Fosse/Verdon, 2019, 8 puntate, Disney Plus Star
Al cinema il genere biografico è una rogna. Territorio d’altra parte battutissimo, dalle agevoli possibilità commerciali: uno sceneggiatore compatta gli episodi di una vita combinando la spezia all’edulcorante, il regista in gamba esalta il lavoro di trovarobato, l’attore quello di trucco&parrucco forzando una mimesi che agogna premi. Ma, come per gli adattamenti dai libri, per quanto la ricostruzione sia encomiabile e pulsi di sentimento, se ci si limita alla messa in scena puntuale il prodotto risulta insipido, la visione interlocutoria.
Che cosa rende appagante un biopic?
Ecco perché i biopic più appaganti, per quanto discutibili a livello storico o di principio, sono quelli in cui la materia viene assoggettata ad altro. A un concetto di base forte (e risonante come il bestemmione che da Salieri, fratello nostro nell’ordinarietà, viene elevato in Amadeus, tra stucchi e crinoline, alla divinità ingrata e schernitrice). A un taglio narrativo peculiare (come in Steve Jobs, scandito dalle conferenze di lancio dei più sensazionali prodotti dell’imprenditore e dai diverbi che vieppiù lo attanagliano nei dietro le quinte).
All’ambizione di adattare contenuti tremendamente disagevoli ad un’estetica proteiforme (come nel Wittgenstein di Derek Jarman), o di infondere un’abissale umanità nell’Ideale Artistico Incarnato, come nel bellissimo Turner di Mike Leigh: lo studio londinese angusto ed incasinato lì pare un’officina ultraterrena in cui uno Zeus scatarrante (il padre del pittore che impasta per il figlio pigmenti gialli) soggioga raggi di sole di cui un Apollo che bofonchia, pingue ed irrequieto, si servirà per trasfigurare la realtà visibile.
A un punto di vista distintivo, insomma.
C’è chi è pure riuscito ad appropriarsi di un film spudoratamente autobiografico come 8 e ½, seguendone la struttura e riformulandone persino il messaggio di base (“o mi pigliate come sono o v’attaccate, stronzi”), per raccontare se stesso: e questi fu Bob Fosse con All That Jazz (1979).
Fosse/Verdon: di che cosa parla?
E proprio Bob Fosse è uno dei due protagonisti al centro di Fosse/Verdon, una miniserie biopic di 8 episodi prodotta per Fox Tv, ora disponibile sul catalogo di Star, canale di Disney Plus rivolto ad un pubblico più adulto (tra le lingue dei sottotitoli presenti il polacco e il finlandese, ma non l’italiano: perché? boh).
Bob Fosse fu prima animale da palcoscenico la cui mira di eguagliare Fred Astaire venne presto stornata dall’alopecia, poi coreografo teatrale personalissimo (col cui stile viscerale pare voler far scontare lo smacco costringendo i suoi danzatori a movimenti e posizioni che torcono allo spasimo le articolazioni) e infine regista rivoluzionario di un genere.
Suo è infatti Cabaret, otto premi Oscar, musical che pare andare incontro a coloro che detestano i musical – che in Italia ahimé sono Legione – i quali si dicono disturbati soprattutto dal fatto che ad un certo punto i personaggi smettono di comunicare come cristiani e inopinatamente attaccano a cantare in mezzo alla strada e a ballare in gruppo (magari elevando sulla superstrada una rutilante ode ad un’altra giornata di sole come in La La Land che io, guardandola, da pendolare mi immaginavo una versione sul treno del lunedì mattina, ma mentre fuori piove sangue).
Con approccio più realistico, nell’adattamento cinematografico di Cabaret i numeri musicali si limitano alle sole esibizioni sul palco del Kit Kat Klub, anche se le canzoni commentano con piglio sardonico (e infine disperato) le tribolazioni che i personaggi stanno affrontando, e i sentimenti covati e poi così intensamente rivelati.
Gwen Verdon, musa, moglie, stretta collaboratrice di Fosse, fu parimenti ballerina e cantante la cui prorompente vitalità imperversò nel teatro musicale lungo tutti gli anni ’60, poi insegnò e produsse e recitò al cinema per Allen e Coppola.
Fosse/Verdon: una coppia inossidabile, un vincolo fecondo
Il vincolo inossidabile e fecondo tra i due è ben sintetizzato dall’uso della barra obliqua nel titolo che separa ma pure aggancia l’uno all’altro i nomi dei due artisti, più di altre congiunzioni che nel loro caso avrebbero avuto altrettanto senso, come la “&” valida per rimarcare un rapporto professionale che rifulse nell’ambiente di Broadway per decenni, o come il “Vs.” che avrebbe già graficamente preannunciato gli episodi più turbolenti, le incomprensioni e le ripicche in ambito lavorativo, i marosi escrementizi che la Verdon dovette solcare in tutti quegli anni appresso ad un adultero seriale, un egotico “consapevole” (grrrrr), uno sbruffone tristo ed irriconoscente, smanioso delle altrui attenzioni.
Nessuno di codesti aspetti viene a mancare.
Non dovendo fare grandi sforzi di sintesi i creatori di Fosse/Verdon possono saltabeccare da un episodio significativo all’altro, riuscendo a sfaccettare diversi personaggi che orbitano attorno alla coppia. La figlia sballottata tra i due infine vittima di una formazione fin troppo lasca. La giovanissima e sensuale nuova compagna di Bob che Gwen, calorosa e magnanima, tratta da sodale.
L’amico fraterno Paddy Chayefsky, drammaturgo sferzante, che figura, tra facezie da screwball comedy e obiezioni acuminate, quale spalla e voce della coscienza. Una delle più belle scene è quella del suo funerale, quando Fosse omaggia lo scomparso con un tip tap esitante, accorate variazioni coreutiche sul gesto della riverenza.
“Grandi uomini” e ruoli femminili
Poi la miniserie si inserisce con autorevolezza nell’attuale temperie culturale, facendo finalmente emergere dall’ombra le azioni della “grande donna che sta dietro al grande uomo”. Rievocando le tante occasioni in cui la Verdon venne invocata dal regista per sbrogliare impasse creative grazie ad intuizioni in fase di montaggio di un film o dell’allestimento di uno spettacolo. E non manca di mettere in rilievo il fatto che se una giovane ballerina di fila si arrischiava ad insorgere alla prepotente avance del coreografo doveva poi costringersi ad una mortificante richiesta di scuse se non voleva vedere la propria carriera sabotata.
Il racconto prosegue frantumato, avanti e indietro, la spinta inesausta delle due forze in campo pare venire contrastata da inserti del passato, fuggevoli ma gravosi, frammenti che riguardano gli addestramenti spossanti o le scelte di vita sciagurate.
Poi c’è anche qua spazio per l’aneddotica non particolarmente ficcante e per le rassomiglianze fin troppo esibite: c’è la simil-Liza Minelli, c’è il simil-Dustin Hoffman di Lenny, il simil-Roy Scheider di All That Jazz è interpretato da Lin-Manuel Miranda, mammasantissima del teatro musicale odierno, anche produttore della miniserie.
Ciò che però permette a questo biopic di sganciarsi in volo dalla pletora di prodotti sciapi è il modo in cui viene trattato il tempo. Viene specificato sullo schermo quanto dista temporalmente l’episodio presente rispetto ad un premio vinto o ad un collasso subito, o rispetto alla tanto sospirata messa in scena di Chicago, musical cinico e profetico, tra i maggiori successi del coreografo.
Tempo, destino e ottimi attori in Fosse/Verdon
Circostanze cruciali verso cui Bob e Gwen avanzano o da cui sono reduci. Passato e futuro pressano la loro esistenza, non viene mostrato alcun momento liberatorio in 8 episodi (il sesto vede l’intero cast riunito in una sovraeccitata unità di spazio), l’occhio di bue non molla il centro del palco sul quale i due artisti sostengono (ora sono gli animi flessi in movimenti e posizioni dolorosi) una performance ininterrotta.
Gli attori sono perfetti, Sam Rockwell che, a parte alcuni barlumi, punta a fare emergere il lato più malmostoso di Fosse, Michelle Williams il cui sorriso più smagliante mai dissimulerebbe quel sentimento di ansia quasi di cordoglio che le piega le labbra, e neppure l’intensità con cui lo regge e contrasta che sobbolle nello sguardo.
Così si capisce che Bob non poteva che fare la fine che ha fatto, schiantato da un infarto a 60 anni a due passi dall’ingresso di un teatro, e che Gwen fosse lì, a sollevargli il capo dal marciapiede, ad accompagnarlo sulla soglia, e a sopravvivergli.
Quante dita schioccate nelle coreografie dei due, secchi snap a colmare una pausa, o a ritmare una canzone dal fraseggio ammiccante.
Le dita schioccano a ritmare la vita, finchè smettono di schioccare, così.