Fino a che punto può spingersi il potere di un medico sulla vita di un paziente? Quali sono i confini che separano la pietà umana dall’arrogarsi una funzione divina? Sono domande quasi da riflessione bioetica, filosofica. E che pure, in modo estremamente sottile ed elegante, si pone una bella e avvincente miniserie americana in 8 episodi: Five Days at Memorial. Su cui avevo registrato, alla sua uscita su Apple TV+ nel 2022, una puntata del nostro podcast. Ma di cui mi era rimasta la voglia di parlare anche qui.
Basata su una storia vera e sull’omonimo libro-inchiesta del 2013 di Sheri Fink (di cui parliamo meglio dopo), la serie è stata sviluppata, scritta e diretta da John Ridley e Carlton Cuse (già showrunner di Lost, The Strain, Tom Clancy’s Jack Ryan). Racconta le difficoltà che un ospedale di New Orleans – il Memorial del titolo – deve affrontare dopo che l’uragano Katrina è piombato sulla città. Descrivendo gli eventi che hanno segnato il Memorial Medical Center per cinque giorni, quando migliaia di persone sono rimaste intrappolate senza elettricità. Letteralmente assediate dalle acque pericolose dell’alluvione, che aveva isolato il complesso.
Nel caos dell’emergenza, tra scorte in esaurimento e medicinali sempre più scarsi, senza indicazioni o informazioni dalle autorità prese completamente alla sprovvista da un disastro inimmaginabile, i medici e il personale sanitario si trovano di fronte a scelte terribili. A quali pazienti dare priorità. Quali trattare, in che modo. Chi far uscire per primo quando i soccorsi arriveranno. E verso quei pazienti che diventasse impossibile evacuare… quale sarebbe la cosa umana da fare?
Domande delicate, attuali, difficili. Che Five Days at Memorial affronta con intelligenza, onestà di sguardo, ottima capacità di mediazione tra esigenze drammatiche e profondità di riflessione.
Una storia difficile, finita nelle mani giuste
A metà tra dramma, indagine, racconto processuale, Five Days at Memorial catapulta gli spettatori in un vortice di tensione. Ma allo stesso tempo lascia spazio e tempo perché quesiti complessi possano sedimentare nella coscienza dello spettatore. Il Memorial Medical Center diventa un microcosmo di dilemmi etici. A partire da un’applicazione controversa del triage, che dà la priorità a quanti potevano essere evacuati a scapito dei pazienti in condizioni critiche. La tensione drammaturgica raggiunge l’apice quando emergono accuse di eutanasia da parte del personale medico e infermieristico, aggiungendo un’ulteriore dimensione etica e morale alla storia.
Capite bene che una storia come questa poteva facilmente sfuggire di mano ai propri autori. E ha forse rischiato di farlo prima ancora di essere messa in scena, dato che inizialmente il progetto era stato opzionato da Ryan Murphy per farne la terza stagione di American Crime Story, su FX. Murphy, come abbiamo raccontato in questa puntata del podcast dedicata al prolifico showrunner americano, è un eccellente anche se incostante narratore. Ma il suo stile enfatico e il suo amore dell’eccesso avrebbero portato da tutt’altra parte Five Days at Memorial. La cui storia, delicata e insieme potente di suo senza bisogno di essere sovraccaricata, ha trovato la giusta cura nelle mani di un autore capace e insieme più “invisibile” come Carlton Cuse.
Cuse, figura di rara solidità nel panorama televisivo, ha plasmato il gusto del pubblico degli ultimi decenni con opere come Lost e Bates Motel, ma anche The Strain e il recente adattamento dei romanzi di Tom Clancy dedicato alle avventure di Jack Ryan. Dimostrando una notevole capacità di padroneggiare con sensibilità generi molto diversi. La collaborazione tra Cuse e Ridley assicura a Five Days at Memorial alti livelli di tensione e profondità emotiva.
Five Days at Memorial: il libro-inchiesta
Sheri Fink, giornalista americana, ha tessuto un racconto avvincente e controverso nel suo libro del 2013, “Five Days at Memorial: Life and Death in a Storm-Ravaged Hospital”. Basato sul suo precedente articolo vincitore del Premio Pulitzer, il libro esplora in profondità una storia vera. E cioè le tragiche conseguenze dell’uragano Katrina sul Memorial Medical Center di New Orleans, nell’agosto 2005. Fink racconta le decisioni cruciali e i dilemmi morali affrontati dal personale medico nell’ospitalità. Sottolineando le sfide legali ed etiche legate all’assistenza sanitaria in scenari di disastro – fino alla pratica dell’eutanasia. Il suo lavoro è stato acclamato dalla critica e ha ricevuto tre premi prestigiosi, incluso il National Book Critics Circle Award per la saggistica.
L’opera ha avuto origine da un articolo-inchiesta, “The Deadly Choices at Memorial”, pubblicato nel New York Times Magazine nel 2009 dalla stessa autrice. Fink, con il suo background medico e giornalistico, ha condotto una ricerca intensiva, intervistando oltre 500 persone coinvolte nell’incidente. Inclusi pazienti, familiari, e membri del personale ospedaliero. Ha esaminato documenti, video, e-mail, e testimonianze dirette per dipingere un quadro dettagliato e coinvolgente degli eventi. La dottoressa Anna Pou, figura centrale nella storia, ha rifiutato di discutere i dettagli legati alla morte dei pazienti, ma altre fonti hanno contribuito a gettare luce su un momento di crisi etica senza precedenti.
Il libro di Fink non solo offre una narrazione avvincente di una tragedia umana, ma solleva anche domande cruciali sulla responsabilità medica e sui dilemmi etici in situazioni di emergenza. Con una ricerca accurata e un’analisi approfondita, “Five Days at Memorial” si è affermato negli anni come un contributo significativo alla comprensione delle sfide affrontate nel campo della sanità durante le catastrofi naturali.
Etica, giustizia e preparazione ai disastri
Il Memorial Medical Center si è trasformato in un incubo quando la mancanza di energia e generatori guasti hanno gettato l’ospedale nell’oscurità, senza aria condizionata né strumenti vitali. Con migliaia di persone intrappolate dalle acque alluvionali, il personale ha adottato un controverso sistema di triage. Privilegiando l’assistenza ai casi più gestibili – e che avrebbero potuto realisticamente essere evacuati via elicottero, procedura tutt’altro che banale in un grande ospedale privo di corrente elettrica per alimentare gli ascensori. E mettendo in coda pazienti critici, o terminali, o anche solo che avevano chiesto di non essere rianimati in caso di crisi. La situazione raggiunge l’apice il quinto giorno: iniezioni letali di morfina accelerano la morte dei pazienti più gravi.
La seconda parte del libro, intitolata “Reckoning”, solleva questioni legali e politiche legate alla crisi, con particolare attenzione alle controversie sull’eutanasia. 45 pazienti sono morti prima dell’evacuazione. 23 di questi hanno evidenziato nei loro tessuti tracce di morfina in alto dosaggio, o di altri farmaci similari. Le indagini si concentrano sulla dottoressa Anna Pou e due infermiere, Cheri Landry e Lori Budo, accusate di aver somministrato dosi letali di morfina. Anche grazie alla simpatia del pubblico per il personale medico finito sotto inchiesta, le accuse contro Landry e Budo sono state ritirate. Mentre Pou è stata scagionata da un gran giurì nel 2007.
Un breve epilogo del libro “Five Days at Memorial” critica i protocolli sanitari nei disastri e l’incapacità del governo degli Stati Uniti di far rispettare gli standard per la “preparazione alle emergenze”. Utilizzando l’esempio del successivo uragano Sandy, nel 2012, per illustrare la mancanza di cambiamento nella preparazione degli ospedali dopo il disastro di Katrina e il dramma del Memorial. Insomma: una lezione che non ha insegnato abbastanza?
Five Days at Memorial: un apologo morale senza soluzione
L’episodio finale di Five Days at Memorial non porta una “soluzione” in termini di giudizio – che qui sarebbe equivalsa a una semplificazione. Apre invece, opportunamente, una nuova serie di interrogativi, amplificando il dilemma morale e l’ambiguità che hanno permeato tutta la serie. Gli esperti forensi puntano il dito contro i sospetti omicidi multipli di pazienti, ma l’entusiasmo dei pubblici ministeri – sempre attenti a fiutare il vento del consenso – è tiepido. Nel vortice della pubblica opinione, il dottor Pou appare nella celebre trasmissione televisiva “60 Minutes”, presentandosi come una figura simpatetica e credibile. Ma le ombre del sospetto persistono. Il gran giurì di Orleans si rifiuta di incriminare Pou, ma la verità rimane sfuggente.
Lo abbiamo già detto: non è affatto un limite. Anzi, è la conferma di una scelta di rigore e distanza a cui gli showrunner restano fedeli fino alla conclusione. Rifiutando di schierarsi, e di schierare emotivamente il racconto. E al contempo non risolvendo sbrigativamente il dilemma allo spettatore. Le domande emerse resistono, sfidanti e profonde. Come una situazione di emergenza catastrofica può tradursi in decisioni mediche, etiche e legali? Qual è il confine tra la comprensibile aspirazione a salvare più vite possibile e il rispetto di un giuramento medico che impone la centralità della vita individuale del singolo paziente?
La serie, avvolta in una confezione di alta qualità grazie alla produzione Apple e ai nomi coinvolti, lascia allo spettatore il compito di confrontarsi con questi dilemmi, senza offrire risposte definitive. Sta a noi decidere da che parte stare, sempre che scegliere sia possibile. O piuttosto riflettere su una complessità forse davvero, per una volta, insolubile. Con rispetto e soprattutto compassione: la pietas che gli antichi riservavano alla tragedia.
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