Cosa succederà quando tutta l’umanità sarà connessa per via cerebrale alla rete? H+: The Digital Series, una serie sperimentale di oramai una diecina di anni fa, dà risposte inquietanti, in grado di interrogare anche l’ora presente in maniera davvero radicale.
Non sappiamo dirvi dove trovarla: su YouTube gli episodi sembrano spariti, e pure il sito ufficiale è 404. Tuttavia vale la pena di parlarvene comunque.
Sul vecchio canale YouTube dello show si trova, assieme ad alcuni frammenti, il trailer completo. E questo teaser:
H+: post-apoc tecno-olocaustico
Si tratta di uno dei più singolari esempi di narrativa post-apoc in circolazione. E qui l’apocalisse è scatenata da un olocausto tecnologico, una «Singolarità» (il giorno in cui gli uomini perderanno completamente il controllo sulle macchine) genocida.
Nel futuro molto prossimo di H+ ogni essere umano, con l’eccezione di una parte del Terzo Mondo, ha accettato l’impianto HMI (interfaccia uomo macchina) di un nanodispositivo in grado di connettere il cervello alla rete e fornirgli direttamente, visualizzandoli sulla retina, servizi come le email, le videochiamate, registrazioni, collegamenti, la visione delle partite di Basket.
Il consumatore occidentale accetta di buon grado rendendo la società che produce tale tecnologia ricchissima, e trasforma, di fatto, tutti quanti in transumanisti – cioè seguaci dell’idea che l’essere umano possa modificarsi ed estendere la sua esistenza e i suoi poteri tramite la tecnologia. H+ starebbe a significare questo: umano più. Cioè, transumano, post-umano. L’oltreuomo tecnologico, l’ubermenscio neurodigitale.
Poi, un giorno, un terzo della popolazione mondiale crolla a terra misteriosamente, uccisa da un virus informatico introdotto – presumibilmente – da un misterioso hacker.
Polifonia minisodica
La serie inizia in medias res, stabilendo il giorno dell’evento come il centro da cui dipende ogni episodio, spaziando tra il prima e il dopo. H+ è costruito come un romanzo davvero polifonico, una storia corale, con moltissimi personaggi con un ruolo importante e con una trasformazione significativa: c’è il programmatore americano, la donna in carriera irlandese, il poliziotto finlandese, la visionaria italiana, la ragazza «madre surrogata» indiana, il sacerdote del Vaticano, l’hacker tedesca…
Le scene spaziano da San Francisco alla Puglia, da Bombay a Helsinki, da Santiago del Cile a Tokyo, alla Turchia, all’Alaska, etc. Una vera produzione di respiro internazionale, che riesce a dipingere molto bene il respiro globale della storia senza sembrare neanche per un secondo povera, anzi. Alcune scene, come il Sud Italia invaso da milizie africane (non avendo gli innesti, gli africani sono per definizione i sopravvissuti dell’olocausto tecnosanitario) lasciano il segno. E ricordano vagamente capolavori di letteratura post-apoc come Il mondo senza donne di Virgilio Martini, libro censurato sia in era fascista che in era repubblicana.
Non abbiamo detto la cosa principale: si tratta di una serie piuttosto unica nel suo genere, perché distribuita solo su Internet. Cioè su YouTube, con due episodi a settimana tra l’agosto 2012 e il gennaio 2013. E con un formato totalmente innovativo. Episodi (minisodi) di 4-8 minuti, che riescono tuttavia a concentrare, nel loro essere dichiaratamente solo dei frammenti, un devastante quadro più grande di cui svelano piano piano i significati e gli effetti umani.
Ecco quindi un impianto linguistico specifico di ogni episodio, che si discosta per struttura narrativa dalla serie tradizionale. Immaginate gli spezzoni di flashback di ogni personaggio incastonati nelle puntate di Lost (cui abbiamo dedicato qui una puntata del nostro podcast), ma resi architettura complessiva della serie, che diventa un puzzle di cui raccogliere tessere che paiono distantissime fra loro quanto immerse nell’intimo del personaggio.
H+, una grande webseries microglobale
Nessuno attore è un attore noto. Tra i produttori c’è Bryan Singer, il regista de I soliti sospetti e degli X-Men, poi finito in controversie sessuali, ma capace, con evidenza, di puntare su storie piuttosto interessanti.
Sul progetto aveva scommesso la Warner Premiere Digital, il ramo della Warner specializzato sul direct-to-video. La distribuzione digitale su YouTube, prima dei tempi di Cobra Kai (un esperimento, quello dei contenuti nativi hollywoodiani su YouTube, da considerare con probabilità chiuso) era un azzardo per cui si pensava il pubblico fosse maturo. Il mondo era pronto per delle web series prodotte dalle major? Probabilmente no.
Purtroppo, dopo i 48 episodi della prima serie, non se ne è saputo più nulla, nonostante la critica la definì «una delle serie web più epiche, ben girate e ben pensate mai pubblicate» e «l’adozione ufficiale della serie web come valida alternativa creativa a film e televisione».
Il mainstream in streaming, poco tempo dopo, si è ossificato in Netflix, Prime, Disney+, Hulu, HBO Max, etc. Non nelle mercuriali piattaforme dei comuni mortali.
Per quanto sia falso che la webseries di micro-episodi potesse costituire un’alternativa al formato «televisivo» standard (quaranta minuti o mezz’ora, 12 episodi, etc.), è assolutamente vero che l’afflato del prodotto è decisamente epico. E che da un punto di vista visivo e narrativo niente ci sia da invidiare nei confronti delle produzioni, anche cinematografiche, kolossal. Anzi, qui è dimostrato come sia possibile raccontare una storia immensa (globale, Babel di Iñárritu al cubo) agendo sulla struttura narrativa, lasciando ellissi enormi ma chiarissime, e filtrando una catastrofe mondiale attraverso gli occhi sconvolti (dinanzi al genocidio realizzato, sono sconvolti anche i complici del piano) dei personaggi più disparati.
Brivido SPOF: la grande vulnerabilità tecnologica
Il tema di fondo non è di poco conto. Più che una riflessione sulla «Singolarità» e sul «transumanesimo» – due concetti che si presuppongono l’uno con l’altra – ci pare sia da sottolineare qui il grande monito sull’umanità entrata in un sistema SPOF. Single Point of Failure, il singolo punto di vulnerabilità, un concetto ben noto agli informatici.
In un sistema informatico lo SPOF è una parte del sistema, hardware o software, il cui malfunzionamento può portare ad anomalie o addirittura alla cessazione del servizio da parte dell’intero sistema. Diciamo: il server a cui sono collegati tutti i computer. Se va in malora il server, vanno in malora tutti i computer. Se si infetta il server, si infettano tutti i terminali collegati.
Difficile non collegare questo concetto, così bene illustrato dal racconto di H+, al momento in cui viviamo. Nel quale una buona parte dell’umanità si è sottoposta ad un unico sistema tecnologico, un «software» distribuito massivamente a tutti coloro che, non diversamente dai cittadini neuro-impiantati di H+, vogliono solo legittimamente uno standard di vita più confortevole…
E se il Single point of failure…
«Rabbrividiamo» (cit.).
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