«Quando il primo secolo della dinastia Targaryen volgeva al termine, la salute dell’Antico Re, Jaehaerys, stava peggiorando. A quei tempi, la Casa Targaryen era al culmine della sua forza con 10 draghi adulti sotto il suo giogo. Nessuna potenza al mondo poteva resisterle. Re Jaehaerys regnò per quasi 60 anni di pace e prosperità. Ma la tragedia aveva reclamato entrambi i suoi figli, lasciando in dubbio la sua successione. Così, nell’anno 101, il Vecchio Re convocò un Gran Consiglio per scegliere un erede. Più di mille signori fecero il viaggio verso Harrenhal. Furono ascoltate quattordici richieste di successione, ma solo due furono veramente prese in considerazione: la principessa Rhaenys Targaryen, la discendente maggiore del re, e suo cugino minore, il principe Viserys Targaryen, il discendente maschio maggiore del re».
Il narratore, che crediamo non sentiremo mai più nei millenni di Westeros, apre così «Gli eredi del Drago», l’episodio pilota di House of The Dragon (10 puntate, in Italia su Sky e NOW). Si tratta del prequel e primo spin off della serie più seguita, a livello mondiale, dei nostri anni: Game of Thrones. Tradotta in Italia come «il trono di spade». Show di cui abbiamo parlato in questa puntata del podcast. E di qui invece qui abbiamo analizzato le dinamiche politiche.
Chi non l’ha vista alzi la mano: gliela facciamo mangiare dal Drago.
Vero Draghistan
La storia che segue precede di 192 anni la nascita di Daenerys Targaryen. L’eroina – almeno, fino al penultimo episodio – dell’epopea del Trono di Spade. Siamo due secoli prima del periodo chiamato «la guerra dei cinque re», le cui cronache ci sono state narrate dal 2011 al 2019 su HBO. Il mondo è lo stesso: le famiglie e i casati sono gli stessi (tranne alcuni che, immaginiamo, si sono poi estinti, magari non autonomamente). Le città sono le stesse. La civiltà presentata, tra magie e tecnologie, sono le stesse: puro medioevo europeo. Con in più, come in quest’ultimo, una presenza spettacolare: quella dei draghi.
Questa prima stagione di House of the Dragon è incentrata sulle vicende della famiglia Targaryen ancora regnante. Come secoli dopo, gli eredi degli antichi Valyrian devon giostrare sapientemente il potere. Confrontandosi con le altre dinastie locali, che però sono sprovviste di dragoni, e quindi ampiamente sottomesse. Possiamo dire quindi, usando un conio degli ultimi anni di politica italiana, che Westeros è in quel momento un vero Draghistan.
C’è re Viserys I Targaryen, detto «il pacifico», che con colpi al cerchio, alla botte, e alla moglie sobria e giovane tiene in piedi il Regno. Con qualche difficoltà.
C’è la principessa Rhaenyra Targaryen, che invece combina guai e non è amatissima dal Regno. Nei libri la chiamano the bitch queen, ma al momento la serie, che mostra una matrice femministica evidente, non la chiama così, anzi.
C’è Daemon Targaryen, fratello di re Viserys, ambizioso e psicopatico, uxoricida e incestuoso secondo le regole della famiglia. Se vi scandalizzavano le scene tra Cersei Lannister e il fratello in Game of Thrones sappiate che qui l’incesto, in ispecie tra i nobili targariani, non solo è legalizzato ma financo incoraggiato.
Lannister, Baratheon, Stark – e le “nuove” famiglie di House of the Dragon
Vi è quindi tutta una ridda di personaggi secondari, ma per modo di dire. Mentre le famiglie al centro dell’intrigo di Game of Thrones svolgono un ruolo di comprimari (al massimo, si fanno vedere solo per dare segni del comportamento dei futuri discendenti conosciuti dallo spettatore: per esempio la stronzaggine dei Lannister, l’orgoglio dei Baratheon, la dabbenaggine degli Stark) si segnalano gli Hightower, con la «mano del re» (tipo primo ministro) Otto Hightower e sua figlia Alicent, emotiva ma saggia, coetanea di Rhaenyra che diverrà seconda moglie di re Viserys e madre dei suoi vari figli.
Poi c’è tutta la famiglia Velaryon, fatta di esperti marinari che vengon anche loro da Valyria. La stessa origine ancestrale dei Targaryen, città doommata, cioè devastata dalla catastrofe che chiamano Doom. Qui si è incappati in un piccolo problema filologico: la produzione HBO, sospettabilmente per quella cosa che chiamano forced diversity (avete presente: quella per cui Macchiavelli e la fata turchina possono avere somatismi africani), ha fatto sì che l’intera famiglia fosse nera ma con le lunghe chiome albine tipiche degli eredi di Valyria, pure acconciate in enormi ciocche rastaman. Insomma, una specie di casato di giamaicani-Targaryen.
Il colore della pelle e dei capelli, in questo caso, aiuterà un’importante svolta narrativa di House of the Dragon. E dell’intera istoria di Westeros.
Danza dei draghi, guerra delle rose
Il giuoco di troni fra tutti questi attori è quella che l’autore dei romanzi J.R.R. Martin (speriamo di aver scritto abbastanza «R», ma siam allenati con quelle di J.R.R. Tolkien) chiama «la danza dei draghi». Perché ad una certa è chiaro che si meneranno coi draghi. Le cui uova sono distribuite più o meno equamente tra i rampolli Targaryen (compresi i bastardi…) e Velaryon, che essendo eredi della civiltà dragonica doommata di Valyria sono in grado di cavalcarli.
Qui ci sarebbe da aprire tutto un discorso veterinario sulla psicologia dei mitologici rettiloni, che si comportano tipo cavallo, solo che volano e invece di sbuffare annoiati sputano fiamme e sembrano perennemente incazzati. È interessante, dobbiamo dire, vedere tutta la filiera produttiva intorno ai draghi (la raccolta delle uova, l’impiego di personale specializzato per riporli nei dragon pit, che sono una specie di autorimessa dragonara sotto ai castelli. Ed è pure curioso vedere finalmente dare alle bestiacce ordini in high valiryan (l’antica lingua dei biondi doomati) che non siano «dracarys». Anzi, è forte quando gli scappano pure dei comandi in lingua comune: «servimi Vaghar!» è espressione sulla quale ci siamo lasciati interrogare, chiedendoci se possiamo usarla anche con il cane quando lo tiriamo per lo guinzaglio.
Ad ogni modo la “danza dei draghi” di House of the Dragon in realtà, proprio come in Game of Thrones, è una storia vera. Nel senso: l’ispirazione evidente è quella che Walter Scott battezzò come la «guerra delle rose». Una tremenda faida tra dinastie che insanguinò la terra anglica tra il 1455 e il 1467, chiamata in italiano anche «guerra delle due rose». Si contendevano la Corona due diversi rami della famiglia reale dei Plantageneti: i Lancaster e gli York. Ambo i clan di parenti serpenti avean come simbolo la rosa, sia pur di colore differente: gli uni una rosa rossa, gli altri una rosa blu.
Il fatto che tutto l’universo di J.R.R. Martin sia legato alla storia reale (nel senso, vera, ma anche, in effetti, regale) inglese lo potete verificare voi stessi capovolgendo la mappa di Westeros: rendetevi conto che assomiglia decisamente alla Gran Bretagna, e che la presenza di quel muro, che tiene lontane dalla civiltà presenza barbare e incontrollabili, ricorda proprio il vallo di Adriano (se non ci avete mai pensato, la parola wall viene da lì, è una parola latina inglobata nella lingua degli inglesi secoli e secoli prima che cominciassero a farlo sistematicamente).
House of the Dragon: diesel e traumi spettatoriali
Diciamo pure che House of the Dragon non parte fortissimo, ma poi, stile diesel, comincia ad andare via speditissima. Dando emozioni e, come la serie predecessora, un certo livello di dipendenza. Un momento drammatico, che ha scioccato la viewership mondiale, è stato quando, d’improvviso, hanno cambiato le attrici protagoniste. Rhaenyra e Alicent d’un tratto sono state rimpiazzate con altre attrici, perché la storia era andata avanti di una quindicina d’anni.
Il trauma per molti spettatori è stato tale che hanno abbandonato la serie. Non è una cosa che si fa: tu investi la tua attenzione, il tuo sentimento su un volto, e poi questo vien cambiato. Tanto più che capita che quella bella diventa brutta e quella brutta diventa bella – e con facce completamente diverse. Molti fan hanno detto: potevano usare le attrici paraventenni che interpretano le principesse ragazzine. Potevano farlo col trucco.
Potevano farlo, pensiamo noi, col deaging digitale: e non quello che costa diecine di milioni di dollari e che fornisce risultati fiappi come quello visto in The Irishman, ma il deepfake dei nerd che in un pomeriggio umiliano i film della Lucasfilm e di Hollywood. Viene da pensare che questa strada, tecnologicamente possibile e cinematograficamente ancora abbastanza rivoluzionaria, sia stata respinta a causa del fatto che tanti soldini erano impegnati nelle immagini di sintesi (eccellenti, bisogna dirlo) dei draghi.
Purtuttavia, il pubblico si è abituato anche a questo piccolo trauma delle attrici mutate. Anche perché tutt’intorno i bambini diventano grandi (anche lì con qualche problema fisiognomico di recasting, come nel caso del principe Aegon II) e quindi cambiano gli attori due o anche tre volte.
L’eccezione sono i maschi, che nonostante passino decenni diegetici non vengon sostituiti: è forse questa un’ingiustizia che inficia l’intero impianto femminista sotteso dalla serie.
Attori mutanti, sigla buzzurra
Paddy Considine, che fa il re mansueto e onesto forse anche troppo, non è davvero male, in ispecie quando lo vediamo nei suoi giorni di vegliardo malato. Ci eravamo affezionati, nelle prime puntate di House of the Dragon, alle forme tonde del viso di Rhaenyra interpretata da Milly Alcock, ma ce l’hanno tolta a tradimento. Hanno messo una tale Emma D’Arcy di cui non sappiamo ancora cosa pensare, ma il senso incantato che dava la Alcock è svanito.
Matt Smith, visto in The Crown e in una quantità di cose britanniche, è insopportabile come le sue arcate sopraccigliari gotiche sopra quegli occhietti da Sassonia antica. È al contempo inquietante e ripugnante, eppure, dentro di sé, percepibilmente solissimo. Diciamo quindi che si lascia guardare. Emily Carey andava benissimo nel suo ruolo di regina ragazzina che riesce a dominare i suoi sentimenti (che spaziano dalla delusione allo schifo). Poi l’hanno cambiata in Olivia Cooke, che, oltre che triste e spaventata, è molto bella, e quindi fa assumere al personaggio tutte altre valenze, visibili appieno in una inguardabile scena di puro feticismo podologico in uno degli ultimi episodi.
La corona di House of the Dragon, invero, spetta al gallese Rhys Ifans, che in nostra umile opinione centra l’interpretazione della sua vita nel ruolo del Primo cavaliere, la “mano del re” dell’originale. Infida ma logica, lucida e contorta.
Menzioniamo anche il fatto che hanno lasciato praticamente invariata la mitologica sigla, dove hanno sì aggiornato tutta la stramba animazione 3D della mappa, ma hanno mantenuto intonsa la notissima musica, e ci è sembrato un segno di debolezza anche un po’ buzzurro.
Le zozzerie calmierate di House of the Dragon
Un tema che non possiamo tralasciare, se dobbiam guidare il gentile lettore nel consumo di queste ore di audiovisivo, è di certo quello delle zozzerie. Guardare una produzione HBO ed evitare le zozzerie è un po’ come tuffarsi in piscina e pretendere di riemergere asciutti. Girava, anni fa un video satirico assai eloquente sulla materia, con aspiranti attori che descrivevano scene lubriche fino al raccapricciante alle loro famiglie ed amici, per poi rassicurarli: «it’s not porn, it’s HBO».
Non c’è serie HBO che non spingesse su quel pedale, e su tanti altri, dai Sopranos a Boardwalk Empire a True Blood, qualsiasi cosa abbia prodotto il canale via cavo, era uno spostamento del confine del visibile in TV verso la trasgressione più oscena. HBO è, più che un’emittente, una Finestra di Overton di ciò che è visibile su schermo.
Games of Thrones per un decennio si guadagnò, appunto, il trono della zozzeria. Riporto un SMS (allora eranvi quelli) inviatomi nel 2011 da un amico critico cinematografico di caratura nazionale al termine della visione del pilota: «oh, ho visto un nano scopatore, un cane ammazzato, un bambino buttato dalla finestra da due fratelli che si accoppiano. E siamo alla prima puntata!». Dopo è stato anche peggio.
Tuttavia, il livello di zozzeria di House of the Dragon sembra, incredibilmente, più basso. Certo, se si esclude l’antropologia dell’incesto, però qui vissuta senza desiderio, ma per obbligo dinastico dei sopravvissuti di una civiltà che forse è stata distrutta per qualche buona ragione.
Che si tratti di un impeto di moralismo calmierante dovuto al carattere femministico dell’opera? Rhaenyra tromba in giro alla grandissima, eppure la narrazione non la condanna come invece fece con Cersei Lannister, le cui prodezze sessuali, oltre all’incesto imperterrito col fratello belloccio, diventavano di stagione in stagione più degradanti.
E quindi: è un qualche corto circuito del politicamente corretto a salvarci dalla sozzura di una storia che però piace a centinaia di milioni di individui in tutto il pianeta? O la prossima stagione di House of the Dragon ripristinerà la lordura perduta?
Giudizio: dettagliosamente realizzato, appassionante, con un ritmo meditato, concentrato, che ne fa uno spettacolo più maturo rispetto al predecessore. Da vedersi.
Abbiamo discusso i temi di Game of Thrones in questa puntata del podcast
Qui, invece, la nostra lettura politica della serie madre (rilevante anche per House of the Dragon)