Gangs of London è una serie televisiva britannica (la prima stagione, di 9 episodi, è del 2020; la seconda è in produzione) creata da Gareth Evans e Matt Flannery, prodotta da Pulse Films, Sister Pictures per Sky Atlantic, e inizialmente coprodotta dall’americana Cinemax (che ha dovuto in seguito cederla ad AMC, causa ridimensionamento del palinsesto). In Italia la troviamo su Sky e NOW.
Gangs of London è un puro gioiello di spettacolarizzazione della violenza, che costituisce orizzonte e senso attorno al quale ruotano forma e contenuto di questo particolarissimo crime show. Non a caso Cinemax è il canale che ha prodotto e distribuito Banshee, di cui abbiamo parlato qui.
Gangs of London: di cosa parla
Il contenuto, ovvero la storia, la trama, è un topos ormai classico di questi tempi, a metà tra Shakespeare (quello del sanguinario Tito Andronico) e l’italica Gomorra: Finn Wallace (Colm Meaney), capo famiglia della famiglia criminale più potente di Londra degli ultimi 20 anni, viene misteriosamente assassinato. L’improvviso vuoto di potere causato dalla sua morte e l’implacabile sete di vendetta del figlio Sean (Joe Cole, Peaky Blinders) mettono a rischio il fragile equilibrio tra le diverse gang della capitale e, soprattutto, il colossale flusso di denaro sporco proveniente dalle loro attività.
Al fianco dell’impulsivo Sean vi sono la madre Marian (Michelle Fairley, Game of Thrones), (anche qui) regina terribile, Billy (Brian Vernel), il fratello problematico, eroinomane e omosessuale, e la sorella Jacqueline (Valene Kane), che ha rinnegato la famiglia; a completare il quadro, Ed Dumani (Lucian Msamati), il fedele collaboratore di colore di Finn, il figlio Alexander (Paapa Essiedu), il migliore amico di Sean, un giovane genio della finanza, abilissimo nel riciclare i milioni – o meglio, i miliardi – che passano per le casse dell’organizzazione, e sua sorella Shannon (Pippa Bennett-Warner).
La famiglia Wallace è, di facciata, l’impresa edile più famosa della città, nella quale ha costruito svariati imponenti grattacieli: il volto della metropoli britannica viene qui dipinto passando dalle algide e vertiginose altezze dei piani alti, sede delle ricchissime multinazionali, al caos oscuro delle strade della malavita, senza soluzione di continuità.
Un viaggio all’inferno in una Londra intrisa di sangue
Mentre gli irlandesi Wallace e i Dumani, di origine africana, costruiscono i verticali palazzi del potere, tra i bui vicoli lastricati di pugni, lame e pallottole, la capitale multietnica per eccellenza si mostra in tutto il suo grottesco splendore internazionale: mafia albanese, terroristi curdi, trafficanti di eroina pakistani, nomadi gallesi, tagliagole nigeriani, mercenari danesi… Ne deriva il fascinoso affresco di una Londra infernale, assai lontana dalle convenzioni turistiche, dove il lusso stesso è dipinto sempre e solo a tinte oro e sangue.
Last but not least, il vero protagonista di Gangs of London: Elliot Finch (Sope Dirisu), agente sotto copertura, da poco infiltratosi nei ranghi della famiglia Wallace, che vuole a tutti i costi riuscire ad incriminare… ma Elliott si ritroverà presto in una spirale di ricatti e pericoli tale da frantumare la sua basilare logica etica con cui vedeva contrapposti bene e male. Il vero potere criminale, forse, affonda le sue radici costitutive nel cuore stesso della cosiddetta alta società. Il vero potere criminale, forse, è sfuggente per natura, non ha volto né nome, e soprattutto, tende a restare nascosto, a non mostrarsi mai… Le scelte più spietate ed efferate vengono prese da noti criminali senza scrupolo o da personaggi apparentemente al di sopra di ogni sospetto?
Il viaggio all’inferno del protagonista attraverso la stratificata e complessa realtà criminale, intrecciata forse in modo indissolubile con la società cosiddetta per bene, è un viaggio di sola andata che non ha bisogno di essere ulteriormente approfondito, ma che ha il solo scopo di sostenere atmosfere e azione dello show. Tutto è surreale e volutamente esagerato nei toni di questa narrazione: gli scontri, gli intrecci, la faida, la vendetta, la terribile verità con cui Elliot si troverà a fare i conti…
Un inno all’ultraviolenza costellato di scene madri
Tutto è, in un certo senso, funzionale a costruire una prepotente tensione contenutistica e formale, che in ogni episodio letteralmente esplode in un’unica grande memorabile scena madre. E ogni scena madre in questione è un gioiello di pura azione, come forse non si è mai visto sul piccolo schermo; azione intesa come magnificente inno all’ultraviolenza, fatto sì di forsennati combattimenti corpo a corpo, lame, asce, pistole, fucili, mitra, granate… ma anche e soprattutto di regia fuoriclasse – oltremodo dinamica, con camere a mano e inquadrature vertiginosamente oblique, attese estenuanti e dettagli raccapriccianti, al limite del disturbante (nel Regno Unito un nutrito gruppo di spettatori ha invocato addirittura la censura).
Ultraviolenza maestosa, che vede la regia del nuovo indiscusso talento fuoriclasse del genere combattimento, il gallese Gareth Evans (The Raid, Apostolo). Sua la firma del primo (l’incredibile rissa nel pub di Elliot, solo contro tutti) e dell’eccezionale quinto episodio (la sparatoria capolavoro tra i sicari e i fuggiaschi nella casa di campagna) di Gangs of London. Accanto a lui, l’inglese Corin Hardy e il francese Xavier Gems (che si dividono ottimamente la direzione degli altri episodi: vedi la spedizione punitiva contro i nomadi per il primo, e il massacro dei nigeriani per l’altro).
Il risultato ha generalmente entusiasmato la critica, che ha paragonato i momenti climax di questa serie (tra il pulp e il gore) alle migliori scene di Quentin Tarantino, Nicholas Winding Refn o Takashi Miike (tutti maestri indiscussi di gloriose e pirotecniche mattanze).
Perché guardare Gangs of London
Gangs of London (il cui titolo richiama l’omonimo videogioco nel quale le strade della capitale sono contese da cinque gang rivali) è uno show eclettico e frenetico, che da una parte racconta la sorprendente malavita che religiosamente celebra se stessa come unica divinità, ma che sopra ogni cosa, attraverso questo stesso racconto, ci permette di esperire momenti di puro cinema (così si sarebbe detto un tempo; del resto, pura televisione suona malissimo).
Momenti nei quali sospendiamo incredulità e credulità, nei quali siamo un tutt’uno con l’adrenalina di suoni e colori provenienti dallo schermo. Al di là dunque delle plausibili analisi sulla relazione padre figlio che si può a tratti intravedere attraverso le maglie della trama, al di là del vaghissimo sentore di Amleto sul quale nemmeno vale la pena di spendere parole, al di là insomma delle chiacchiere critiche che vi si potrebbe ancora fare intorno, la vera ragione essenziale per cui si dovrebbe assolutamente guardare questa seria sta, per una volta, nel godimento indicibile dato da quello strano, inspiegabile connubio tra i corpi e i coltelli, le acrobazie e gli spari, il sangue a fiotti fuori da ogni canone, la pura violenza – e la morte (dei personaggi, ça va sans dire).
Leggi anche: Banshee, l’adrenalinica e pazzesca città del male