Faccia d’angelo è una miniserie Sky del 2012 in due episodi, diretta da A. Porporati, tratta da Una storia criminale (1997), il libro biografico di Felice Maniero, lo storico boss della Mala del Brenta, scritto con A. Pasqualetto. Disponibile oggi anche su NOW.
Il libro era già stato oggetto di interesse da parte di P. Pillitteri (ex sindaco di Milano, docente di storia del cinema e cognato di Craxi). Ma, non avendo trovato produttori, il progetto rimase sulla carta. Si deve indubbiamente al successo di Romanzo Criminale (2008-10: ne abbiamo parlato qui), il successivo annuncio di una miniserie televisiva Sky basata sul libro di Pasqualetto. Lo stesso Porporati ne accetta la scrittura e la direzione perché convinto il piccolo schermo possa concedere una “libertà superiore al cinema anche per la dimensione del romanzo, dello spazio che racconta personaggi in profondità”.
Ad ogni modo questa nuova sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con E. Bucaccio e A. Sermoneta, non ha bisogno di tanti creativi colpi di scena, basandosi su una vita già di per sé avventurosa e leggendaria.
Chi è Felice Maniero, alias Faccia d’angelo
L’esistenza in questione è quella di Felice Maniero, il grande gangster che per anni ha dominato sull’economia criminale del Nord Est. Ma per ragioni di sicurezza non meglio specificate, nella miniserie il suo nome (Maniero è collaboratore di giustizia dal 1995) non viene mai pronunciato.
Nato da una famiglia assai povera a Campolongo Maggiore, nelle terre veneziane confinanti con la provincia di Padova, fonda dal nulla un vero e proprio impero criminale – con rapine romanzesche e fughe da carceri di massima sorveglianza che sono entrate nel mito – tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni novanta. Sono proprio gli anni del boom economico del Nord Est. Il denaro scorre a fiumi tra ville, gioielli, abiti firmati e macchine di lusso… e infine, tra casinò e cocaina.
Il Toso è ambizioso e addirittura presuntuoso nell’ostentare la propria ricchezza. Una delle scene più emblematiche e memorabili lo vede, compiuti da un solo giorno i 18 anni, alla guida di una splendida e fiammante Ferrari, in compagnia di una discinta e avvenente signorina. Viene fermato ad un posto di blocco e il cavallino rosso fuoco viene sequestrato. Alla domanda, posta dal Carabiniere in servizio, su come potesse così giovane permettersi un simile bolide, la sardonica risposta è: “Xé tre anni che fasso rapine…” (Sono tre anni che faccio rapine – cito a memoria). Il Toso, accompagnato dalla lamentosa – a causa dei tacchi – fanciulla, raggiunge a piedi la concessionaria più vicina, e ne compra un’altra, identica a quella di prima, in contanti… Sfreccia davanti al posto di blocco di prima, ma questa volta tira dritto.
Infanzia, adolescenza e primi successi del “Toso”
Il significativo incipit della prima tra le due puntate di Faccia d’angelo ci mostra un bambino con un’intelligenza fuori dal comune, capace di recitare a memoria la Divina Commedia al contrario. È il 1967 e questa brillante esibizione non è comunque sufficiente a vincere la borsa di studio e, soprattutto, il disprezzo dell’esaminatore. Quasi 20 anni dopo un gruppo di rapinatori a volto coperto e mano armata irrompe nell’aeroporto Marco Polo di Venezia, impossessandosi di 300 kg di oro.
L’ispettore Ricci (Carmine Recano), assieme ai suoi nuovi colleghi, consapevoli si tratti della banda del Toso, ne ricostruiscono la storia. A partire dagli inizi – lungo la Riviera del Brenta, a metà anni settanta.
Il giovane Toso, con l’aiuto dei suoi compagni più fidati – Tavoletta (Matteo Cremon), il Moro (Andrea Gherpelli), Schei (Fulvio Molena), il Doge (Diego Pagotto) – decide di sequestrare una ricca signora del posto per chiederne il riscatto. Il piano, il primo di una lunga serie di sequestri e rapine, funziona alla perfezione e nel giro di pochi anni la banda si arricchisce notevolmente.
Il Toso e compagnia entrano allora nel giro delle bische clandestine e dello spaccio di droga, mettendosi in affari con Arsenale, il potente boss della malavita tra Padova e Venezia. E, attraverso questi, con l’ancora più potente Siciliano.
Sposato e con un figlio in arrivo, per il quale non è certo disposto a mettere da parte la sua fame di potere, il giovane mostra spiccate e brillanti doti imprenditoriali che incrementano sensibilmente i guadagni della mafia. In poco tempo scavalca Arsenale e arriva a controllare la quasi totalità del giro di bische clandestine e spaccio di stupefacenti del Nord Est. E proprio Arsenale, su ordine del Siciliano, sarà la prima vittima della banda del Toso.
Arresti, evasione, latitanza
Tutto sembra andare per il meglio – il gruppo fa soldi a palate, il Toso si innamora di una studentessa universitaria incontrata in discoteca – quando la moglie Grazia viene trovata morta nella sua villa. Incidente o ritorsione che sia, il Toso non tornerà mai più tranquillo, nonostante tutta la zona della Riviera del Brenta lo idolatri e lo protegga. Vedendo in lui un vincente e osteggiando, per istinto o tradizione, le forze dell’ordine e lo Stato.
La seconda puntata di Faccia d’angelo si apre con il primo arresto del Toso, avvenuto a Modena – città su cui vogliono estendere ora il controllo – nel 1987. L’uomo viene condotto nel carcere di massima sicurezza di Fossombrone, ma anche senza di lui, il business continua regolare e invariato – Schei fa le sue veci.
Non le farà però per molto: viene infatti ucciso in un agguato, e la stessa fine fa il Moro. Inoltre la sua innamorata, la studentessa, perde la vita in un banale tragico incidente stradale. La pressione sale. Il Toso, con il pretesto di conseguire una laurea in architettura, ha avuto modo di studiare gli antichi condotti fognari, ormai in disuso, della prigione. Segue la spettacolare e rocambolesca evasione con un altro detenuto, un ex terrorista di estrema sinistra di recente convertitosi alla filosofia imprenditorial criminale del Toso.
Inizia il periodo della latitanza, mentre i soliti traffici continuano a ritmo serrato. Ma non tutto fila liscio. L’ennesimo tentativo di sequestro finisce insolitamente in tragedia. Con l’ostaggio lasciato in fin di vita e il grave ferimento di Tavoletta che – non potendo essere portato in ospedale – verrà imbarcato su un volo per Bogotà con una pallottola nel ventre. I fratelli Giudecchini, soci malavitosi di lungo corso, vengono freddati perché sospettati di spacciare droga a Venezia, al di fuori dei canali della banda.
Le due parti di Faccia d’angelo
Nel frattempo, il ricorso al reato di associazione mafiosa nel maxi processo contro la mala del Brenta rischia di esporre il boss al carcere duro – il cosiddetto 41 bis – e il Toso decide di lasciare l’Italia. Fingendosi un ricco imprenditore, acquista un lussuoso yacht per trasferirsi in Croazia con il figlio. Ma commette l’errore di indugiare un po’ troppo nel mare di Capri… L’ispettore Ricci, che non aveva mai smesso di dargli la caccia, lo attende sul molo: è la fine, e il Toso viene nuovamente arrestato.
La tempesta è in arrivo è il pezzo originale degli Afterhours posto all’inizio e alla fine delle due parti di Faccia d’angelo. Una prima parte frenetica, come gli anni della giovinezza e della fame di soldi e di potere. Una seconda parte più lenta e riflessiva, dove la disillusione prende poco a poco il sopravvento mentre il suo impero si va sgretolando.
Fino all’arresto a Capri. Che è un finale arbitrariamente romanzato, poiché nella realtà la biografia di Maniero sarebbe ancora ricca di avvenimenti. Seguono infatti un fallito tentativo di fuga, il trasferimento a Padova, il processo, la storica fuga dal carcere patavino di massima sicurezza, la latitanza, la definitiva cattura a Torino, e il suo pentimento finale…
Pentimento in virtù del quale finiscono in galera molte, moltissime persone. “Comandavo più di trecento persone e l’unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri sono in galera, vecchi, distrutti, disperati…” dice il vecchio Felice Maniero.
Lui allora era l’unico boss, tutti gli altri le sue marionette. E ora lui è l’unico in libertà, tutti gli altri sono dietro le sbarre oppure sono morti: il che la dice davvero lunga sul personaggio in questione.
Germano e Maniero
L’interpretazione di Elio Germano è senza dubbio strepitosa. Di origine romana, è perfettamente a suo agio con la lingua veneta. Non solo con la cadenza e l’intonazione ma soprattutto con lo spirito – la saggezza contadina, l’ironica intelligenza – sotteso da questo particolare modo di parlare. Nello stesso periodo usciva nei cinema Magnifica presenza di Ozpetek, dove si confronta con il dialetto siculo, a testimonianza di una potenza espressiva e di un rigore attoriale senza eguali nella sua generazione.
Con una scelta acuta e coraggiosa, Germano ha preferito non incontrare direttamente Maniero, perché non gli interessava “conoscere la persona vera ma piuttosto la percezione che hanno gli italiani del suo personaggio per creare una continuità con l’immaginario”. Ha quindi preferito basare le sue ricerche sui filmati di repertorio e i servizi giornalistici dell’epoca.
Il suo Toso ha uno splendido ghigno beffardo e beffarda è pure la sua ben marcata cadenza veneta. Ma il vero Maniero, che ora vive in una località segreta, ha disconosciuto la miniseria, considerandola “una visione distorta della malavita, un malavitoso non si comporta certo così… è solo una misera fiction da cassetta”.
Come per Vallanzasca – Gli angeli del male, lungometraggio di Michele Placido, Faccia d’angelo ha subito pesanti critiche, anche preventive, per la scelta di raccontare un personaggio immorale come Maniero. Naturalmente è inaccettabile l’idea di una produzione che porti con sé un giudizio etico negativo a priori sul protagonista: anche se proprio questo accadeva nelle trite e ritrite fiction italiche sulle forze dell’ordine buone che arrestano i malviventi cattivi.
Il punto non è, al contrario, esaltare l’immagine fascinosa del bandito ma riuscire invece a realizzare un’opera che non sia “un santino ma neanche un fumetto” – problema che poi sarebbe stato amplificato in Gomorra, e che era già ben presente in Romanzo Criminale.
Capitalista senza scrupoli, mitomane infantile
Rispetto ai suoi colleghi seriali romani e napoletani, il Toso non solo è refrattario a sporcarsi le mani. Anzi, è genuinamente convinto che il sangue non faccia bene agli affari. Tanto che “tenendo questa distanza dai crimini ed evitando di mettersi a confronto con l’orrore, probabilmente il boss si reputava una brava persona” (sempre Germano). Ma “quest’idea a-morale di crescita nella ricchezza, senza spargimento di sangue, s’infrange nella realtà perché la mafia porta in sé il legame con la violenza e con il sangue” (Porporati).
E qui – nella sceneggiatura di Faccia d’angelo come nell’interpretazione dell’attore – viene magistralmente fuori la fondamentale dicotomia del personaggio. Capitalista criminale scaltro e senza scrupoli da una parte, infantile mitomane pieno di illusioni dall’altra. Convinto che la sua forsennata ricerca del profitto sia addirittura indispensabile per la comunità. E che lo strepitoso successo nei suoi sporchi affari sia di per sé segno di una ragione superiore. Una ragione che giustifichi tutto ciò che fa e che, in qualche modo, debba preservarlo, assieme ai suoi affetti, da ogni male.
“Avvocato, io sono necessario a questa società!” (cito sempre a memoria).
Questa illusione è destinata a scontrarsi con l’amarezza comprensiva della madre. Con i traumi indelebili che segnano suo figlio. E, infine, con la terribile morte della sua amata, dovuta ad un fatale incidente. “Forse ha capito davvero il senso della tragedia solo quando si è trovato faccia a faccia con la morte all’interno della sua famiglia” – dice ancora l’attore protagonista. Famiglia sublimata nella drammatica figura della madre del Toso, interpretata da Katia Ricciarelli. Che lo appoggerà incondizionatamente fino alla fine, in silenzio, senza mai chiedergli conto della sua vita criminale. L’unica domanda che in tal senso gli farà, poco prima dell’arresto finale, riguarda per l’appunto i morti che gli vengono imputati: Xè vero che te ghé fatto mae ae persone? È vero che hai fatto male a delle persone (sempre a memoria)
Faccia d’angelo come Gomorra: criminalità fittizia e reale
Curioso come durante la lavorazione di Faccia d’angelo l’ombra dell’illegalità criminale sia più volte apparsa qua e là (qualcosa di simile è accaduto anche con Gomorra). Ad esempio: durante un normale controllo di polizia dei documenti della troupe, per una sessione di riprese all’interno del carcere di Gorizia, un autista sloveno è stato fermato e realmente incarcerato. Perché ricercato dal 2006 per una condanna a 6 mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Avvenne poi un sequestro, da parte delle forze dell’ordine, di 47 armi da fuoco sceniche non correttamente modificate, per cui venne temporaneamente sospesa la lavorazione della miniserie, assieme ad altre (Squadra antimafia 3, R.I.S. Roma 2, ecc).
Infine, a pochi giorni dalla messa in onda di Faccia d’angelo , si disse che la produzione avesse lasciato debiti per 550.000 euro in Slovenia (caso che è attualmente in esame presso il tribunale di Lubiana).
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