FYRE – The Greatest Party That Never Happened (in italiano, giocando sull’ambiguità dell’espressione, ‘La più grande festa mai avvenuta’) è un documentario di 97 minuti (Netflix, 2019) diretto da Chris Smith (già regista del fantastico Jim & Andy, documentario sulla lavorazione di Jim Carrey a Man on the Moon, il film su Andy Kaufman).
Il documentario racconta la ben nota e tragicomica storia del Fyre Festival, evento musicale di lusso che si sarebbe dovuto svolgere in un’esotica isoletta delle Bahamas per due weekend tra aprile e maggio 2017. Ideatore, creatore, promotore e organizzatore del Fyre fu Billy McFarland (classe ’91), giovane e intraprendente imprenditore newyorkese. Il suo principale socio – o ‘partner in crime’, come amava ripetere prima che tutto degenerasse realmente in un vero e proprio crimine – era l’allora noto rapper Ja Rule.
Attraverso interviste ai principali collaboratori di McFarland, ad immagini di repertorio e a materiale girato durante la sua preparazione, vengono ripercorse le tappe della catastrofica organizzazione di questa esclusivissima Woodstock per giovani ricchi e ricchissimi. Perché questa vicenda è talmente incredibile (nel senso di non credibile), che soltanto la potenza espressiva delle immagini e dei video allora realizzati può rendere plausibile il suo stesso accadimento. Solo nel finale verranno però svelate le fraudolente fondamenta d’argilla su cui poggiava tutta questo festoso disastro in progress. Che diventerà allora anche una tragica e colossale truffa.
Fyre Festival: un’idea esclusiva
Tutto ha naturalmente inizio con Billy McFarland. Che nel 2016, reduce da una nebulosa avventura imprenditoriale con carte di credito, fonda una start-up chiamata Fyre Media. Per consentire la prenotazione – ovviamente a pagamento – di performer, musicisti, modelle e quant’altro per feste ed eventi privati di ogni tipo. Il tutto direttamente tramite smartphone. Un’idea semplice e brillante. Bene, come lanciarla? Ed ecco che a Billy e Ja Rule viene una seconda straordinaria idea: il Fyre Festival.
La narrativa documentaristica ci avvicina a realtà altrimenti molto lontane, se non del tutto inaccessibili. In FYRE – The Greatest Party That Never Happened, da non confondersi con Fyre Fraud, altro documentario (2019, Hulu) sullo stesso argomento – veniamo catapultati dietro le alchemiche quinte di questa brillante intuizione promozionale, trasformatasi poco a poco in immenso labirintico donchisciottesco sogno ad occhi aperti. E infine in drammatico e strabiliante collasso della realtà.
Dunque, innanzitutto, l’idea. Un’isola tropicale – ancora meglio se un tempo appartenuta a Pablo Escobar. Due weekend di musica dal vivo a suon di Major Lazer, Blink 182 e Disclosure. Villette sontuosamente arredate o, in alternativa, tende extralusso dove alloggiare. Yacht da noleggiare per scatenarsi in esclusivissime feste dentro la festa (‘esclusivo’ è un concetto cardine della filosofia FYRE). Pietanze gourmet preparate sul posto da rinomati chef pluristellati. Champagne a profusione e dj setting internazionale. Tramonti mozzafiato in compagnia di modelle da capogiro. Il sogno ad occhi aperti ora è abbastanza chiaro, no? I biglietti sono naturalmente carissimi: si va dall’ordinario glamour, a partire da 1500$ – comprensivo comunque del volo da Miami! – fino ad arrivare all’ultrachic ‘garantito’ – da 12.000$.
Il Festival che non c’è sull’isola che non c’è
Comprati i favori di un centinaio di influencer, la campagna promozionale del FYRE fu da subito un successo clamoroso. Supermodelle come Emily Ratajkowski e Bella Hadid accettarono di promuovere l’evento – dietro compenso – posando discinte su bianchissime sabbie e acque cristalline. L’unica condizione per affittare l’isola un tempo appartenuta a Pablo Escobar era quella di non usare il nome di Pablo Escobar. Che fu invece la prima scritta a comparire nel video promozionale. Dovettero così cercare un’altra paradisiaca isola bahamense che facesse al caso loro. Ma che importa? A 48 ore dalla loro uscita, i biglietti erano già esauriti. Missione compiuta. Più o meno.
Ora si trattava solo di creare dal nulla un mastodontico festival musicale. Su un’isola – o su parte di essa – che mancava di qualsiasi cosa. Elettricità e acqua corrente, ad esempio. Davvero una bella sfida. Avendo davanti non un anno – che sarebbe il periodo di tempo necessario per preparare un avvenimento di tale portata – ma soltanto pochi mesi. Da qui il racconto di FYRE diventa a dir poco allucinante. E, volendo, irresistibilmente comico.
McFarland, pur non avendo alcuna esperienza di concerti dal vivo, o anche solo di organizzazione eventi in genere, decide comunque di gestire il tutto in prima persona. Avvalendosi di collaboratori spesso al limite dell’improbabile. Come ad esempio il povero team che fino al giorno prima aveva lavorato alla realizzazione della Fyre Media App. O come il suo braccio destro logistico che, a pochi giorni dal disastro annunciato, urla per un’ora al telefono perché non avrà il tocco esotico indiano nel menù. Essendosi perso con ogni probabilità la concomitante riunione in cui il budget dedicato al cibo veniva drasticamente ridotto – addirittura ad un sesto dell’originale. E alla fine ci saranno solo tristi sandwich preconfezionati.
Una faraonica debacle
Le uniche persone avvedute all’interno dell’organizzazione cercano per tempo di avvisare Billy delle difficoltà insormontabili a cui stanno per andare incontro. Ma vengono subito licenziate, poiché incapaci di mantenere un’attitudine positiva. La filosofia di McFarland, che continua a ripetere a tutti come un mantra che tutto andrà bene, è: niente problemi, solo soluzioni. Il budget, che viene scialacquato per il divertimento di Billy e compagnia bella nei mesi precedenti il battesimo del FYRE, è costantemente un problema. Ma McFarland a quel punto fa un volo a New York e torna magicamente con qualche altro milione di dollari. Strano ma vero. E forse anche un po’ sospetto.
A 24 ore dall’arrivo delle prime centinaia di ospiti (su ottomila! previsti), la situazione è disperata. Non c’è assolutamente niente di quanto promesso su Instagram e compagnia bella. McFarland decide di andare comunque avanti. Si è indebitato a tal punto che non può più permettersi di tornare indietro. In pratica, non gli rimane che pregare. E in un certo senso le sue preghiere vengono ascoltate. Ma non nel senso da lui auspicato. La notte prima del Fyre Festival si scatena sull’isola un temporale apocalittico, che rende inutilizzabili anche quelle poche tende – che erano in realtà destinate agli sfollati dall’uragano! – che erano riusciti ad allestire.
Il resto è il compiersi della tragedia annunciata, con centinaia di ospiti molto molto esigenti, convinti di stare per vivere un’esperienza ai limiti dell’impossibile (in un certo qual modo sarà proprio così), che intuiscono agghiacciati ciò che invece li aspetta. E che, senza pensarci due volte, vogliono ora solo tornare a casa. Peccato Billy Brancaleone non abbia previsto voli di ritorno. Così come nessuno aveva pensato di far etichettare i bagagli. Sta per calare la notte, le tende vengono prese d’assalto. Scoppia il caos. Tutti gli artisti si sono naturalmente già tirati indietro. I social – i primi ospiti ad arrivare erano proprio gli influencer! – annunciano e documentano subito la sconvolgente e faraonica debacle del FYRE. Tempo dopo, McFarland sarà legalmente perseguito e condannato a sei anni – e a 26 milioni di dollari di risarcimento – per frode telematica. Ne sconterà quattro.
Fyre Festival: fake it until you make it
Si scopre però che Billy aveva intenzionalmente mentito a tutti fin dall’inizio, a partire dai suoi investitori. Ai quali aveva presentato resoconti truccati, millantando crediti di cui non disponeva. Anche la sua prima avventura imprenditoriale – la creazione della carta di credito deluxe Magnises – si scopre essere stata una frode. Una frode assai significativa, se vogliamo. Perché l’idea di fondo era quella di vendere un nuovo tipo di carta di credito, che di nuovo aveva solo l’aspetto. Era cioè di metallo e non di plastica. Il design, su sfondo nero, era particolarmente curato.
Last but not least, la carta Magnises si presentava come assolutamente esclusiva (la parola chiave). Un raffinato specchietto per le allodole, che serviva a stuzzicare gli appetiti di chi era già abituato ad avere tutto. I ricchi millenials, il tipo di clientela preferito da McFarland. Il fatto che i servizi esclusivi promessi – sconti su biglietti per concerti, cene private con artisti di grido ecc – fossero fasulli, passava quasi in secondo piano. Così è stato anche per l’esclusivo Fyre Festival, che ha convinto migliaia di giovani a comprare costosissimi ingressi sulla base di uno spot da 30 secondi e qualche foto con supermodelle su un sito dalla grafica accattivante.
Proprio vero, viviamo in tempi in cui realtà e realtà virtuale sono sempre più indistinguibili. Non solo. Quella di McFarland ricorda da vicino un’altra vicenda americana, quella di Elizabeth Holmes, la creatrice di Theranos (leggi il pezzo su The Inventor). E Fake it until you make it è uno dei principi fondamentali, pienamente condiviso dai due giovani truffatori. Così come quello di eliminare tutti i collaboratori che riservano critiche al proprio operato. O l’assurdo principio per cui uno spirito che si mantiene positivo può vincere contro una realtà che si presenta ostile. Basta crederci.
Billy, Elizabeth & Anna
L’abitudine di mentire ai propri investitori, generosamente condivisa da Elizabeth e Billy ci ricorda invece colui che forse è stato il più grande truffatore della sua generazione: Madoff (leggi il pezzo su Madoff – il mostro di Wall Street). Nel suo caso però egli era costretto a mentire sempre e comunque, perché questo è nell’essenza di uno schema Ponzi. Vi era in Madoff una rassegnata malizia, assente nei due giovani e sociopatici narcisisti. Entrambi in fondo convinti di stare per realizzare qualcosa di unico e senza precedenti.
Come anche Anna Delvey, pseudonimo usato da Anna Sorokin, la brillante ragazza russa che riuscì a farsi passare negli ambienti upperclass newyorkesi per facoltosa ereditiera (qui il podcast su Inventing Anna). E che stava per ottenere in concessione uno sbalorditivo fondo di credito. Così, sulla parola – meglio ancora, sull’apparenza. Anche lei inseguiva un grande sogno: la costituzione di un rivoluzionario centro artistico e culturale a New York. Non è certo un caso che in una delle scene della serie Inventing Anna, la protagonista faccia brevemente la conoscenza di un giovane a New York che sta lavorando a quella che definisce ‘la festa del secolo’. Che si chiamerà, per l’appunto, FYRE.
A pensarci bene ci sarebbero sicuramente molti altri esempi, molti dei quali raccontati in altri show (penso a WeCrashed e a Bad Surgeon), più o meno attinenti al nostro specifico caso. Un caso, questo di FYRE, in cui narcisismo, visionarietà e spregiudicatezza vanno a braccetto (a questa particolare tipologia di individui abbiamo dedicato il podcast Documentari & Follia 3 – Inventori, narcisismo, megalomania). Con una maniacale attenzione per i dettagli, a patto però che siano assolutamente superflui (anche questa una psicotica caratteristica di Elizabeth Holmes). Era in sostanza più importante il logo scelto per l’ennesima comunicazione virtuale che la scarsissima fattibilità dei progetti in questione. In un caso, una vera e propria rivoluzione in campo medico. Nell’altro, la festa del secolo. Ognuno fa ciò che può.
Fyre Festival 2
In Billy McFarland noncuranza e cialtroneria si sposano a tracotanza e spavalderia. Non stupirà più di tanto quindi una delle sue ultime uscite, in cui annuncia pubblicamente di stare ipotizzando una seconda edizione del Fyre Festival. Viviamo in un mondo in cui la capacità di memoria virtuale – spazi di archiviazione di decine e decine di tera – va di pari passo con il completo smarrimento mnemonico degli esseri umani. Per cui, facendo un esempio a caso, puoi far assaltare illegalmente lo stesso palazzo del potere che pochi anni dopo avrai democraticamente conquistato. Con buona pace di tutti.
E se è vero, come dice uno degli intervistati di FYRE – The Greatest Party That Never Happened – che quel tragico disastro fu la conseguenza della virtualità di Instagram trapiantata nella nostra realtà, allora questo tweet di Billy McFarland ha perfettamente senso: “Devo 26 milioni di dollari. La mia idea per ridarli […] è fare quello per cui sono davvero bravo: dare vita a idee creative sfrenate, mettere insieme talenti e realizzare grandi cose”.
Nel caso aveste qualche dubbio a riguardo, ecco le ponderate parole di una ragazza che ha già comprato il biglietto: “ha avuto molto tempo per pensarci e prepararsi questa volta”.
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