critici e storici della letteratura (che Roth aveva già omaggiato scrivendo un romanzo sul Baseball chiamato, appunto, Il Grande Romanzo Americano) – provò anche lui il brivido dell’ucronia nazista.
Il colpo di genio, tuttavia, fu di far accadere la vittoria di Hitler non dopo la guerra, ma prima. Non sui campi di battaglia, ma alle elezioni. Non sul fronte europeo, ma in patria. Non sotto le sue insegne, ma sotto quelle di una figura realmente esistita, e che, popolarissima, davvero le elezioni ad un certo punto poteva vincerle sul serio, su una piattaforma, quella detta America First, che da Woodrow Wilson (1916) riemerge poi con Trump all’altezza delle elezioni 2016: per sintesi, diciamo che si tratta (almeno in politica estera) di una forma di isolazionismo, cioè della volontà di ridurre o eliminare il proprio coinvolgimento negli affari e nei conflitti di altri Paesi.
Nel racconto di Roth, le presidenziali 1940, le elezioni che determinarono l’entrata in guerra degli USA ancora apparentemente neutrali e quindi il destino del mondo tutto, vengono vinte da Charles Lindbergh, il famosissimo, amatissimo, aviatore che per primo compì una trasvolata in solitaria dell’Oceano Atlantico.
Il complotto contro l’America, Lindbergh e gli ebrei del New Jersey
Nella nostra realtà, nel 1940 Lindbergh aveva in effetti dato segni di voler effettuare una discesa in campo: alla Yale University creò l’America First Committee, che tra gli 800.000 iscritti vedeva anche i futuri presidenti Kennedy e Ford. L’America First era nata per opporsi all’interventismo del presidente Franklin Delano Roosevelt.
Le simpatie per la Germania (la sua aviazione, in particolare) e per il nazionalsocialismo erano note e, allora, non costituivano un tabù: Lindbergh dichiarava che gli ebrei americani stavano spingendo per la guerra «per ragioni non americane».
La sua popolarità era immane, cresciuta anche dalla tragedia che colpì la sua famiglia: nel 1932 il figlio, Charles jr., fu rapito e poi trovato morto, nonostante fosse stato pagato il riscatto. Il bambino, che era il primogenito, aveva poco più di un anno e mezzo.
E quindi: cosa sarebbe successo se Lindbergh si fosse candidato alle elezioni e avesse vinto?
Il libro di Roth è del 2004, ma sembra davvero parlare al mondo di tre lustri dopo, quando la miniserie HBO (in Italia trasmessa da Sky Atlantic) è stata realizzata.
La prospettiva, sottolineata dalla serie, è quella di una famiglia piccolo-borghese dell’ebraismo suburbano del New Jersey.
Il pater familias è costernato dall’ascesa di un antisemita alla Casa Bianca, i bambini vivono l’ammirazione per questo giovane presidente volante, il loro zio prova un risentimento tale da spingerlo al fronte a combattere per gli inglesi, la madre non ha idea di come tenere in piedi la famiglia in un momento in cui potrebbero essere costretti a fuggire (in Canada, forse) dai pogrom nella loro nuova versione americana.
La ricostruzione dell’America dell’epoca è impeccabile, viscontiana: case, uffici, negozi, officine, strade, automobili, aerei, campagne, come in Boardwalk Empire ed altre serie in costume viste in questa age d’or della serialità televisiva, ogni cosa è riprodotta con dettaglio maniacale.
John Turturro vale tutto
Gli attori ce la mettono tutta, ma sono in ruoli che è difficile, se non impossibile amare. Morgan Spector (un volto mediterraneo già visto in Homeland) è un capofamiglia lamentoso ed irrisolto, un personaggio stabile nella rabbia, che pare non subire trasformazioni nell’arco della storia, ma trovare (noiosamente, per lo spettatore) solo conferma alle sue opinioni politiche.
Zoe Kazan ha un volto che pare uscito davvero da quegli anni, ma il personaggio pare esistere solo per manovrare lo spettatore sempre più nell’ansia e nell’angoscia, o più esplicitamente in un senso di impotenza tutto ebraico davanti alla possibilità che l’ennesima persecuzione colpisca gli israeliti. (Curiosamente, la Kazan è nipote del grande regista di Fronte del Porto Elia Kazan, che però ad una persecuzione, il maccartismo, partecipò convintamente nella parte del delatore dei colleghi di Hollywood).
Winona Ryder, dopo il mai superato trauma dell’arresto per shoplifting, finisce sempre in parti di volubili donne dove la promiscuità si mischia all’irresponsabilità e alla demenza.
Tuttavia, se c’è un attore per cui vale la pena di guardare i sei episodi, quello è – avevate dubbi – John Turturro. Il grande interprete qui veste i panni di un rabbino «collaborazionista», cooptato al potere da Lindbergh come prova vivente contro l’antisemitismo dell’amministrazione. Turturro dà una dimensione dolorosa al percorso del religioso Quisling della situazione, che arriva a sviluppare e farsi approvare generosi programmi di integrazione degli ebrei nelle campagne e nelle fabbriche levandoli dalle grandi città, ma alla fine paga il fìo del grande complotto contro l’America.
[SPOILER] Hitler telecomanda Lindbergh perché è stato lui a rapirgli il figlio. La teoria, all’epoca e forse anche oggi, circolava.
Battaglia tra le anime degli USA
Non si tratta di una visione facile, resa ancora più abissale dai numerosi ammiccamenti alla realtà dell’era Trump. I realizzatori – tra cui l’autore della serie-capolavoro The Wire David Simon e l’attore e cineasta Ed Burns – non perdono occasione per sottolineare che si tratta di un’opera nella quale si riflette riguardo a come l’odio possa trasformare una nazione, incancrenendo i rapporti tra gli esseri umani, generando caos e violenza, e grande confusione riguardo a quelli che dovrebbero essere i valori fondanti di un Paese democratico.
A sette mesi dalla salita alla Casa Bianca di Joe Biden, tutto questo sembra archeologia.
Tuttavia le domande che pone la serie, anche da un punto di vista politico, storico, sono più che mai attuali: quale parte dell’America deve prevalere? Come riconciliare le anime del Paese?
Si tratta del momento tanto temuto dal presidente Richard Nixon e dal suo consigliere elettorale Kevin Phillips: la spaccatura fra le componenti storiche della società USA – quella tra i primi pellegrini puritani sbarcati nel Nuovo Mondo (gli White Anglo Saxon Protestant) e i successivi immigrati europei, che vollero, oltre agli articoli della Costituzione, i suoi emendamenti, e si riconobbero nel «populismo» del presidente Andrew Jackson.
Spaccatura che, se lasciata lì, porta inevitabilmente alla guerra civile, che è l’ombra che si dilunga su tutta la serie (o, ancora peggio, l’impossibilità di combattere una guerra civile, perché schiacciati da una maggioranza netta) e pure nella realtà americana odierna.
Nella serie si ha il paradosso, non sempre sostenibile dalla logica, che a rifiutare l’integrazione sono proprio gli ebrei secolarizzati, pronti perfino ad allearsi con gli italiani mafiosi (nel New Jersey: sono per caso antenati ucronici dei Sopranos? Il canale televisivo, HBO, è lo stesso…) pur di resistere alla componente nordica della società statunitense (WASP, scandinavi ma anche tedeschi – la stragrande maggioranza degli immigrati dell’America rurale, dove la lingua di Goethe è tutt’ora la terza più parlata).
Il complotto contro l’America: perché guardarla
E in più, lo spettacolo è vedere come gli echi tra finzione e realtà dell’era trumpiana arrivino a contraddizioni ancora più grottesche: come nel finale, con il tentativo di alterare le elezioni da parte degli America Firsters.
Ma tra realtà e finzione, qui non tutto è asimmetrico: tra i pellegrini puritani vi erano, oltre che gli antenati dei Bush, dei Taft e di una serie di altre famiglie al comando dell’America da secoli, anche i Roosevelt. Come dire, rivogliamo l’aristocrazia puritana contro il cafonauta Trump e l’armata dei suoi caucasici (ma non solo) deplorables.
Il complotto contro l’America è una favola per questi tempi neopuritani, dove le aristocrazie si re-installano (in politica, ma anche negli oligarcati Big Tech) in nome del neopuritanesimo fondamentalista del politicamente corretto.
Non siamo sicuri che il risultato sia rassicurante, ma se vi capita mai di fare pensieri di collasso e apocalisse sociopolitica – magari figurandoli nel quadro europeo ed italiano – vale la pena di affrontare queste sei ore di ucronia d’autore.
Giudizio: difficile, intenso, istruttivo. Osa molto, e raccoglie pure. Caso unico di opera impeccabile nella ricostruzione pur essendo, tecnicamente, fantascienza.
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