Quando la nave di Nosferatu, spettrale e ormai senza più un’anima a bordo, giunge a Wismar, città tedesca sul Baltico, trasporta due cose: un oscuro potere e la peste.
Il vampiro caccia la propria preda, i topi diffondono il contagio, finché la città appare più morta che viva. In ogni momento una cosa è chiara allo spettatore: il mostro e la sua pestilenza sono il male, venuto a tormentarci. Contro quel male si lotta: per resistergli, o vincerlo. O a quel male si soccombe, infine vinti. Neppure per un attimo ci sfiora l’idea che quel flagello sia una punizione; tantomeno una punizione che ci siamo meritati.
Il primo Nosferatu, di Murnau, è del 1922. Un secolo dopo continuiamo a raccontare il contagio, con frequenza crescente e non solo nel tempo del Coronavirus. Ma lo facciamo, sempre di più, all’ombra di un sempre più evidente sentimento di colpa.
Primi esempi di film e serie sulla pandemia: Andromeda, Survivors
Veniamo ai giorni nostri. Analizziamo lo schermo che oggi più capillarmente, trasversalmente, profondamente racchiude e racconta paure e desideri, pulsioni e tensioni della nostra epoca: quello televisivo. E in particolare ovviamente il mondo delle serie tv, formidabile macchina per la produzione e assimilazione di contenuti che ha progressivamente conquistato piena centralità in termini di pubblico.
La serialità televisiva appare la vera letteratura popolare del nostro tempo, lo specchio in cui più chiaramente possiamo veder riflessa l’immagine della società: sarà quindi interessante indagare come racconti lo spauracchio del contagio. E, soprattutto, come lo racconti in termini morali.
Sul tema pandemico, la produzione televisiva più antica è plausibilmente Survivors, distribuita in Italia come I sopravvissuti: serie inglese targata BBC che, già nel 1975, mise in scena la difficile battaglia per la sopravvivenza dei pochissimi superstiti alla diffusione globale di un mortale virus. Diffuso accidentalmente, pensate un po’, da uno scienziato cinese.
Nella sigla di testa, una rapida sequenza di timbri sul passaporto suggerisce come si sia diffuso il contagio, rapido e invisibile: è la prima rappresentazione televisiva delle vulnerabilità di un mondo globalizzato.
Pochi anni prima al cinema era uscito producendo una certa sensazione Andromeda (in inglese, The Andromeda Strain), film del 1971 che adatta una novella di Michael Crichton, l’autore a cui si devono tra gli altri anche Jurassic Park e lo spunto iniziale di Westworld. In Andromeda, un virus venuto dallo spazio minaccia il mondo e resiste apparentemente a tutti i tentativi militari, medici, tecnologici e scientifici di controllarlo o distruggerlo.
Un’inflazione di show post-apocalittici
Come il cinema, anche la televisione ha lungamente flirtato con l’apocalisse. O meglio ancora con gli scenari post-apocalittici, quelli che giocano con una semplice e disturbante idea: e se il nostro mondo, il mondo come lo conosciamo, venisse spazzato via? Di colpo: la civiltà, la società, la cultura, le istituzioni umane e politiche – tutto spazzato via. Il tema è dark, certo, ma nondimeno – o forse proprio per questo – fascinoso e popolare: come giustificare altrimenti una vera e propria inflazione di show che negli ultimi anni hanno portato sul piccolo schermo, e quindi nelle case di tutti noi, il terribile incubo della fine del mondo?
La panoramica è ricchissima, tanto che è meglio escludere serie di genere più spiccatamente horror e in cui la causa prima o il motore del contagio siano non agenti patogeni ma mostri di varia natura. Ne cito due, recenti. L’intrigante ma discontinua The Strain (trasmessa tra il 2014 e il 2017), creata da Guillermo Del Toro, il regista messicano premio Oscar per The Shape of Water. Qui un’antica entità maligna diffonde, a New York, un morbo che trasforma gli esseri umani in mostri simili-vampiri; lo combatterà un gruppo di battaglieri superstiti.
E poi la brutta V Wars, distribuita a fine 2019: anche qui, un’infezione muta gli umani in creature assetate di sangue, che iniziano a organizzarsi per contendere alla nostra specie il posto in cima alla catena alimentare.
In entrambe le serie è interessante notare come la propagazione del vampirismo sia del tutto assimilata alla diffusione di un’epidemia; e che a combatterla siano non dei classici eroi d’azione ma degli scienziati – naturalmente a un certo punto costretti a sporcarsi le mani.
The Walking Dead: la pandemia e i morti viventi
Diverso il caso di The Walking Dead (di cui parliamo in questo articolo e anche, in termini diversi, e in questa puntata del podcast): ha per protagonisti dei mostri, fin dal titolo, ma appartiene invece a pieno diritto al catalogo degli show che ci interessa esaminare. Un vero e proprio corpus: con la prima serie, The Walking Dead, in onda dal 2010; i suoi spinoff Fear The Walking Dead (dal 2015) e la recente The Walking Dead: World Beyond (2020). In The Walking Dead, ispirato al celebre fumetto di Robert Kirkman, la società umana è travolta dall’improvvisa apparizione e inarrestabile moltiplicazione dei “morti che camminano” del titolo.
Gruppi di sopravvissuti lottano per la propria vita, giungendo – stagione dopo stagione – a scoprire che non meno pericolosi dei revenants sono gli altri esseri umani, regrediti a uno stato di natura come lo avrebbe potuto descrivere Thomas Hobbes. Ci sono gli zombi, è vero, ma alla base di tutto e prima di tutto c’è la diffusione di un contagio che ha infettato i viventi: condannandoli a un ritorno post mortem nel segno di un famelico e bramoso vagare.
Un contagio a cui nessuno è immune, come si scopre nel drammatico finale della prima stagione: ambientato non per caso in ciò che resta del CDC, il mitico Centro per il controllo delle malattie infettive di Atlanta.
Passando in rassegna rapidamente le molte produzioni che in modo ancora più pertinente mettono al centro proprio quello scenario epidemiologico che oggi agita i nostri sonni, possiamo identificare due macro gruppi. Dividiamoli sulla base di dove collocano il focus del proprio interesse: da un lato i tentativi di gestione del contagio; dall’altro, la sopravvivenza in un mondo post-apocalittico figlio del fallimento nel contenere la pandemia.
Film e serie sulla pandemia / 1. Evitare la catastrofe
Il primo gruppo è particolarmente numeroso, e, in campo cinematografico, trova una sorta di capostipite moderno in Outbreak (in italiano Virus Letale), film di Wolfgang Petersen del 1995 con Dustin Hoffman, Donald Sutherland, Morgan Freeman, Kevin Spacey. Un cast stellare per mettere in scena i dilemmi etici che sorgono, anche in seno all’esercito, quando la quarantena imposta a una cittadina americana in cui si è acceso un focolaio virale tipo Ebola non sembra bastare, e la distruzione del centro urbano inizia a sembrare l’unica strada razionale.
Contagion di Steven Soderbergh, film del 2011 molto bello e più sofisticato rispetto al registro popolare che qui stiamo indagando, ha un cast altrettanto impressionante: Marion Cotillard, Matt Damon, Laurence Fishburne, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet e Bryan Cranston mettono in scena l’insorgere da Oriente di una pandemia, e la lotta per controllarla. In una prospettiva corale che dà voce non solo a medici, ricercatori, apparati securitari ma anche a giornalisti, vittime, involontari untori, e che mostra – in un finale beffardo e fascinoso – quanto sia facile appiccare l’incendio virale.
Nella foresta del lontano Oriente una ruspa abbatte una palma, cacciandone i pipistrelli; uno di questi si rifugia in un allevamento suino; un pezzo di banana che il volatile sta mangiando cade a terra e viene ingerito da un maiale; il maiale finisce nella cucina di un ristorante; il cuoco che lo sta macellando va a salutare l’importante cliente venuta dall’America. Non si è lavato le mani, e così contagia la paziente zero.
Planiamo ora sull’universo televisivo. Serrata, morigerata e convincente è una serie del 2019, The Hot Zone – Area di contagio, basata sullo sforzo militare e civile per contrastare la diffusione in America di un virus che qui è proprio il caro vecchio Ebola. Appena più vecchia è Helix (andata in onda tra il 2014 e il 2015), che segue un gruppo di scienziati del CDC nel tentativo di comprendere e combattere un agente patogeno che dall’Artico minaccia il mondo. Ad Atlanta, sede di quel Centro per il controllo delle malattie infettive così ricorrente nei film e negli show di genere, è ambientata Containment (2016), serie statunitense ispirata a uno show belga di due anni prima: qua al centro della narrazione troviamo, più ancora dell’epidemia, la quarantena in cui la città viene posta. Un tema, quello del lockdown, che nel primo semestre del 2020 ha letteralmente dominato il mondo.
Altre serie hanno messo in scena la stessa prospettiva, la lotta a una minaccia virale, ma ci limitiamo a queste.
Film e serie sulla pandemia / 2. Dopo la catastrofe: The Rain, Jeremiah, The Stand
Del secondo gruppo – show che raccontano il mondo dopo la pandemia – fa parte ovviamente il già citato franchise di The Walking Dead, che da solo occupa uno spazio di grande rilievo del panorama massmediatico dell’ultima decade: nato come fumetto, è cresciuto come serie tv con due spinoff e persino tre film in produzione, e dilagato nel mondo del videogame. E così alcune altre serie.
Altro esempio è The Rain, serie danese iniziata nel 2018 e giunta alla sua terza stagione: la pioggia del titolo ha diffuso un virus mortale, che in pochissimo tempo spazza via l’umanità. Nascosti dal padre in un bunker, due giovani fratelli dovranno – assieme ad altri sopravvissuti – cercare di capire cosa è successo e come la minaccia possa essere disinnescata.
Andando più indietro nel tempo, si può sentire un’eco de Il signore delle mosche nell’americana Jeremiah, distribuita all’inizio del 21° secolo, con protagonista il popolare Luke Perry. Quindici anni dopo un’epidemia letale che ha sterminato quasi tutti gli umani sopra l’età della pubertà, i giovani sono chiamati a reimmaginare strutture sociali spazzate via dalla scomparsa degli adulti. E a combattere ciò che resta del vecchio apparato politico-militare che, protetto dai bunker, si è mutato in un regime tirannico e aggressivo.
The Stand, traduzione in immagini del bel romanzo di Stephen King (in italiano, L’ombra dello scorpione), conobbe un adattamento in miniserie nel 1994. Fu una parziale delusione, almeno rispetto alla forza del romanzo: ma siamo poi stati costretti a rivalutare la vecchia miniserie dopo il sostanziale disastro della nuova versione del bellissimo libro (distribuita in Italia a inizio 2021), prodotta con mezzi ben maggiori.
In questa celebre storia, in ogni caso, i pochi sopravvissuti a un virus sfuggito a un laboratorio militare sepolto nei deserti della California si dividono in due fazioni, guidate da figure di leader molto diversi. Daranno vita a due comunità, una democratica e inclusiva e una tirannica e tecno-scientista: inevitabilmente destinate a uno scontro escatologico, di forte matrice cristiana, secondo i classici schemi del Bene contro il Male e della Luce contro l’Oscurità.
Film e serie sulla pandemia / 3. Dopo la catastrofe: The Last Ship, 12 Monkeys, Anna
Curiosa, e a modo suo interessante, è poi la premessa (ma solo la premessa) di The Last Ship (in onda dal 2014 al 2018): una nave militare americana, sopravvissuta a un’epidemia che ha sterminato gran parte dell’umanità, deve cercare una cura, continuando a navigare per i sette mari; mentre ciò che resta degli Stati Uniti cerca faticosamente di ricostruire un ordine.
Fa un po’ categoria a sé, infine, 12 Monkeys, le cui stagioni sono state distribuite tra 2015 e il 2018, serie ispirata al visionario e omonimo film di Terry Gilliam del 1995 (in italiano L’esercito delle 12 scimmie). Da un futuro che ha visto la quasi totale estinzione della specie umana, un improbabile eroe viene inviato fino ai giorni nostri, con la missione di prevenire la diffusione di un virus letale da parte di una misteriosa organizzazione. I paradossi del viaggio nel tempo fanno sì che lo show racconti, insieme, tanto un mondo che ha subito le conseguenze della pandemia quanto i tentativi di impedirla.
Uscita solo ad aprile 2021 è poi l’italianissima Anna, scritta e diretta da Niccolò Ammaniti a partire dal suo romanzo di alcuni anni prima. Come in Jeremiah, gli adulti sono tutti morti, travolti dalla pandemia. Due fratelli dovranno affrontare la regressione alla barbarie dei loro giovani e giovanissimi coetanei, accecati dalla follia e alla perdita di ogni inibizione (torna il tema del Signore delle mosche). Proteggersi l’un l’altro. E traversare una Sicilia in rovina.
La morale che emerge, tra finzione e realtà
Ok, direte a questo punto, abbiamo capito: è una storia che raccontiamo da decenni. Ma c’è qualcosa di più che si può leggere in filigrana nelle trasformazioni di una stessa – apparentemente monotona – materia narrativa. Perché, come dicevamo all’inizio, se la storia è bene o male sempre quella, così non è per la sua morale.
Guardiamo a questa abbondantissima produzione di pop culture, e poniamoci una domanda: quanta parte di colpa viene assegnata all’essere umano su cui ciascuna di queste catastrofi narrative si abbatte? Quanto possiamo dirci innocenti – o quantomeno causalmente estranei! – rispetto alla genesi o alla diffusione di tutte queste pestilenze di fantasia che dal piccolo schermo turbano il nostro immaginario e interpellano le nostre coscienze?
Sempre più spesso, poi, mescolandosi agli allarmi reali di reali emergenze sanitarie (Coronavirus, SARS, AIDS, morbo della mucca pazza, l’influenza suina, l’influenza aviaria, o l’antica e letale influenza Spagnola di un secolo fa…)…
Potremmo distinguere, un po’ scherzosamente, tre diversi gradi di “colpa”.
Il primo: è proprio colpa nostra.
Il secondo: è indirettamente colpa nostra.
Il terzo: se anche non è colpa nostra, ce lo siamo meritato.
Da Resident Evil a The Happening: la pandemia è colpa nostra…
Il primo grado confessa: è proprio colpa nostra. Il flagello l’abbiamo creato e diffuso noi, non importa come: esperimenti scientifici tracotanti, laboratori di ricerca compromessi, ciniche operazioni militari, multinazionali farmaceutiche senza scrupoli… Appartengono a questa categoria film e serie sulla pandemia che abbiamo già raccontato, come Survivors, The Stand, 12 Monkeys.
Così come la sovrabbondante e fortunatissima saga cinematografica di Resident Evil, ispirata a una serie di videogame di enorme successo, tutta incentrata su un’eroina molto combattiva che non è il classico cavaliere bianco: la protagonista (nei film interpretata con molta convinzione da Milla Jovovich) porta su di sé le stimmate delle manipolazioni genetiche ordite dalla spietata Umbrella Corporation, che ha distrutto l’umanità e dato vita a mostri raccapriccianti che ora popolano il mondo dando la caccia ai pochi umani superstiti. Nota bene: l’Umbrella Corporation ha deliberatamente sterminato gran parte dell’umanità, per risolvere un problema di sovrappopolazione ritenuto ormai ingestibile. Come rivela il discorso del dr. Isaacs, creatore del virus letale, che qui sotto potete ascoltare.
Il secondo grado ammette: sì, è – almeno indirettamente – colpa nostra. L’epidemia, anche se non creata dall’uomo, è frutto di un fallimento gestionale spesso causato da un desiderio di sfruttamento delle potenzialità del patogeno per finalità economiche o politico-militari: i già citati Outbreak, The Hot Zone, Helix, e la sfortunata The Passage (del 2019), giustamente cancellata dopo una sola stagione. Proprio quando ci si poteva iniziare a divertire, con la fuga dal solito laboratorio militare segreto dei mostri-vampiri creati dall’esposizione a un misterioso virus e la conseguente devastazione del mondo..
Oppure il contagio è conseguenza di un turbamento dell’equilibrio del mondo: come nel film del 2008 The Happening (in italiano, E venne il giorno), scritto e diretto da M. Night Shyamalan (l’autore di Il sesto senso e Unbreakable), in cui la natura letteralmente si ribella alla condotta umana cercando di avvelenare il parassitario Homo sapiens, portandolo a suicidarsi.
…o ce la siamo comunque meritata: See, The Walking Dead
Il terzo grado (non è colpa nostra, ma ce lo siamo meritati) è ancora più sottilmente interessante e rivelatore di una tendenza psicologica di massa. Non siamo stati noi a creare o causare il virus. E neppure la sua diffusione ci è imputabile. È successo, e basta. Siamo innocenti, quindi? Neanche per idea, come il mondo post apocalittico si incarica di chiarire in modo inequivocabile. In See, serie pubblicata a fine 2019, si racconta un’umanità che, secoli dopo la diffusione di un virus che ha privato tutti della vista, è tornata a comunità primitive e largamente pre-tecnologiche. Ma nelle quali, in paradosso, la privazione è vista come una benedizione: l’uomo di prima era malvagio, l’arroganza della civiltà del sapere ci aveva portati al disastro. Si sta meglio, in fondo, così: il che fa del virus un fatto positivo, un agente quasi morale. Un tema chiarissimo fin dal trailer.
Procedendo in un senso del tutto diverso, il mastodontico franchise The Walking Dead costruisce una caratterizzazione altrettanto negativa e pessimistica dell’umanità. Raccontandoci un mondo in cui, poco a poco, siamo costretti a riconoscere che i mostri non sono cattivi e i protagonisti non sono buoni. Pur terrificanti, gli zombi vagano sotto il dominio dell’unico istinto loro rimasto, un’insaziabile brama di carne: sono un nemico, certo, eppure non hanno colpa morale per ciò che sono diventati. Ma che giustificazione hanno i supposti “buoni”, gli esseri umani – cioè noi? In questa popolarissima saga, giunta alla decima stagione, nessuno è davvero capace di astenersi dal male. In un mondo in cui le strutture sociali sono collassate è l’uomo, più ancora del mostro o del virus, a fare paura.
Nosferatu, Freud e la “peste” della psicoanalisi
Torniamo ora a Nosferatu, e a quella nave spettrale che nel 1922 viene fissata in pellicola da Murnau. Pochi anni prima, nel 1909, dall’altra parte dell’Atlantico, un’altra nave si accinge ad approdare in America. Anche questa trasporta un oscuro potere e un contagio, sotto forma passeggeri illustri: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Il padre della psicoanalisi stuzzica l’allievo: “Non sanno – dice – che portiamo loro la peste”.
Freud scherza, forse, ma le conseguenze di una psicologizzazione di massa del nostro mondo le vediamo anche in queste traduzioni semplici che ne fa la cultura pop. Il male non è più esterno, alieno; è dentro di noi, è prodotto da noi, siamo noi. L’introiezione del male, spinta all’eccesso paranoico, porta con sé una moralizzazione del principio di causalità: le sciagure del mondo non accadono seguendo ragioni esterne, magari imperscrutabili, a volte casuali; se accadono è “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Colpa individuale. O collettiva, sociale, culturale. Ma comunque come reazione, o conseguenza, o punizione per una violazione dell’ordine che essendo colpevole merita appunto un castigo.
La parabola (e la lezione) de L’alba dei morti viventi
Una traiettoria moralistica, del tutto in linea con i codici largamente “bassi”, popolari, della produzione televisiva di consumo. E perfettamente esemplificata da questa curiosa, un po’ buffa e un po’ rivelatrice, parabola metacinematografica . Nel 1978, l’attore Ken Foree prende parte al leggendario Dawn of the Dead di George Romero (in italiano Zombi), il seguito de La notte dei morti viventi che è anche la consacrazione in chiave di satira e critica sociale del sottogenere zombi. Qui, Foree interpreta uno dei sopravvissuti all’epidemia, barricato in un centro commerciale assediato dai lugubri e famelici morti viventi.
Lo stesso attore, 25 anni dopo, apparirà nel remake omonimo firmato da Zack Snyder all’inizio del nuovo millennio (L’alba dei morti viventi, 2004). Ma stavolta Foree non interpreta uno dei sopravvissuti, minacciati da un Male esterno, incolpevoli, che cercano giustamente di salvarsi. Nella nuova versione del film, l’attore appare nei panni del fosco telepredicatore che con malcelata soddisfazione inchioda l’umanità, e lo spettatore, alle proprie responsabilità: gli zombi non sono capitati per caso, ma per colpa nostra.
Il predicatore lo dice chiaramente: “L’inferno trabocca. E Satana ci manda i suoi morti. Perché? Perché fate sesso fuori dal matrimonio, uccidete bambini non nati, avete relazioni e matrimoni omosessuali. Come pensate che il vostro Dio vi giudicherà? Beh, amici, adesso lo sappiamo. Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra”.
Più chiaro di così!
Film e serie sulla pandemia. La morale della storia
E questo ci accompagna alla nostra conclusione: parlando di epidemie, e della loro rappresentazione nella cultura popolare, ci sono alcuni riferimenti letterari che sarebbe facile fare. Autori entrati nell’immaginario collettivo, anche se certo in forme meno di massa rispetto a quanto il cinema e soprattutto la televisione sanno fare.
Boccaccio, nel ‘300, con il suo Decameron che è una raccolta di storie che un gruppo di giovani si racconta mentre si è rifugiato in campagna per sfuggire alla peste di Firenze; Manzoni, nell’800, con I Promessi Sposi, che mettono in scena in modo molto vivido la peste milanese del ‘600, gli untori, l’assalto ai forni; e infine, nel Novecento, Albert Camus, con la rappresentazione della Peste come un male metafisico, in qualche modo connaturato alla stessa esistenza umana.
Eppure, in coerenza con il ragionamento che abbiamo fatto, il modello a cui il nostro racconto della pandemia sembra assomigliare di più è paradossalmente il più lontano: Edipo Re di Sofocle, la tragedia greca per eccellenza, vecchia di 2500 anni, eppure ancora illuminante. Il capolavoro di Sofocle inizia così: Edipo, re di Tebe, deve indagare sulle cause di una pestilenza che affligge drammaticamente la città. Scoprirà, con costernazione e orrore, che la causa del flagello è proprio lui: la colpa di cui si è macchiato tanti anni prima, e di cui era del tutto inconsapevole e quindi, in termini psicologici, largamente innocente, è così grave da aver avvelenato la terra. E si punirà cavandosi gli occhi, per non dover ancora contemplare la propria colpa.
Proprio com’era per lo sventurato Edipo, la cultura popolare del nostro tempo ci dice che neppure di una pandemia possiamo, oggi, dirci innocenti.
Una versione precedente di questo saggio è stata pubblicata il 22 febbraio 2020 su Doppiozero, qui.
Ascolta la puntata del podcast dedicata a Six Feet Under: una riflessione sulla rimozione della morte nell’epoca del Coronavirus.
Ascolta la puntata del podcast dedicata a The Walking Dead: un’esplorazione dei diversi modelli di società post-apocalittiche incontrati dai sopravvissuti (e perché franano tutti)
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