Fallout (Prime Video, 2024) è una serie americana basata sull’omonima saga di videogiochi di ruolo (creata da Interplay Entertainment e ora proprietà di Bethesda Softworks). La prima stagione (con una seconda già confermata), composta da 8 episodi di 1h – con 65 milioni di visualizzazioni nelle prime 2 settimane di disponibilità – è fino ad ora la seconda serie più vista su Prime dopo Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere (2022). E, con i suoi 153 milioni di dollari di budget, una delle più costose.
Prima di addentrarci nel merito di questa strana serie fantawestern, è doveroso però fare una considerazione introduttiva sulla relazione tra videogame e cinema/serie tv. Nella primavera del 2023 il film Super Mario Bros. ha incassato al botteghino più di un miliardo di dollari. Nello stesso anno esce The Last of Us, serie osannata da pubblico e critica (qui il nostro podcast). Entrambe le opere sono tratte da videogiochi e non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra.
Ad ogni modo, è un momento particolarmente felice per le trasposizioni cinematografico-seriali di videogame e fumetti. Che ormai da diversi anni possono anche vantare – e a buon diritto – d’appartenere all’olimpo artistico. Arte o meno che sia, si tratta di produzioni multimilionarie. Basti pensare al colosso della Marvel. Ad una serie come Halo (Paramount+, 2022). E a The Boys, il gioiello seriale prodotto da Amazon MGM Studios e giunto ora alla quarta stagione (qui il nostro podcast).
Cinema vs. Videogame
Il problema della rappresentazione cinematografica dei videogiochi è essenzialmente quello di riuscire a catturarne lo spirito. Fino a 20 anni fa (il mondo del gaming è nel frattempo molto maturato) sostanzialmente un videogioco era una sequela più o meno ripetitiva di situazioni da risolvere (penso a Tomb Raider o Mario Bros). Buona parte del successo di quei videogiochi era dovuto al fascino che scaturiva dai mondi di fantasia che ruotavano attorno a Lara Croft o a Mario e Luigi.
Il cinema aveva fino ad ora puntato tutto sulla spettacolarizzazione di quegli stessi mondi. Con un limite evidente: le avventure dei personaggi in questione non erano storie. Lara e Mario sono caratteri totalmente esteriori, senza psicologia o profondità. Senza dunque la possibilità di maturare e mutare attraverso un emozionante viaggio: metamorfosi che è l’essenza di ogni storia degna di questo nome (Propp docet).
L’uscita della serie The Last of Us (HBO, 2024) ha però decisamente cambiato le carte in tavola. Non solo perché, come dicevamo prima, le trame videoludiche hanno nel frattempo acquisito una certa profondità. È stato proprio il medium seriale a risultare vincente nella trasposizione, innanzitutto perché molto più vicino alla durata di un’esperienza di gaming.
Fallout: un nuovo capitolo della saga
Tante ore davanti ad un videogame, quante davanti ad una serie (ora più ora meno). Avendo quindi tutto il tempo per esplorare in lungo e in largo l’immaginifica vastità di un microuniverso di finzione. Nel caso di Fallout – serie e game – l’ambientazione è un mondo post apocalittico, in cui i protagonisti sono destinati a incontrarsi e scontrarsi per portare a termine la propria missione. Questo gioco – il cui primo capitolo risale al 1997! – è un’avventurosa esperienza ludica caratterizzata da una grande libertà di movimento e azione.
Questo show vince la sfida non banale di riuscire a conquistare sia il pubblico digiuno di videogame, sia gli aficionados (cosa davvero difficile). Proprio per evitare di annoiare questi ultimi, la scelta di Geneva Robertson-Dworet (Tomb Raider 2018, Captain Marvel) e Graham Wagner – showrunner e produttori della serie – è stata quella di creare non un adattamento di uno dei titoli a disposizione (quattro, con altrettanti spin off ed espansioni), ma un nuovo capitolo della saga videoludica. La serie è infatti ambientata nel 2296, a 9 anni di distanza dalle vicende di Fallout 4 (che è posizionato più avanti di tutti cronologicamente). A differenza della prima stagione di The Last of Us, che è una trasposizione quasi sempre molto fedele – talvolta persino visivamente – del videogioco.
La brillante soluzione di Jonathan Nolan
Con questa brillante soluzione, Fallout racconta una storia inedita e originale, ambientata nel mondo post apocalittico del gioco. Ovvero nella Wasteland (in it. La Zona Contaminata), vero paradiso radioattivo steampunk in cui il deserto si mescola a sontuose rovine di zone un tempo famose, improbabili villaggi costruiti da relitti e rottami si ergono qua e là, e diverse agguerritissime fazioni si contendono i pochi beni di prima necessità rimasti.
L’atmosfera da open world del videogioco si respira in questa serie a pieni polmoni (si fa per dire). Lo show naturalmente non necessita di conoscenze pregresse da parte dei non giocatori. Che non saranno intralciati da quella cornucopia di citazioni e ammiccamenti destinati invece a deliziare i fan.
I veri creatori di Fallout sono Jonathan Nolan e Lisa Joy (Westworld, Person of Interest). Che hanno saputo conquistare la Bethesda Game Studios, capitanata da Todd Howard e da tempo corteggiata dalle major per una cessione di diritti cinematografici. La risposta era stata sempre no, per evitare l’inevitabile delusione conseguente alla realizzazione di un film mediocre, che avrebbe scontentato tutti. Un esempio tra i tanti: Doom (2005). Ma Jonathan Nolan – fratello del più noto Christopher (Memento, Oppenheimer) – è un incallito giocatore di Fallout. Caratteristica fondamentale perché nascesse un’intesa tra lui e Howard.
Fallout: la storia
Il tono di Fallout è quello della black comedy, con incursioni nel dramma distopico, nella satira sociale e nel fantawestern. Del resto le ambientazioni da Far West sono tipiche di tutto il genere post atomico, a partire dal classico Mad Max (estetica assolutamente confermata anche nel più recente Mad Max: Fury Road).
All’opposto di The Last of Us, questa serie è pervasa da un senso di leggerezza, anche nelle scene di parossistica violenza splatter, tra il kitch e il pulp (alla The Boys per intenderci). Humor nero, horror, western, thriller, sci-fi… Attraverso la contaminazione di tutti questi generi viene raccontato un mondo da pelle d’oca. Nel 2077 l’intera civiltà umana è stata spazzata via da una terribile sequenza di esplosioni nucleari, in seguito alla Grande Guerra tra USA e Cina. I sopravvissuti vivono in piccole comunità di fortuna. O come solitari predatori. Oppure appartengono ad una fazione, come ad esempio la Fratellanza d’Acciaio. Una piccolissima parte della popolazione americana vive invece all’interno di giganteschi bunker, costretti in uno spazio chiuso (l’uscita è assolutamente vietata), ma dotati di comfort che il resto del mondo ha dimenticato.
Siamo nel 2296 – più di 200 anni dopo l’Apocalisse – in quella che un tempo si chiamava California, e più precisamente nei pressi di Los Angeles o di quel che ne rimane. Lucy (Ella Purnell – Yellowjackets) è una giovane ragazza, nata e cresciuta all’interno del Vault 33. Per tentare di ritrovare il padre rapito (Kyle MacLachlan – Twin Peaks), sarà costretta ad uscire dalla fortezza sotterranea per avventurarsi – per la prima volta – in superficie, nella Zona Contaminata. Il suo cammino si incrocerà con quello di Maximus (Aaron Moten – Mozart in the Jungle), giovane recluta della Confraternita d’Acciaio, il cui sogno è diventare finalmente un cavaliere, così da poter indossare la possente armatura d’acciaio.
L’ucronia di un’America anni ‘50
A chiudere il trio di protagonisti c’è il Ghoul (un impareggiabile Walter Goggins – The Shield, Justified), mostruosa creatura umanoide mutata in seguito alle massicce radiazioni. Il volto sembra proprio un teschio, soprattutto in virtù della vuota cavità al posto del naso. Inoltre sembra poter vivere per lunghissimo tempo. Nel corso degli 8 episodi vi è infatti una seconda linea narrativa: una lunga sequenza di flashback che racconta la vita di questo Ghoul prima del fatidico anno spartiacque 2077. Quando era Cooper Howard, famoso attore hollywoodiano specializzato in film western alla Gary Cooper.
Qui è doverosa una precisazione: l’America dipinta in Fallout nel 2077 non è semplicemente una proiezione nel futuro di quella presente. Si tratta di un’ucronia, un mondo alternativo in cui il Muro di Berlino non è caduto e la Guerra Fredda non è mai finita. In cui vige una strana tecnologia retrofuturista, dall’estetica anni ’50 (del Novecento). Il decennio in cui la minaccia nucleare conviveva tranquillamente con il sogno americano. In cui il maccartismo imperava ovunque, imponendo l’assurda cultura della delazione e quindi il tradimento dei propri amici, colleghi e vicini come stile di vita. Cooper Howard è ricco, affascinante e gentile. La moglie Barb (Frances Turner – The Man in the High Castle) lavora per la Vault Tec – la multinazionale che produce le omonime cittadelle-rifugio antiatomiche. Attraverso l’indagine di Cooper su questa misteriosa società, scopriremo le oscure cause dell’imminente bombardamento globale…
219 anni dopo, Cooper è un Ghoul – qualcosa a metà strada tra l’umano e lo zombie. Con un corpo radioattivo in perenne putrefazione, ha mantenuto il look da cowboy B-movie e fa il cacciatore di taglie. È diventato cinico e perverso, e uccide il prossimo senza nessuna pietà.
L’estetica della leggerezza di Fallout
Il Ghoul rappresenta la morte che in quel mondo è dietro ogni angolo, perfetto contraltare all’ingenua innocenza di Lucy (che per certi versi ricorda Starlight di The Boys). Che ha trascorso i suoi primi 20 anni dentro una piccola società regolata da rigide regole democratiche e permeata da buoni sentimenti. Per sopravvivere nella Wasteland, dovrà mettere tutto in discussione. Il padre, come dicevamo, è stato rapito da Lee Moldaver (Sarita Choudhury – Law & Order SVU), leader di una fazione ribelle nota come Riders.
Un’altra importante fazione, già citata, è la Confraternita d’Acciaio, a cui appartiene il giovane scudiero Maximus. Gruppo tecno-religioso di stampo paramilitare con un vero e proprio culto per gli artefatti tecnologici disseminati tra le rovine del mondo, come i tostapane (sic). Alcuni ‘eletti’ vengono dotati di un grande esoscheletro robotico, che li trasforma in guerrieri quasi invincibili. Questa vistosa e ingombrante armatura è volutamente esagerata, quasi caricaturale. Come altri elementi estetici del genere, che fanno parte della filosofia un po’ fumettistica della saga di Fallout.
Come ad esempio molti brani della colonna sonora (a cura dell’eccellente Ramin Djawadi – Game of Thrones), presi direttamente dal repertorio intorno agli anni ’50. In perfetta linea con l’ambientazione della serie e spesso irresistibile contrappunto, con effetto sdrammatizzante, di scene particolarmente intense o violente. Volutamente nella direzione opposta a quella di The Last of Us, storia di sopravvissuti piena di tristezza e disperazione.
In attesa della seconda stagione
Un ultimo confronto tra i due show: mentre il secondo traspone in serie un gioco tutto sommato recente, Fallout si confronta con una realtà videoludica nata 30 anni fa. E che in questi 30 anni è andata espandendo a dismisura il proprio universo di fantasia. Che è poi la desolata e maestosa vastità della Wasteland (con location tra lo Utah e la Namibia!). O i labirintici sotterranei del Vault, dall’assurda tecnologia retrò, dove Norm (Moises Arias – The Middle), il fratello di Lucy, porterà avanti la sua indagine parallela. L’open world del videogame diventa qui un elettrizzante parco giochi, pieno di mostri e misteri, da esplorare attraverso le avventure di protagonisti e personaggi secondari. Alcuni dei quali interpretati da brillanti attori, come Michael Emerson (Lost), Matt Berry (What We Do in the Shadows), Chris Parnell (Brooklyn Nine-Nine) e Fred Armisen (Parks and Recreation).
Per chiudere con qualche altro nome, ricordiamo che la regia dei primi 3 episodi è dello stesso Jonathan Nolan. Gli altri sono diretti da Clare Kilner (House of the Dragon, Gen V) e Frederick E.O. Toye (American Gods, The Walking Dead).
Non tutta la critica ha premiato la serie di Fallout, anzi per alcuni è un’opera “disordinata” e che, al termine della prima stagione, lascia un senso di “sollievo” piuttosto che di “attesa” per il futuro. Noi non siamo evidentemente d’accordo con questo giudizio, pur consapevoli della natura in buona parte necessariamente introduttiva di S1. Non ci resta allora che attendere, con non poco entusiasmo e molta curiosità, l’uscita di S2.
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