I love you, now die: The Commonwealth v. Michelle Carter è un documentario crime americano in due parti del 2019, prodotto e diretto da Erin Lee Carr (già autrice di Mommy Dead and Dearest) e andato in onda su HBO. In Italia è ora disponibile sulla piattaforma Sky.
Il documentario racconta l’agghiacciante storia, accaduta in Massachusetts, del suicidio dell’adolescente Conrad Roy istigato dalla fidanzata Michelle Carter tramite messaggi via cellulare. Al centro della narrazione vi è il processo alla Carter, accusata di omicidio colposo involontario: uno dei casi più eclatanti e mediaticamente rilevanti del decennio scorso, in quanto senza precedenti legislativi nella storia degli USA.
Di cosa parla il documentario I love you, now die
Attraverso la ricostruzione del dibattimento processuale – le due parti del documentario sono dedicate all’accusa (Part 1: The Prosecution) e alla difesa (Part 2: The Defense) – e del loro legame e l’analisi delle due diverse personalità, questo racconto dettagliato e oggettivo, che non indugia in sentimentalismi di parte, getta una luce su una realtà adolescenziale oscura e attuale, in parte ancora poco esplorata: quella dei legami virtuali (tramite messaggi sms, come in questo caso). Non solo: approfondendo le dinamiche di questa sconvolgente istigazione al suicidio (a distanza), I love you, now die presenta via via aspetti sempre più inquietanti. La tendenza maniacale suicida come conseguenza dell’abuso di psicofarmaci, il narcisismo patologico che induce ad usare la morte del fidanzato per attirare morbosamente le attenzioni su di sé, e per finire l’allucinata confusione tra realtà e finzione televisiva.
La storia: la sera di domenica 13 luglio 2014, il 18enne Conrad Roy si suicida intossicandosi con il monossido di carbonio dentro il suo fuoristrada, parcheggiato all’esterno di un Kmart. La polizia, controllando il suo telefono, scopre una lunghissima serie di messaggi scambiati nelle ultime settimane con la fidanzata, Michelle Carter, che lo incoraggia a compiere il gesto. Per di più Roy era rimasto al telefono con Michelle per tutto il tempo del lento avvelenamento da monossido. Michelle viene arrestata.
La loro storia nasce due anni prima ma, pur abitando ad una sola ora di distanza (35 miglia, ovvero 56 km), i due si vedono solo poche volte. In compenso si chiamano e si scrivono continuamente, tutti i giorni. La loro relazione può quindi essere facilmente ricostruita con la lettura dei loro sms.
“Sono protetti dal primo emendamento (la libertà di espressione), non possono essere oggetto di dibattimento” – cercherà di argomentare la difesa. Ma la mozione viene rigettata.
L’accusa: la ragazza è un mostro
“È stata colpa mia. Avrei potuto fermarlo. Ero al telefono con lui e lui è uscito dal furgone perché stava funzionando. Si è spaventato e io gli ho detto di tornare dentro.” Gli ho detto di tornare dentro (get back in) – attorno a queste fatidiche parole le speculazioni di stampa e TV si sprecheranno, e vi ruoterà intorno la stessa sentenza del processo. L’ipotetica confessione – ancora una volta tramite messaggio – che Michelle fa ad un’amica prosegue così: “Perché sapevo che avrebbe rifatto tutto il giorno dopo e non potevo più sopportare che continuasse a vivere in quel modo. Non potevo farlo. Non potevo permetterglielo.”
Michelle Carter viene dipinta dai media come un mostro. Ha forzato il ragazzo titubante a tornare nel furgone, e morire. Non solo: poco dopo scrive alla sorella di lui, fingendo di non sapere cosa gli sia successo. Già da due giorni scriveva alle sue amiche, dicendo che il suo Conrad era scomparso e che lei temeva ormai per il peggio. Poco tempo dopo la sua morte, organizza un torneo sportivo in onore di Conrad, ma lo organizza nella sua città che, ricordiamo, dista svariati chilometri da quella di lui. Stranamente, lei non appare triste. Anzi, sembra felice, sembra rinata: è finalmente al centro dell’attenzione e questo, secondo l’accusa, era il suo scopo fin dall’inizio.
Perché? Perché la sua vita affettiva, per quanto riguarda le amicizie, era un disastro. Alla sbarra si presentano impietose le compagne di scuola, che testimoniano di come lei chiedesse a tutte con insistenza di uscire, ricevendo – per qualche motivo – solo dinieghi. La situazione cambia con la morte di Conrad: le ragazze ora si sentono in obbligo di starle vicino, e lei diventa finalmente popolare. Ora ha tutte le attenzioni che prima non aveva. Un mostro.
La difesa: no, è una vittima
Eppure… la storia, come sempre, è più complessa e sfaccettata di così. Anche in I love you, now die. È il momento della difesa. Cominciamo da Conrad Roy: un ragazzo con tendenze maniacali depressive, che ha già tentato il suicidio più volte e che, come testimonianza del suo malessere, ha lasciato diverse video confessioni che a tal riguardo non lasciano dubbi. Bullizzato a scuola e, almeno in un’occasione, picchiato a sangue dal padre, tanto da finire in pronto soccorso e sporgere denuncia. Un giovane disadattato, con problemi famigliari e predisposto al suicidio, a quanto pare.
Dunque la questione principale diviene: si può spingere qualcuno a togliersi la vita tramite messaggi, senza essere fisicamente presenti?
Secondo la procura, nell’arringa finale: “Siamo in una nuova era e i telefoni che utilizziamo ci permettono di essere virtualmente presenti ovunque. La gente si innamora su Internet e per messaggio […] Si può convincere qualcuno a morire per messaggio. Si può commettere un crimine per messaggio.”
Ma la difesa ha altre carte da giocare, l’analisi dei due giovani non è finita: entrambi fanno, ad esempio, uso massiccio di psicofarmaci. Tanto da vivere in una realtà parallela, secondo uno psichiatra chiamato a testimoniare. Perché, analizzando meglio il contenuto degli sms scambiati nel corso dei due anni, ne esce che lui è ossessionato dall’idea del suicidio, mentre lei, almeno fino a due settimane prima del fatidico 13 luglio 2014, cerca sempre di fermarlo, di farlo desistere. Poi qualcosa cambia. Assieme ai “I love you”, e con Conrad che negli ultimi giorni si fa più insistente, tanto da salutarla ogni notte dicendole che quella sarà l’ultima, anche Michelle cambia atteggiamento. Si convince che l’unico modo perché lui sia felice è davvero quello di farla finita (good thing to help him die).
I love you, now die e le finzioni seriali
La storia di I love you, now die diviene ancora più folle: viene fuori che Michelle è una fan accanita della famosissima serie americana per adolescenti Glee. Si identifica con la protagonista della serie, il personaggio Rachel Berry (interpretato da Lea Michele). Questo personaggio ha una tormentata storia con il quarterback della squadra di football del liceo, Finn Hudson (interpretato da Cory Monteith). Fin qui niente di male.
Ma i due sono fidanzati anche nella realtà – e l’attore Cory Monteith viene trovato morto in una stanza d’albergo per overdose d’alcol ed eroina. Gli autori della serie non possono che far morire anche il quarterback del liceo: ne segue la scena della commemorazione dell’intera scuola, con la protagonista che viene consolata da tutti, che è fantasticamente al centro dell’attenzione. La stessa Lea Michele, interprete di Rachel, partecipa a svariati talk show in cui esprime tutto il suo dolore per la perdita di Cory, ricevendo numerose manifestazioni d’affetto e vicinanza da parte dei fans.
Per tornare alla nostra realtà, Michelle era talmente presa da Glee da usare intere frasi del suo personaggio preferito come se fossero sue. I suoi messaggi sono pieni di citazioni che lei fa passare per parole sue. Soprattutto citazioni prese dall’episodio della commemorazione – quasi avesse operato una sorta di grottesco transfert (e non sarebbe la prima volta che questo accade, soprattutto in Yankeelandia). Se vi aggiungiamo la corrispondenza tra il lutto del personaggio e quello dell’attrice, il gioco è fatto. La distanza tra realtà e finzione è ormai sottilissima per Michelle.
Di più: cinque giorni prima del suicidio di Roy, Michelle è al cinema a vedere Colpa delle stelle, altro film per adolescenti. Nel film vi è una scena in cui il fidanzato della protagonista sta morendo dentro il suo fuoristrada, parcheggiato davanti ad una stazione di servizio. Come ultimo atto, chiama lei al cellulare… Anche se nel film lei riesce a salvarlo chiamando il 911, finzione e vita – nella testa di Michelle – stanno diventando un’unica cosa.
Alienazione, malessere e virtualità
Senza voler qui svelare l’esito del processo, negli USA noto come il texting suicide case (il caso del suicidio tramite messaggio), questo allucinante documentario da una parte pone l’interrogativo sulla natura e sui limiti della responsabilità criminale, dall’altra ci racconta una storia fatta di alienazione, malessere ed infelicità, di un intenso rapporto virtuale tra due adolescenti, di tante, tante domande e di una legislazione ancora tutta da scrivere.
Non è tutto qui. La difesa sceglie saggiamente di rinunciare alla giuria popolare, nella consapevolezza dell’inevitabile pregiudizio creatosi nei confronti del mostro Michelle Carter. Eppure sembra proprio che l’unico modo per ricostruire la vera storia sia quello di mettere assieme i tanti piccoli pezzi di cui si compone. Perché Michelle si considera la fidanzata di Roy, mentre lui sembra considerarla a volte più come un’amica? Cosa significano gli scatti d’ira verbale che lui manifesta talvolta all’improvviso, aggredendola senza apparente motivo?
E che ruolo ha Alice, l’unica vera amica che lei sembra avere avuto anni prima e per cui prova ancora sentimenti che vanno ben al di là dell’amicizia, senza essere corrisposta? In concomitanza al suo radicale cambio di condotta nei confronti dell’aspirante suicida Roy, in altri messaggi dichiara di sentire follemente la mancanza di Alice – e di amarla…
La beffa: la storia di I love you, now die diventerà una serie!
E non è forse Roy a suggerirle di diventare assieme i nuovi Romeo e Giulietta, dovendo anche spiegare ad una troppo ingenuamente esaltata Michelle anche come va a finire la tragedia shakespeariana? E’ rilevante il fatto che il Procuratore Distrettuale che segue il caso, Thomas M. Quinn III, sia cugino di primo grado della nonna di Roy? La difesa ne ottiene la rimozione, ma il caso viene da lui affidato ad uno dei suoi viceprocuratori…
L’antidepressivo usato da Roy, conosciuto con il nome di Celexa, riporta nel bugiardino il pericolo di aumento di pensieri suicidi negli assuntori con meno di 24 anni. Il giudice rigetta la richiesta della difesa di approfondire con la testimonianza di esperti l’aspetto di possibile intossicazione farmacologica…
Questa storia ha tentacoli che vanno in ogni direzione. Come Michelle viveva in una sorta di allucinazione onirico televisiva, così l’opinione pubblica americana ha vissuto questo processo, avendo assegnato ruoli di fantasia ai due giovani protagonisti – mostro senza scrupoli lei, angelica vittima lui.
Non stupisce quindi che dalla vicenda raccontata in I love you, now die si trarrà uno show televisivo. Nell’agosto del 2019 la Universal Cable Productions ha annunciato la preparazione di una serie ispirata al texting suicide case, con Elle Fanning nei panni di Michelle Carter… una storia assolutamente e tipicamente americana.
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